LETTERATURA: SCRITTORI LUCCHESI: Marileno Dianda: “L’occhio e il triangolo”
20 Luglio 2020
di Bartolomeo Di Monaco
Leggere questo autore significa trarne piacere e tanti motivi di riflessione.
In questa edizione riveduta del suo “L’occhio e il triangolo”, avremo a che fare con la religione e dunque con le tante interconnessioni che ne derivano.
L’incipit ci mostra con quale scrittura avremo a che fare, capace di descrizioni come queste, che emanano l’odore e il respiro del paesaggio disegnato: “Nel 1957, le case dell’Alpe erano sparse tra pendii di fieno e campi coltivati. Qualcuna si intravedeva, più lontana, dentro le selve di castagno. Nel mezzo, chiara di anni e pulita, stava la chiesa col campanile nano sopra le lastre di ardesia che coprivano il tetto. Era il centro di un mondo appartato e lontano. Verso lo spiazzo antistante la costruzione confluivano le mulattiere, fiancheggiate da piccoli muri a secco, staccionate di legno ingrigito e siepi di mortellino. All’inizio del sentiero che saliva al valico, si trovava la casa dei vecchi Silicani. Vivevano col loro unico figlio demente, che già una volta si era tirato di sotto la finestra e si lamentava con grida di strazio nelle ore notturne. Tra le case, i metati e i pezzetti di orto, si alzavano alberi di ciliegio e di melo. Dovunque, l’odore degli animali da cortile, dei maiali e delle vacche, pascolanti all’intorno o rinchiuse nelle stalle.”.
Sembra un quadro dei macchiaioli.
Tutto il primo lungo paragrafo che descrive la montagna e in particolare il Pizzo (immagino il Pizzo d’uccello) è ragguardevole e una delle migliori mai lette su questo tema.
Dianda si conferma scrittore sensibile e vocato al bello, e la natura trova in lui un eccellente cantore.
Don Cosimo, ancora giovane e abituato alle comodità della città, dove prima era in aiuto di un monsignore (era stato allontanato perché sospettato di amoreggiare con una ragazza, Marisa, che incontreremo nel corso del romanzo), i primi giorni dall’arrivo nel nuovo paese, cerca di adattarsi, ma le ore sono lunghe e le scomodità molte, lui non sapendo fare niente. Alcune perpetue, Tordina, Gigetta e Clarissa, a turno, lo aiutano nelle faccende di casa, ma la sensazione di essere avvolto dalla solitudine si fa sempre più pressante: “Don Cosimo stava lasciandosi andare. Non si pettinava quasi più e gli era difficile farsi la barba col pennello e il rasoio. La sua solitudine cresceva nel disordine della casa e della persona. Risvegliandosi, già solo l’alzarsi dal letto per aprire le imposte era per lui una fatica. Se rimaneva davanti allo specchio, gli appariva insopportabile la faccia che in passato aveva curato con meticolosa attenzione.”; “Solo quando spaccava la legna, sotto una tettoia, faceva qualcosa che sembrava muovergli il sangue nelle vene. Poi, si metteva davanti al caminetto a guardare la legna andarsene in fumo, come i giorni, uno dopo l’altro, e il senso della vita.”.
Dobbiamo insistere con le citazioni poiché le atmosfere che questo libro ci dà sono quelle ormai perdute di altri tempi e di altre usanze, qui sapientemente riprodotte con una scrittura esemplare. Siamo nella notte di Natale: “I fedeli arrivarono alla spicciolata, al lume delle pile. Fuori, la neve mandava il chiarore di una distesa di gemme. I passi sui viottoli ricordavano lo scricchiolare della ghiaietta tra le aiuole dei giardini e dentro i camposanti. Ora qua, ora là, venivano chiusi gli usci delle case. Pure la Filide fu portata alla messa. Sotto due coperte, con la poltrona l’avevano traslocata in chiesa. Poi fu sistemata, come tutte le volte, sulla panca personale. La poltrona rimase di lato, simile a un curioso faldistorio.”.
