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La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

LETTERATURA: SCRITTORI LUCCHESI: Enrico Bertozzi: “Argo”

25 Novembre 2020

di Bartolomeo Di Monaco

Uscito nel 1982, è una storia di abbandono e di irriconoscenza. Contrariamente a quanto scrive l’amico Giorgio Bárberi Squarotti nel suo lusinghiero commento, è proprio per l’abbandono e la irriconoscenza che io vedo una connessione con l’Argo più famoso, il cane di Ulisse. Sappiamo poco di lui, ma quando l’eroe omerico ritorna a Itaca lo trova immerso nella sporcizia e nella desolazione, dimenticato. Nessuno ha continuato a trattarlo quale fedele compagno del padrone di casa. Partito lui, per la lunga guerra di Troia, nessuno lo ha più accudito e ha dovuto arrangiarsi da solo, come il cane di Bertozzi. Riconoscerà il padrone, l’unico a riuscirci, e morirà per l’emozione provata. Ulisse, che mai ha versato una lacrima nel corso della sua odissea, la verserà per lui, molto probabilmente anche per le condizioni miserabili in cui lo ha ritrovato.
Ma ora andiamo a conoscere l’Argo di Bertozzi.
È un cane da caccia e appartiene a Feliciano e a Giusi, il primo senza barba, il secondo barbuto. Un giorno, si lascia sfuggire la lepre, irritando Feliciano. Per fortuna viene uccisa da Giusi, appostato più avanti. Ecco la bella descrizione della lepre un istante prima di essere colpita e nel momento della morte: “Era tranquilla, perché dà fiducia il luogo dove s’è sempre stati bene. Dopo essersi pulita il muso con le zampe davanti uscì senza sospetto allo scoperto. Vide un lampo, e non era male, sentì uno scoppio, e non era male, ma portò una percossa che la stroncò. Rimase a occhi aperti come aveva l’abitudine di fare nel sonno. E come quando dormiva a occhi aperti non vide immagini.”.
Chi ci ha seguiti nelle letture che stiamo dando dei romanzi di questo scrittore garfagnino, ha potuto rendersi conto della sua bravura. Impiegato di banca, scrive per una autentica e forte vocazione. Qualsiasi mestiere avesse praticato, questi romanzi sarebbero usciti tali e quali dalla sua penna.
Ha una scrittura limpida, ma capace di specialità, come si è visto nella bella descrizione della morte della lepre. Sono zampate che fanno ricordare quelle di Mario Tobino, improvvise, non annunciate, spiazzanti e tali da destare una forte meraviglia.
Meriterebbe che qualche critico di fama gli rendesse gli onori postumi che merita.
Io glieli rendo con le mie letture, sicurissimo di fare opera di giustizia in un mondo spietato, come quello della letteratura, dove spesso si acquisisce fama immeritata grazie a tante complicità.
Bertozzi è stato uno scrittore del silenzio, isolato, dedito al suo lavoro e alla sua terra. A spingerlo non era alcun desiderio di notorietà, ma il bisogno insopprimibile di trasformare il suo profondo sentire in arte.
Feliciano, ma anche gli altri amici cacciatori, non è contento del suo cane; perfino gli spara: “Alla sferzata del piombo Argo perse per un attimo l’uso delle gambe di dietro, poi, riavutosi, urlò a gola aperta il suo dolore e arava la terra col culo spostandosi in giro.”.
Giusi non era riuscito a fermare in tempo il compagno.
