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LETTERATURA: Potremo mai tornare ad essere così

31 Gennaio 2020

di Bartolomeo Di Monaco

Potremo mai tornare ad essere così, come ci ricorda Luigi Barzini jr. nel suo “Gli italiani. Virtù e vizi di un popolo�

“Nulla che avesse qualche importanza poteva essere intrapreso nel resto d’Europa, a quel tempo, senza prima recarsi a vedere che cosa avessero escogitato gli italiani e che cosa avessero scoperto o inventato di recente. Pittori, architetti, scultori, oltre a costruttori navali, medici, teologi, ingegneri, astronomi, giuristi, matematici, scienziati e studiosi, arrivavano ininterrottamente dall’estero. I letterati inglesi vennero a imparare la tecnica della poesia e ad imitare nuovi modelli di composizione. I mercanti facevano la spola tra le cittadine sedi di mercato, alla testa di carovane di muli carichi, percorrendo strade migliori e lievemente più sicure di un tempo. Si prendeva nota di tutte le novità che capitava di vedere, delle nuove mode. L’inglese Thomas Coryat scrisse, nel 1611, descrivendo ai suoi rozzi compatrioti una delle cose che avevano fatto sbalordire gli stranieri per più di un secolo: «Ho osservato una costumanza… che non è in uso in alcun altro paese da me veduto nel corso dei miei viaggi. Gli italiani, ed anche quasi tutti i forestieri che dimorano in Italia, si servono sempre durante i pasti di una piccola forchetta quando tagliano la carne… Le forchette son fatte quasi sempre di ferro o di acciaio, e talune di argento, ma queste ultime vengono adoperate soltanto da gentiluomini. Questa costumanza è dovuta al fatto che l’italiano non sopporta assolutamente di vedere il suo piatto toccato con le dita, visto che non tutti gli uomini hanno le dita ugualmente pulite ».

Alcune locande erano nel frattempo divenute più ospitali. La migliore si trovava ad Urbino, fatta costruire dal duca, forse il primo albergo comodo dei tempi moderni. La descrisse, nel 1578, un anonimo francese: «È la migliore e la più vasta d’Italia. Vi sono quaranta camere da letto, tutte sullo stesso piano, e tutte danno sulla stessa lunga galleria. Vi sono inoltre cinque o sei sale da pranzo, assai mirabilmente decorate come se l’edificio fosse il castello di un nobiluomo ». Tutti coloro ch’erano qualcuno venivano in Italia. Le università erano piene di giovani stranieri: alcuni studiavano con impegno, altri facevano baldoria. I padri ricchi e potenti di tutta Europa mandavano i figli in Italia a imparare qualche nozione d’italiano, ch’era la lingua confacente alla diplomazia, alla vita di corte, all’amore e all’intrigo; si attenevano alla massima dell’imperatore Carlo V: «Parlo spagnolo con Dio, italiano con le donne, francese con gli uomini e tedesco con il mio cavallo ».
I giovani venivano inviati a imparare una cosa soprattutto, il modo di divenire perfetti gentiluomini. D modello era stato inventato e perfezionato dagli italiani del tempo. «Essere un gentiluomo », scrisse Symonds (ndr John Addington Symonds), il quale credeva di esserlo, «significava essere un uomo che conoscesse per lo meno i rudimenti del sapere, che fosse raffinato nella dizione, capace di scrivere lettere o di parlare con belle frasi, aperto alla bellezza delle arti, interessato in modo intelligente all’archeologia, un uomo il quale prendesse a modello di comportamento i grandi dell’antichità piuttosto che i santi della Chiesa. Si richiedeva inoltre che si dimostrasse esperto negli esercizi fisici e nelle norme cortesi sopravvissute alla cavalleria. Fino a questo punto la ridesta intelligenza del Rinascimento, istruita dall’umanesimo, raffinata dalle belle arti, in grado di espandersi nelle condizioni favorevoli della diffusa ricchezza, aveva portato gli italiani in un periodo in cui il resto dell’Europa era ancora relativamente barbaro. »â€.


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Bart