La nipote della Filide, nonna ricca e titolare dell’unica bottega del paese, era stata soprannominata Chiteladàtta, che serviva nel negozio, e la si conosceva solo con quel soprannome, che diceva tutto delle sue debolezze.
In chiesa la ragazza adocchiò, al momento della Messa di Natale, don Cosimo, turbandolo: “teneva un velo sopra i capelli, seminginocchiata come chi sa di attirare lo sguardo. I suoi occhi facevano venire in mente le serpi che fissano piccoli animali fin quando, risucchiati, non finiscono in bocca.”. E al momento della comunione, quando la ragazza apre la bocca per ricevere l’ostia: “Il prete si bloccò come fosse stato incenerito da un fulmine. Sentì il sangue andargli via dalla testa; ma sì riprese e accostò l’ostia a quella cavità tiepida, più fonda del colore della macchia.”.
Il tema del romanzo è già delineato e il lettore ne è preso. Di qua i voti sacri e indelebili che il sacerdote ha reso a Dio, di là la passione di una giovane donna che lo sfida. Tanti film e romanzi lo hanno svolto appassionando spettatori e lettori. Viene in mente lo sceneggiato “Uccelli di rovo”, una miniserie televisiva del 1983 diretta da Daryl Duke e ricavata dall’omonimo romanzo di Colleen McCullough.
Si deve dire che siamo alle prime pagine e già il libro ha una forza e una suggestione che incatenano il lettore. Descritta una natura quasi incontaminata e selvaggia, vi si accende una passione che, ancora trattenuta, dà già i segnali di una imminente esplosione virulenta.
La donna ha sprigionato la sua malia, con le armi seduttive che si porta non solo negli occhi e nella bocca, ma sull’intero suo corpo carico di eros. Il sacerdote è in difficoltà. Eros sta tessendo la sua rete. Sa che la preda è prossima a cedere.
Il giovane prete, infatti, dopo quello sguardo, si interroga inquieto. Ha paura di cadere nella tentazione più insidiosa e ricorda quanto i suoi superiori in seminario mettessero tutti in guardia dalle lusinghe del sesso.
Nasce il conflitto interiore, destinato, se non spento subito, allo sfinimento e alla distruzione.
Don Cosimo ripensa al passato e alle inquietudini provate davanti a certi quadri di grandi pittori, osservati in compagnia di altri sacerdoti in occasione di visite ai musei, e si domanda se già allora quegli sbigottimenti erano il segno di una sua debolezza, che si ripresentava ora, maligna, alla vista della giovane donna.
Oltre alla passione per la montagna, Dianda dimostra con questo libro di nutrire – e già appariva in altre opere – una particolare attenzione per il mondo religioso e la religiosità. Ne conosce i lati più intimi e ci mostra quanto chi ha fede e si crede da essa protetto, sia in realtà tra gli esseri umani più vulnerabili e tormentati.
È un autore preparato e forse uno dei pochi in grado di scrivere un romanzo come questo, che è un’indagine profonda sulla condizione religiosa.
Chi si dedica a Dio, oltre alle afflizioni degli uomini, ha quelle della fede, la quale forza le soglie della ragione e ci trascina in un mondo vasto, misterioso e indecifrabile. Non basta, ossia, dire io ho fede, io credo, per quietare un’anima: “In città aveva creduto che tutto fosse facile e la vocazione avesse la sicurezza di una strada maestra.”; “Si era dimenticato di quanto fossero duri gli obblighi del sacerdozio, di come il prete, più degli altri, fosse esposto alle tentazioni.”.
Tra gli altri, Sant’Agostino e San Carlo Borromeo avevano messo in guardia i sacerdoti dalle seduzioni della donna. La prescrizione ad esse di portare un velo sul capo, serviva a nascondere gli adornamenti seduttivi di cui lo ornavano: “Nel maschio, il corpo rifletteva l’anima. Ma nella donna, no… Per questo, soltanto l’uomo era pienamente immagine di Dio. La donna, al contrario, lo era solamente con l’anima, dato che il corpo risultava per lei un ostacolo troppo forte al completo esercizio della ragione.”.