Fu deciso “di abbandonarlo tra i monti di un’altra regione.”.
L’abbandono è umiliante. Avviene con l’inganno. Il cane ha sentito la lepre e corre e s’inoltra nel bosco. Feliciano e Giusi lo incoraggiano, battendo anche le mani. Ma una volta sparito alla loro vista, si allontanano, tornano alla loro auto e lo abbandonano al suo destino.
D’ora in avanti Bertozzi, ribellandosi a questa cattiveria, lo accompagnerà e seguirà, invece, e ce ne farà conoscere la storia, purtroppo sofferente e malinconica. Lo innalzerà al ruolo di protagonista.
Argo non trova più i padroni: “Cresceva intanto dentro di lui la paura di essersi perso, d’esser rimasto solo in un posto mai visto, e lo sgomento di non poter ritrovare la strada gli dava un senso di gonfiore ed oppressione in tutto il corpo e gli serrava la gola. Non sapeva più quel che fare, ma glielo suggerì l’Istinto. Intanto bisognava cominciare a tener la bocca un po’ aperta, gemere per non scoppiare, poi cercare uno sfogo, uno sfogo più grande, aprire di più la bocca, mandarlo fuori il dolore.”.
Argo è diventato uno di noi, coi nostri smarrimenti, le nostre ansie, le nostre paure, i nostri sconforti: “E gli abbai durarono per ore a scoppiare dall’alto giù per le faggete deserte, giù fino alle selve, fino alle gole dei torrenti. Era quello il richiamo per i padroni, il lamento di chi si trova male solo.”.
Ci sono, in queste parole, intrecciate e amalgamate, la forza e la disperazione del dolore.
Ci viene in mente Jack London e il suo celebre “Zanna Bianca”, uscito a puntate nel 1906.
Bertozzi ci farà vedere, in sovrappiù, il mondo degli uomini visto da un cane, un punto di osservazione suggestivo e originale.
Il lettore ne è attratto. Gli occhi di un cane aperti sul palcoscenico umano. Argo ha fiducia nell’uomo, nonostante ciò che gli è accaduto. Sono gli uomini, invece, a dare mostra di un animo cinico e egoista, restio alla pietà e alla misericordia: “Quando i ragazzi, a comando, si chinarono a prendere i sassi, s’insospettì, restò a distanza, ma si dimenticò la cosa e tornò vicino ai ragazzi perché lo chiamavano. Lui invece chiedeva ancora pane.”.
Quei ragazzi lo prendono a sassate: “Al riparo degli alberi Argo, mentre si leccava i punti dolenti, non trovò nella cosa né malizia, né cattiveria, né tradimento perché quel che succede succede, e prima non si sa, ma si convinse che gli uomini sono tutti temibili ed è bene stare lontani.”.
Il rapporto con l’uomo si fa diverso, sta cambiando. Non più fiducia piena, come era prima, anche se l’uomo e le sue abitudini restano, comunque, sempre un punto di riferimento.
Argo sta osservando un cacciatore, il quale spara a uno scoiattolo, lo uccide senza però riuscire a ritrovarlo, non avendo un cane con sé. Se ne va, e ci pensa Argo a scovare il corpicino dello scoiattolo, “con un piede lo tirò fuori e se lo mangiò.”.
Ha fame e entra in un pollaio. È notte e le galline dormono: “Afferrò la gallina più bassa e se la tenne fra le zampe. Siccome si mise a strepitare e quel fracasso usciva dalla testa, il cane gliela schiacciò fra i denti diverse volte e il sapore del sangue e del cervello sembrò buono. La gallina tacque.”.

