LETTERATURA: Marco Candida: “Incendio nel bosco”
11 Maggio 2020
di Bartolomeo Di Monaco
Nato a Tortona, in provincia di Alessandria, Candida, coi suoi 41 anni, si può definire ancora uno scrittore giovane, poiché giovane è la sua scrittura, la quale non è mai conforme, ma si fa ogni volta capricciosa e sorprendente. Difficile darle un corso diverso, visto che essa denota perfettamente la sua personalità sin dall’inizio del suo cammino letterario e che gli consente una versatilità capace di farlo passare con disinvolta piacevolezza dal romanzo, al racconto, al saggio, al reportage. La sua produzione è feconda, per non dire straripante. Della sua bravura di accorse uno degli scrittori che più amo, Giulio Mozzi, che lo fece esordire nel 2007 con il romanzo “La mania per l’alfabeto”, Sironi editore, e che ospita spesso i suoi scritti sulla prestigiosa rivista on line “Vibrisse”.
Non vi nascondo che affronterò insieme a voi questa lettura con grande curiosità, sapendo già in anticipo che non mancheranno sorprese e preziosità. Un libro di Candida non è mai fatuo o inutile.
L’incipit ci descrive l’avvio di un incendio, e già ci consente di farci un’idea della sua bravura: “Viene alla luce su un letto di ramoscelli ai piedi di un abete rosso, rosa infuocata, petali mossi da un venticello quasi dolce, intimo, frangette di un panno che sventola e sventola. In questo momento seminale il fuoco è focolare. Sprigiona calore materno, primigenio, incantevole allo sguardo. Scontorna le cose intorno sì che a guardarle sembrano immagini di un sogno e viene da dubitare della loro consistenza stessa.”. Quel fuoco pare un essere vivo, perfino pregno di una umanità scintillante e tenera.
Che poi, all’improvviso, divampa e distrugge assumendo la fisionomia di un mostro vorace.
È un mutamento che la scrittura segue con sorprendente e scorrevole elasticità, con un periodare lungo che accompagna la trasformazione in ogni particolare, come se ci trovassimo di fronte ad una magheria. Il tenero che si fa vampa divoratrice: “se ci si alza a volo d’uccello e si guarda dall’alto, il demone cambia forma senza posa, e diventa tornado, e mare in burrasca, con cavalloni impazziti che si solcano e attraversano, onde di fuoco, esplosioni di schegge e detriti, altro che sassolini e pietre colorate e cavallucci marini e tartarughe!, e al passaggio di questo demone immenso le schegge stesse si disintegrano in un soffio, nulla rimane, nulla viene risparmiato, violazione delle dimensioni più intime, penetrazione nell’impenetrabile, levandosi a volo di uccello vediamo il diavolo spaventoso diventare montagna, pinnacolo babelico gremito di anime in fiamme e urlanti”.
La scrittura, con la successione rapida dei passaggi, inserita nel lungo periodare, dà esaltazione e coralità all’immagine che il lettore vede davanti a sé, quasi un’identità mitologica scesa sulla terra a prendersi una qualche vendetta.
Essa richiama vari autori nostrani che hanno fatto del periodare uno stilema, quali, ad esempio, Silvio d’Arzo, Stefano D’Arrigo, Antonio Pizzuto, Giovanni Mariotti, col gusto di piegare la parola al ritmo e al suono.
Nel bosco ci sono due innamorati, Rosa e Fiore, il suo amante, poiché Rosa è sposata con Silvano, il padrone del bosco in fiamme, anche se “i due se la filavano da molto prima che arrivasse Silvano.”.
L’autore ha scelto di attirare l’attenzione sulla storia dei due giovani amanti, il cui fuoco interiore li ha portati a sfidare le convenzioni della società e appaiono ribelli come ribelli sono le fiamme che stanno incendiando il bosco, loro nido d’amore. Si stabilisce tra le due situazioni una relazione ed un significato metaforici.
La storia di questo amore è narrata con fughe sollecitate da una scrittura indomita. Le parole, le immagini si susseguono rincorrendosi come le lingue di fuoco dell’incendio che avvolge i due innamorati.