Lui, però, non la pensa così, ricordando “che Gesù si accompagnò volentieri con donne, che non disprezzò nemmeno le più note peccatrici, che quando tutti i discepoli, eccettuato Giovanni, abbandonarono il redentore nel giorno del supplizio, le donne gli restarono fedeli e non ebbero paura di farsi vedere ai piedi della croce.”.
A peggiorare la situazione, un giorno vennero a trovarlo in chiesa (era il 2 febbraio, giorno della Candelora) Beppa, la sua perpetua soprannominata Tordina e il fratello Gino, cieco di guerra. Quest’ultimo, tutto impaurito e fremente, chiede di confessarsi. E racconta a don Cosimo di aver veduto Chiteladàtta nuda. Ma com’è possibile, se sei cieco?, si meraviglia il confessore. E lui precisa che lei gli si metteva davanti e gli diceva che stava spogliandosi per lui e gli raccontava ciò che stava facendo, e lui la vedeva come se avesse avuto la vista: “Don Cosimo era come fosse stato preso dal convulso. Ciò che Gino gli stava dicendo, le parole che adoperava, gli facevano guardare di là dai forellini come uno che fugge verso il suo inseguitore. Non riteneva verosimile quella perversione, che potesse esistere una tale dissolutezza. Sentiva le tempie pulsargli e il disagio da dar vita a un’espressione angosciata; più di quella del cieco prima di confessargli il peccato.”.
Qui trovate una bella descrizione dell’arrivo della primavera: “Oltre il muro di cinta si alzavano i boschi ancora privi di foglie, coi tronchi che, dai buchi del disgelo, fumavano nei rami. Il manto nevoso si stava ritirando, anche se permaneva abbondante sopra il limite della vegetazione. Sul Pizzo, le nervature rocciose erano scoperte, rigate da strisce nere sui fianchi dei canaloni intasati. Nell’aria si sentiva qualcosa di diverso. E non dipendeva solo dagli uccelli che per tanto tempo erano rimasti muti. Si trattava delle sere più lunghe, del respiro che percorreva l’altopiano per far sbocciare i fiori e rinverdire i germogli. L’acqua gorgogliava più forte nelle sue vene invisibili; colava in tanti rigagnoli e scrosciava nelle cascate dei ruscelli e nelle rapide della neve dissolta. Stava avvicinandosi la primavera.”.
Non è il primo libro che leggo di questo autore lucchese e di descrizioni pervasive come questa se ne trovano spesso. Sono intrise di un amore che sa osservare e assorbire le piccole cose che muovono la natura e il creato.
Nel momento in cui le descrive, le vede e le sente.
Non se ne accorge, invece, don Cosimo, dilaniato dalle sue paure e dai suoi dubbi. Ciò che teme è la perdita della speranza: “Perdere la speranza voleva dire precipitare nella desolazione, consegnarsi a ciò che è vile e terreno, alle agitazioni e alle sensazioni delle potenze naturali.”.
Praticamente, rinunciare ad una vocazione che lo legava a Dio.
Chiteladàtta è nata così, ciò che fa è frutto di una malizia connaturata alla femminilità. Lei sa adoperarla, sa servirsene, e in una lunga descrizione l’autore ci dà conto delle sue arti, terminando: “La nipote della Filide accalappiava i fidanzati e i mariti con la sua sola presenza, li infiacchiva, li snervava per rovinare le famiglie e farli andare all’Inferno.”.
Il ricordo di alcune superstizioni ancora credute nel paese dell’Alpe, dove la storia si svolge, accresce la malia di quei luoghi di montagna, che paiono lontani dalla scienza e dalla modernità, chiusi in un fascino antico e persistente. Non privi, tuttavia, di procurare, specie nei giovani, cupi momenti di solitudine e di impotenza: “Facevano pena soprattutto i giovani – non molti sull’Alpe – che, la sera e nelle ore libere, restavano davanti al bicchiere. Si lasciavano andare a certi pomeriggi tristi, pomeriggi di vecchi, consumando una vita senza più speranza.”.