Si sta inselvatichendo; c’è poca differenza tra lui e una volpe. Il lettore avverte che può già scambiare l’uno per l’altra: “Ormai Argo s’era abituato senza accorgersene al mondo selvatico dove ogni sasso che rotola rende attenti, ma anche un’ombra, anche il poco rumore, e dà sospetto un uccello che smette di cantare, paura se vola via.”.
Bertozzi agisce attraverso un processo minuto e lento, restituendo alle proprie origini un cane che era stato addomesticato.
Allorché il padrone del pollaio chiama un giovinetto a far la guardia di notte per acciuffare la bestia che gli uccide le galline, portandosele via, viene alla mente Pinocchio quando, legato alla catena, fa la guardia ai ladri.
Il racconto ravviva tanti ricordi letterari e forse quelle immagini sono passate anche nella mente di Bertozzi, mentre creava le sue.
È un merito, anche questo, del libro.
Il povero Argo, nel corso di uno dei suoi furti, rimane preso dal filo spinato, una punta del quale gli squarcia una gamba e lo lascia appeso alla rete. Il contadino al mattino lo scopre, gli assesta delle bastonate sul cranio e, dopo che lo ha creduto morto, lo va a gettare, infilzatolo con la forca, nel vicino fossato.
Argo non muore; riesce ancora a scamparla, dopo aver rischiato di essere divorato, creduto morto, da una famiglia di volpi.
Le sue pene non sono finite. Si rende conto che la vita selvatica non ha tenerezze, ma egoismi e crudeltà. Vivere è lotta e fatica; e l’incontro con la morte è sempre prossimo.
Costantemente aggredito dalla fame, si arrangia anche col rimestare tra i sacchi della spazzatura: “eran di gente che aveva mangiato ogni cosa, lasciando solo bucce di patate e sottili.”. Ma potevano capitare anche sacchi contenenti residui di carne e di altre squisitezze, “e gustò il sapore sopraffino delle cose rifiutate dagli uomini.”.
Ci domandiamo se a questo punto Argo ricordi ancora i suoi padroni, ovvero l’uomo a cui si era legato da fedeltà e fiducia. Qualche volta gli succede, poiché gli accade di incontrare cacciatori. Uno, di nome Gedeone, lo ha visto e vorrebbe catturarlo, avendo capito che è un buon cane da caccia.
Intanto arriva un momento di pacchia per Argo. Il territorio viene rifornito di nuove lepri provenienti dall’Ungheria e dalla Maremma. Una manna caduta dal cielo per il nostro segugio. Ne mangerà una al giorno, finché i cacciatori non se ne accorgeranno. Gedeone pensa subito ad Argo. Per colpa sua il ripopolamento è fallito. Suggerisce di aspettare il vicino inverno e la neve su cui il cane lascerà le orme, costretto dalla fame ad avvicinarsi alle case. Sarà facile dargli la caccia: “Tutti riconoscono nella neve il suo piede. Non si può sbagliarlo con quello della volpe.”.
Ed ecco che viene in mente un altro film bellissimo, “Uomini e lupi”, di Giuseppe De Santis e Leopoldo Savona, del 1957, con attori straordinari come Yves Montand; Silvana Mangano e Pedro Armendáriz.
Gedeone, con altri tre cacciatori, la notte che viene la neve si mette in cerca di Argo. Le sue tracce sono evidenti, ma non la caccia non è facile. Argo si è accorto di essere inseguito: “Gedeone continuò il suo cammino infaticabile perché traeva forza dalle tracce e dal disegno che aveva in mente. S’accorgeva da certe strisciate sulla neve che il cane cominciava ad essere stanco e ogni tanto si fermava e appoggiava la pancia.”.
Gedeone lo stana; s’è rifugiato in una capanna. Gli dice con falsa dolcezza di avvicinarsi. Argo ubbidisce. Ricorda quando aveva un padrone: “l’Istinto lo consigliò d’ubbidire, come aveva fatto tante volte in passato. Apparve nella penombra, poi nella luce, dimenava la coda, teneva la testa bassa piegata da un lato e dimostrava soggezione e timore per come sarebbero andate le cose, per via soprattutto delle due canne puntate dagli occhi neri.”.
Sembra arrendersi a Gedeone, e invece all’improvviso, cogliendolo di sorpresa, scappa. Ma la caccia riprenderà. Argo è sempre in continua fuga: “Che lo cercavano l’aveva capito e stava attento. Come facevano a ritrovarlo sempre senza mettere il naso per terra, rientrava nel numero delle cose che l’uomo sa fare e il cane no.”.