Il capitolo primo che ci ha descritto l’incendio entra di forza nella narrazione, e vi rimarrà sino alla fine, come architrave del tutto. Le parole vi si consumano dopo averci incendiato con il loro significato. La loro consistenza si affievolisce in una espressività che, in sostanza, si fa aerea e leggera, come cenere smossa da una raffica di vento, la quale porti in sé, tuttavia e miracolosamente, e come dentro un collage, un germe di vita. Tali sono, ad esempio, le poesie riportate dalla ragazza quando ricorda a Fiore le qualità di Silvano, suo marito.
I personaggi si succedono come fossero tasti di un pianoforte; emettono il loro suono e poi, scemando, lasciano il posto a quello successivo. Fiore, Silvano, Rosa, Zara e gli altri da minuti semi dispersi nella cenere, si trasformano in suoni ed in echi.
Intanto il fuoco divampa e i due innamorati non sanno che fare: “Gli alberi al di là del cerchio di fuoco si accartocciano uno dopo l’altro come fantocci giganti a cui vengono di colpo recisi i fili e il cerchio si stringe e stringe attorno a loro, e l’aria si fa irrespirabile a ogni secondo, e sembra pertanto non esserci altra soluzione che buttarsi sulle fiamme a occhi chiusi arrostendo il più in fretta possibile.”.
Il boschetto si trova sul monte Argentea e pare divenire il centro del mondo, e addirittura il ventre della terra, con il suo magma incandescente. I personaggi spuntano e si agitano come le teste di un’idra. Paiono sussulti, colli che si allungano e si accorciano. Il mistero della parola toglie loro il senso compiuto per ergerli a geroglifici di una esistenza schizzata su di una pozza d’acqua, eterei e cangianti. La realtà diventa elastica e multiforme, schizofrenica. Nessuno dei personaggi o coppie di personaggi, che ci troviamo davanti con la propria storia, occupa stabilmente il centro del romanzo, dando l’impressione che l’autore voglia fare della scrittura la sede di una qualche divinità creativa, una medusa agitata ma assoggettabile, capace di produrre fantasmi e scintille: “In quegli attimi senza più un briciolo di ossigeno nei polmoni anche questi dettagli le si presentano alla mente come se scuotendosi la testa le cascasse dal cervello un po’ qualunque pensiero come quando si rovescia uno scatolone pieno di roba, e tant’è, per quanto possa suonare incredibile, quell’immagine dell’istruttore le provoca, lì, sott’acqua, un abbozzo di sorriso, quasi un sentimento di piacere, mentre i capelli le si allungano in ogni direzione come se avesse una corona d’alghe attorno al cranio, e arriva sul fondo petroso del letto del torrente grattandosi le ginocchia, ammaccandosele e sbucciandosele, e poi sentendosi travolgere dalla corrente del fiumiciattolo che la costringe a qualche capriola subacquea e a roteare su se stessa dando l’impressione di essere in una centrifuga”.
Quel po’ di quiete che la scrittura (la vera protagonista del romanzo) pare assumere con storie più decifrabili, come quella tra Liam e Silia, o i ricordi di personaggi storici, appaiono come momenti di pausa concessi a uno spartito musicale in cui le note si modulano a partire dai toni alti e ossessivi, fino a spianarsi in direzione del finale.
Ecco la descrizione di Silvano, che pare modellarsi ad una sperimentazione meno ardita e più classicheggiante: “e l’uomo, quest’uomo, sta fumando un sigaro, bello grosso, vestito con una camicia bianca con i primi due bottoni slacciati e un paio di pantaloni eleganti, i capelli biondi tirati indietro e fissati dietro la nuca da un elastico quasi invisibile, la fronte percorsa da qualche ruga orizzontale appena visibile, le sopracciglia folte e morbide, a conferirgli un’aria leonina, gli occhi grandi, il naso dal profilo delicato, le labbra carnose, rosse, la pelle del viso cotta dal sole estivo”.
Candida è uno sperimentatore; le sue storie rispondono ad un suo personale pentagramma. Il lettore noterà i vari passaggi a cui la scrittura, in un succedersi digradante con tonalità e forza quasi magnetiche, è stata sottoposta al servizio delle esigenze del racconto. L’incendio e il fiume in cui Fiore e Rosa si sono rifugiati per difendersi dalle fiamme costituiscono e restano, tuttavia, la chiave della partitura. Tutto nasce e si muove da lì.
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