Don Cosimo capisce che deve fare qualcosa di più per se stesso e per il paese. Solo così potrà scacciare le tentazioni e dedicarsi alla sua missione apostolica. La pigrizia è la madre di tutti i vizi, li chiama e li raccoglie intorno a sé, e se ne nutre: “In paese era attecchita e cresciuta, come l’erba tra le pietre, una rassegnazione animale alle ingiustizie della vita, la cultura dell’umanità dimenticata, derelitta, dei poveri di tutto il mondo. (…) Il Cristianesimo, al contrario, presentava un umanesimo ottimista; non era la religione dell’immortalità ma della resurrezione.”.
Don Cosimo avverte la linea di malessere che attraversa quei luoghi solitari. Viene dalla città, e non ha potuto capire subito le differenze. Ora prega per capire e cambiare e sono preghiere intense quelle che troviamo nel romanzo.
C’è un altro ricordo che affiora nel prete, quello di una ragazza conosciuta quand’era in città, Marisa. Ogni tanto esso affiora e la ragazza continua a turbarlo, ma lui confida nel nuovo impegno che si è prefissato per uscire da una chiesa formale e retorica. Bella questa immagine che affiora nella sua mente a riguardo di Marisa, che appare come purificata della sua umanità: “Don Cosimo pensò che, lei, dalla sua stanza, potesse osservare le linee di quelle montagne e fosse lì, con un segreto, a riconoscerle una per una.”. È in questo momento che le due ragazze, seppure distinte, si riuniscono in una sola figura e diventano espressione di un’unica tentazione.
Un tizio di nome Furio lo avvicina, è un insegnante di liceo, e, seduti al tavolo di un rifugio di montagna, lo sollecita a parlare di filosofia e di teologia. Ne nasce un confronto interessante: “Perché senza filosofia si ubbidisce a una Chiesa, con quella scadente si diventa atei…, ma se viene da un ordine superiore e le si dedica la vita…, ne dà il senso e ci porta Dio…”.
La montagna favorisce conversazioni di questo tipo, attinenti ai misteri dell’esistenza umana: “Queste montagne sono meglio di mille conferenze e di mille biblioteche.”.
Non basta tuttavia a confermarlo nella sua missione di apostolo della fede; la tentazione sta in agguato pronta a dare battaglia e a vincere. Così un giorno, succede che Chiteladàtta gli si spoglia davanti e, tutta nuda e carezzevole, lo attrae a sé: “Angelo e carnefice a un tempo, signora di minuti di paradiso e di un’esecuzione dentro un cortile notturno, lei gli prese dolcemente la testa e lo attirò a sé. Gliela tenne, in cima, tra le cosce, carezzandogli i capelli. Don Cosimo apri gli occhi e non vide altro che la peluria del pube, nient’altro che quella, portato via da un tepore e da un profumo che lo stordivano. Dopo, non ci fu altro che buio; sentì un’energia che gli si scaricò dalla spina dorsale fino alla punta dei piedi, si aggrappò a quelle gambe e gli venne da piangere.”.
A che valgono lo studio, la vocazione, la fede, di fronte alla tentazione della carne? Cominciano per don Cosimo giorni terribili di strazio e di rimorso. Sale in montagna con Furio per cercare un po’ di pace. Vorrebbe parlargli dell’accaduto, confidare il dolore, ma è agitato dal dubbio, tentenna.
L’autore attraverso il miscredente Furio fa emergere e lega tra di loro, facendole sanguinare nel cuore di don Cosimo, tutte le violazioni della Chiesa (troveremo più avanti parole molto dure che l’autore affida al pensiero del sacerdote) rispetto alle promesse delle Scritture, e il prete si sente parte di queste imperfezioni e impurità. Così la pensa Furio: “Santa Madre Chiesa allo Stalinismo era servita da modello…”.