Questa caccia ostinata degli uomini ad Argo è affascinante. Si svolge in un paesaggio bianco di neve e con temperature rigidissime, che danno il riscontro di una caparbietà che la dice lunga sul cinismo e la cattiveria del più forte (“i persecutori”) sul più debole.
Il cane è fortunato, scorge in basso una vallata inondata dal sole, dove la neve è scomparsa lasciando spazio a “un mare di verde”. È la sua vallata, quella da cui era fuggito. Si avvicina ad una casa. Seduto nell’aia c’è un vecchio pressoché cieco; si chiama Beppe. È in questa casa che capita uno dei suoi vecchi padroni, il più cattivo, quello senza barba, Feliciano. Non si incontrano e poco dopo l’uomo se ne va. Ma al vecchio accade un mancamento, cade a terra. Non c’è nessuno ad aiutarlo. È presente nell’aia solo Argo, che comincia ad abbaiare: “Gli sembrò di doverlo fare.”.
Rosa, la moglie del vecchio, arriva e pensa che sia morto, invece respira ancora e a poco a poco si rinviene; lo aiuta ad alzarsi: “Arrivò gente, lo portarono in camera. Venne il dottore. Ordinò punture e riposo a letto. In serata ecco il prete.”.
Il vecchio morirà e la casa viene abbandonata. Come le aveva consigliato il prete, Rosa lascia fuori della porta una buona scorta di cibo affinché lo sconosciuto cane che l’aveva avvertita del malore del marito, possa avere qualcosa da mangiare, ed infatti Argo si trattiene fino a quando il cibo non si sarà esaurito. Dopo, torna a vagare ramingo, perseguitato dalla fame, la sua peggior nemica, la più accanita: “Argo, già immerso nel bosco in quello continuò, ma per il suo desiderio di stare lontano dall’uomo fame ne patì tanta. Era più che altro la pancia a farlo soffrire.”.
Infine incontra un lupo. Entrambi, uno di fronte all’altro, digrignano i denti: “Ma un vero Lupo non era!”. Proprio come il celebre Zanna Bianca.
Decidono di rinunciare a combattersi: “Così umiliati il cane e il Lupo fecero amicizia e ognuno guardò con occhi buoni le miserie dell’altro e sentì voglia d’esser d’aiuto.”.
Agiscono insieme, cacciano insieme. Fanno strage negli ovili. Non risparmiano gli agnelli, anzi sono il boccone più prelibato. Bertozzi ci descrive la morte di uno di essi: “Il Lupo l’agguantò al groppone e l’alzò. Piangeva forte come un bimbo, ma gli scrolloni gli ruppero quel belato a distesa e lo ridussero a brevi gridi di strazio, poi a singulti, infine a lamenti flebili che annunciarono il mancamento e la rassegnazione. Allora una pecora belò. Le altre le fecero eco col Montone, come se solo la morte del più piccolino fosse da compiangere, perché per il resto ci si può fare anche una ragione e si sa.”.
Questa volta però il Lupo non riesce a scappare, mentre Argo ci riesce, e al mattino ecco arrivare il padrone che si accorge della presenza nell’ovile della belva. Chiama aiuto e tra coloro che giungono ci sono anche Feliciano e Giusi.
Il lupo è ucciso, ma il cane riesce a fuggire, dopo aver lanciato uno sguardo ai due vecchi padroni. Giusi si accorge di qualcosa di già visto, di familiare; non altrettanto Feliciano che lo prende in giro.
Argo di nascosto ritorna al suo canile, contento di rivedere i vecchi luoghi. Resta nei dintorni: “Si fermò per caso sui monti vicini, in una riserva, solo perché trovò un difficile odore di lepre, buono per domani. Sotto vedeva i lumi di due paesi e quelli di casolari sparsi. La gente dormiva dentro le case. A lui bastaron le felci dell’anno prima, perché foglie secche non ce n’eran più e quelle nuove spuntavano allora.”.
Quando gli capita di incontrare la cinghiala coi suoi cuccioli, riesce a sottrargliene uno, ma al secondo tentativo la madre reagisce ferocemente e manca poco che ci lasci la pelle.
Arriva il momento delle fagiane: “Quando poi venne il tempo in cui le fagiane covano le uova o avevano i piccoli, si seppe che il cane le sorprendeva nottetempo ai nidi e faceva strage di loro e di quel che avevano sotto l’ali.”.
Di nuovo gli danno la caccia.
Argo vive secondo le leggi della natura, non crede di far del male e invece gli uomini si accaniscono contro di lui. Niente di ciò che egli fa è buono per gli uomini. Due nature distinte, separate, incongiungibili.
Argo farà una brutta fine, nonostante abbia compiuto una buona azione. Le pagine in cui uccide la vipera che ha morso Nandino, il figlio di Feliciano, e in pratica gli salva la vita, senza averne in cambio riconoscenza, dimostrano, se ancora ce ne fosse bisogno, la bravura dello scrittore che, nel suo muoversi ruspante all’interno della natura, ma con tanto amore e intimità, ricorda in qualche modo il grande Federigo Tozzi.


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Bart