Nonostante queste conversazioni insistenti e impegnative, don Cosimo non trova, tuttavia, il modo di liberarsi del suo cruccio. Ricorda anche, a maggior peso, la morte suicida di Gino, il fratello cieco di Tordina, a cui, se non si fosse impegnato nel mutamento, non avrebbe dato più l’assoluzione per il suo peccato di vedere nella sua immaginazione Chiteladàtta che si spoglia nuda solamente per lui.
Vedremo a poco a poco che Chiteladàtta, Marisa e Furio si riveleranno essere, tutti e tre, pur con delle differenze tra loro, le facce di una stessa medaglia, ossia di una tentazione ossessiva mirata a disgregare la sua anima. Una tale funzione la eserciterà pure il ricordo del suicidio di Gino.
I loro assalti sono tenaci e insidiosi. Furio si impegna con tutte le astuzie della mente a descrivergli una Chiesa degenerata e traditrice, servendosi della filosofia, di cui è un conoscitore (si ricordi che l’autore è stato professore di filosofia); le due femmine hanno già avvolto in una spirale erotica la loro preda ma non paiono ancora sazie della vittoria, che non sentono completa e definitiva. Don Cosimo: “Credeva, ormai, di essere sottomesso, più che a Dio e ai Suoi decreti, alla seduzione di un corpo e alle sue lusinghe. Eppure sentiva che doveva parlare con Furio di quel cedimento, di confessargli quanto era colpevole. Aveva bisogno di ammettere il proprio peccato, ma ancora una volta non ne fu capace. un misto di vergogna e d’orgoglio glielo impedì. Lo vinse allo stesso modo dei giorni prima. Allora premé le dita contro la fronte, come aveva fatto Gino in confessionale. Rimase così per un po’. Dopo, disse che era tardi e bisognava scendere.”.
Con la seguente descrizione, si avverte quanto la natura rifugga dall’essere coinvolta nelle vicende umane, ed aneli ad avere una vita a se stante: “I primi segni di autunno si videro quando il caldo e le piogge si succedevano sull’Alpe. Il giallo macchiò qualche foglia degli alberi che cominciarono a scuotersi di dosso quelle che avevano vissuto in anticipo. I mattini, aperti dentro la nebbia, si mantenevano a lungo tersi e purissimi. L’azzurro aveva un nuovo, già ghiaccio splendore. Pareva contendere col sole, sempre alto ma ormai purificato. Poi, stormi di uccelli se ne andarono nel cielo. Fuggivano dai prossimi rigori, dalla nuova stagione che si annunciava nell’immobilità e nell’assenza di vento, nella calma lattiginosa di giornate che facevano pensare all’inverno.”.
Il pensiero di Chiteladàtta e di Marisa assilla don Cosimo, non riesce a liberarsene, perfino cerca la donna, Chiteladàtta in questo caso: “Nell’ultima occasione fu lui a cercarla, a pregarla di mostrargli almeno il seno. Lei rimase stupita di quella sua apprensione, di quell’angoscia nel questuare e gli ubbidì, disponibile e remissiva.”; “I rimedi del rosario e dell’inginocchiatoio sembrava non servissero a nulla. E nemmeno i tentativi di atti di dolore perfetto o di leggere la vita dei santi.”.
Siamo giunti all’acme del supplizio. Difficile immedesimarsi in una tale sofferenza, se non vissuta direttamente. Già nell’antichità ad Eros era affidato un potere immenso, dominatore nei millenni, capace di tormentare con la massima spietatezza l’anima di un essere umano.
Ci si domanda se don Cosimo soccomberà oppure quale possa essere il modo con cui riuscirà a superare l’insidia: “Spesso, avanti di infilarsi nel letto, sentiva un tramestio, uno scricchiolare delle assi e dei mobili, e aveva il terrore che vi si fosse annidata una presenza venuta a giudicarlo. Nella penombra, sulla parete dove era appeso il crocifisso, le crepe del muro parevano far uscire zolfo e vapori venefici si disegnavano in quella forma deliziosa e immonda. Due mani gli attanagliavano il collo e volevano soffocarlo. Allora, doveva alzarsi per cercare un po’ d’aria.”.
Viene convocato dall’Arcivescovo e lui teme che sia venuto a conoscenza del suo rapporto con Chiteladàtta e voglia non solo redarguirlo ma anche punirlo. Le pagine destinate a questo colloquio sono esemplari, direi proprio canoniche. Sono visibili i movimenti e le parole del presule, quando introduce e ammonisce: “Ogni anima pia deve ben sapere che il fuoco divino vuole essere nutrito con la legna di totali rinunzie… Esso brucia tutto, consuma ciò che con animo sincero gli viene sacrificato. E quando avrà purificato ogni affezione e ripulito l’anima dal soverchio diletto dei beni terreni, essa potrà ardere di divino anziché destinarsi alla fornace della Divina giustizia…”.
Sarà perché ad un tratto viene annunciata al presule la visita del direttore generale della Cassa di Risparmio di Lucca, l’incontro si risolve senza che accada ciò che don Cosimo temeva. Si era trattato soltanto di una specie di sermone, la cui finalità restava avvolta dal mistero. Dato che è in città, tenta di vedere Marisa. Il giorno dopo è davanti alla sua casa. L’incontro è reso magistralmente, con Marisa che gioca con il prete e costui cerca di resistere, al colmo della tentazione e della esplosione erotica. Questa volta ci riesce e Marisa si accontenta di rubargli qualche carezza. Come se le bastassero quei fremiti e quella inquietudine.
Si domanda: “Come era possibile che nel corpo si fosse lontani dal Signore? Era stato separarlo dall’anima a farlo diventare demoniaco.”.
Una frase profonda e terribile si forma nel pensiero di don Cosimo, nei momenti della sua sofferenza: “Ma sentì che non è Dio che vede l’uomo, che lo spia e lo controlla, che gli si acquatta dentro, come un secondino o un guardone, per avvelenargli le cose più belle. È l’uomo a vederlo, a dargli le proprie parole, quelle più fonde, che restano mute.”. Che è l’espressione della completa libertà (libero arbitrio) che Dio ha concesso all’uomo. Pensieri e azioni dell’uomo, di qualunque natura siano, nascono e restano sotto la responsabilità dell’uomo.
È trascorso un anno e siamo di nuovo a Natale. Nel dare la comunione a Chiteladàtta don Cosimo si sente freddo nei confronti della ragazza, non avverte più fremiti e paura; tuttavia il suo pensiero è rivolto all’altra, Marisa, che aveva promesso di salire sull’Alpe con il C.A.I. per una escursione in montagna. Conta i giorni; è per lei che trepida.
Sembra che si profili una scissione tra le due ragazze, ma non è così: Il fattore femmina è ciò che continua ad accomunarle e ad agire nei confronti del prete. Il rapporto tra l’eros e il sacerdozio resta immutato (dirà ricordando i suoi giorni in seminario: “Sembrava non esistesse altro problema che il sesso.”): “Il pensiero di essere stato uno sbirro della credulità e della paura si mischiarono nella mente di don Cosimo con quelli per l’attesa di Marisa.”.
I genitori venuti a trovarlo, soprattutto la madre, si avvedono della sua inquietudine e la donna si accorge che è sparito di casa il drappo che gli aveva regalato con il disegno del triangolo e dell’occhio di Dio che tutto vede.
Quando finalmente arriva Marisa con i suoi compagni del C.A.I. c’è una novità: la ragazza lo saluta con freddezza; è sfuggente. La pena e la sofferenza si accrescono.
Che cosa può essere accaduto?
Lo scopre presto: Marisa si è innamorata di Edoardo, uno della comitiva, addirittura gli si siede sulle ginocchia e qualcuno grida: Viva i fidanzati!
È il momento in cui anche don Cosimo conosce la gelosia. La vocazione è diventata acqua; non è più fuoco.
Furio, intanto, coi suoi discorsi, invece che aiutarlo, continua a confonderlo, ne indaga e ne mette a dura prova la coscienza: “Dio è quanto di più reale ci sia…, perché possibilità e realtà di ogni cosa… siamo noi che non esistiamo…”.
Dunque: nel suo tormento don Cosimo è solo. Da solo, senza aiuto, dovrà vedersela con se stesso.
Un giorno Furio sparisce, sperduto in montagna. Arrivano i soccorsi e non si trova: “Furio era sparito come un granello nel mare. La gente dell’Alpe diceva che se l’era preso l’Inferno, che doveva essersi aperto un buco e lo aveva inghiottito.”.
La Filide muore e Chiteladàtta si trasferisce altrove e la bottega è ora gestita dalla Tordina; Marisa è tornata in città e si sposerà con Edoardo. Passano gli anni. Che ne è di don Cosimo?
La Chiesa continua a vivere il suo smarrimento.
L’autore, che mostra ancora una volta una preparazione invidiabile sulla storia della Chiesa e sui testi dei Dottori, le scaglia contro una spietata invettiva per aver tradito gli insegnamenti di Cristo: “La Chiesa aveva sempre tradito il proprio Maestro. Era diventata assassina per dare ad intendere di restarGli fedele.”.
A don Cosimo viene in mente Furio, che ormai è creduto morto: “Fu così che rivide gli occhi, quell’espressione luciferina di Furio che veniva a stamparglisi su un angolo delle labbra quando affidava al sarcasmo l’efficacia delle sue dimostrazioni”. Più avanti penserà: “La Chiesa aveva sempre cercato di assimilare ciò che non riusciva a combattere.”; “La Chiesa aveva una maschera per ogni evenienza.”.
Gli venne il desiderio di lasciare l’abito, di chiedere la riduzione allo stato laicale. Quella vocazione, che mai aveva avuta solida (era andato in seminario per far contenti in genitori, soprattutto la madre), e che in qualche modo era riuscito a sorreggerlo nell’adempimento delle sue funzioni di presbitero, se n’era volata via negli scontri subiti dalla sua coscienza.
Ma resta: “Ormai voleva troppo bene alla chiesa col dipinto della Filide [che aveva donato alla chiesa un quadro], al campaniletto nano, alla tomba di Gino, alla casa di Furio [che ora è lui ad accudire], allo spiazzo del fontanile dove, prima che fosse buio completo, restava a pensare.”.
Non è, come si capisce, il presbitero che resta, ma l’uomo con il suo bagaglio di sentimenti comuni a tutti gli altri, non più un privilegiato da Dio, ma soltanto un essere umano: “È vero, lui non aveva rinnegato l’abito che ancora portava, non aveva fatto nulla per essere ridotto allo stato laicale. Si era reso conto che i condizionamenti subiti in seminario non gli avrebbero consentito di vivere in equilibrio con gli altri. Eppure, in quei momenti, gli pareva di avere tutti vicino nelle ore silenziose e nella solitudine. Sentiva che non si possono aggiungere giorni e di nulla si sa cosa dire.”.
Il libro è questo cammino che ci ha raccontato.
Tutto muta e si trasforma, mescolando speranze e delusioni, resurrezioni e cadute, esaltazioni e pentimenti: “Sul viso del sacerdote gli anni erano in numero maggiore di quanto realmente trascorsi. La solitudine e i ricordi gli avevano segnato la pelle di rughe. I capelli erano diventati tutti grigi e quegli occhi che non aveva potuto accettare si aprivano ora, stanchissimi, su due borse pronunciate e aggrinzite. A volte, continuava a parlare da solo, come si vuole facciano i matti.”.
Le pagine finali che ci descrivono la sorte di don Cosimo sono esemplari.
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