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LETTERATURA: Scrittori Lucchesi: Umberto Fracchia: “Il perduto amore” (1921)

24 Maggio 2008

di Bartolomeo Di Monaco

[Per le altre sue letture scorrere qui. Il suo blog qui.]
 

Si legge nella nota bio-bibliografica che “Umberto Fracchia nacque a Lucca il 5 aprile 1889 da padre piemontese e da madre ligure. Compì gli studi classici e universitari a Roma”. Visse, infatti, molto poco nella città toscana, come era accaduto già a Giosue Carducci, nato anche lui in Lucchesia, a Valdicastello, un paesino nel comune di Pietrasanta. Come è noto, di genitori lucchesi è Giuseppe Ungaretti, che nacque ad Alessandria d’Egitto. Non scrisse romanzi, invece, un altro illustre lucchese, Mario Pannunzio, che fondò nel 1949 e diresse il prestigioso “Il Mondo”, di cui, in seguito, fu direttore anche l’altro lucchese Arrigo Benedetti.
Fracchia scrisse molto, tra romanzi, novelle e racconti. Fondò nel 1925 e diresse la “Fiera letteraria”, che, tra i suoi direttori, ebbe anche un altro lucchese (d’adozione), Manlio Cancogni, il quale, ricevuto il testimone da Diego Fabbri – finito pure lui, ingiustamente, nel dimenticatoio -, chiamò a collaborare sin dal primo numero (il n. 27 di giovedì, 6 luglio 1967) due lucchesi: Cesare Garboli con: “Il piacere d’essere un idolo”  e Pier Carlo Santini con: “Sognano la città del futuro”.
Il romanzo, del 1921, mi ha incuriosito per questa coincidenza: molti anni dopo, nel 1979, sempre per Mondadori, uscirà   “Il perduto amore” del viareggino Mario Tobino, con lo stesso titolo, dunque, del romanzo di Fracchia. Mi sono sempre chiesto se Tobino conoscesse questo precedente. L’amico insigne Prof. Giorgio Bárberi Squarotti, sempre prodigo di consigli nei miei riguardi, è convinto di sì, come mi scrive in una sua lettera del 21 febbraio 2005.
È un uomo triste e disperato, il protagonista che apre il romanzo. Si chiama Paris e si definisce uno che vive: “l’imperfetta vita delle ombre”. La ragione sta nel fatto che qualcuno è morto per colpa sua ed egli ne sente il rimorso. Così ci narra che cosa sia veramente accaduto.
La scrittura è piana, pulita, misurata. Un parente, Carlo Clauss, fa pervenire alla famiglia del protagonista, che ha vent’anni, una lettera da un paese lontano, dove ha vissuto per molti anni. È malato e vorrebbe far ritorno a casa e domanda di potersi rifugiare per qualche giorno tra loro, in attesa di una sistemazione definitiva. Quando arriva, non è molto cambiato dalle foto che sono conservate nell’album di famiglia: “Alto, diritto, con la barba e i capelli appena brizzolati, egli non tradiva né stanchezza né dolore. Il suo volto pallidissimo, di un pallore olivastro ed uguale, bruciava ancora di quella fiamma interna che gli splendeva negli occhi scuri, profondi e lucidi. Era bello. Anche la sua voce, il suo modo di gestire, la sua pronuncia un po’ lenta e faticosa mi parvero, al primo incontro, attraenti”. Paris è turbato dai suoi strani racconti. Senza dubbio, pensa, si tratta di una personalità inquieta, stravagante anche. Parla della morte come un’aspirazione sublime dell’uomo. Possibile?: “Confesserò, senza vergogna, che Clauss mi faceva paura. Spesso, non visto, mentre egli leggeva, o parlava con altri, io lo spiavo a lungo, fantasticando.”
È un’atmosfera alla Hoffmann (penso a “L’uomo della sabbia”) quella che si crea intorno al giovane protagonista, il quale, anche quando Clauss è partito, ne sente vibrare la presenza: “ Avevo lunghe e confuse allucinazioni: visioni di una realtà inverosimile.” Fracchia, attraverso una scrittura lenta, dotata di una intrinseca quiete, contrapposta in qualche modo al suo contenuto, crea un’atmosfera intrisa di suggestione e di mistero, che ci accompagnerà sempre, quando in modo accentuato, quando più soffuso. Si pensi al ritratto di Armida che incontreremo verso la fine.
Allorché, mandato a vivere da solo, ospite in casa del notaio Sterpoli, con il figlio di questi, Paolo, esce per recarsi in un locale equivoco frequentato da donne allegre, vi incontra Clauss: “Salimmo una scaletta a chiocciola, ed entrammo in una piccola stanza azzurra. Clauss stava seduto sopra un divano.” Clauss è innamorato di Daria, una ballerina del locale, delle cui gambe si dice che “sono le corna del diavolo!” Ma al protagonista dice: “Spero che non crederai davvero che io sia innamorato di Daria. Io non ho mai amato.” Fracchia non è immune da un certo romanticismo decadente, tipico del tempo, dominato da D’Annunzio. Lui stesso se ne rende conto nella Avvertenza che si trova nell’edizione del 1930, quando scrive: “Gli avvenimenti intermedi, che ognuno può ricordare da sé, bastano a spiegare certe romantiche ingenuità di cui il romanzo abbonda e il tetro pessimismo che vi predomina.” L’opera è, dunque, segnata dal tempo: sebbene lo stile sia limpido, gli echi che diffonde appartengono a un’epoca ormai definitivamente trascorsa, e se, per esempio, la scrittura del lucchese Remo Teglia può suscitare ancora oggi ammirazione e stupore, non così accade sempre per la pur linda e incontaminata scrittura di Fracchia.
Daria è una bella donna, ed ha molti corteggiatori: oltre Clauss, Paolo, l’amico di Paris; Paris stesso ne è attratto. È indubbiamente il ritratto della donna che primeggiava ai primi del Novecento sia nella letteratura che nel cinema, la quale trafiggeva i cuori dei suoi ammiratori, compiaciuti di soffrire delle sue crudeltà. Le perdonavano tutto. Clauss non è più giovane; la frequentazione dei giovani e delle belle donne rappresenta per lui il toccasana che respinga e contrasti la sua incipiente senilità. Dice a Paris: “devi considerarmi come un moribondo al quale ogni cosa può servir di conforto.”
Daria ha una sorellina di quattordici anni, Soave, ancora acerba nel fisico, ma già sveglia   e attenta alle cose del mondo, che trae apprendimento dalla vita della sorella maggiore. Paris la incontra mentre sta seduto su di una panchina di un giardino pubblico. Lei lo riconosce e corre a sedergli accanto. Maliziosa, nel salutarlo gli dà un bacio. Fracchia è buon tessitore della trama ed ha già cosparso il percorso del suo raccontare di molti segni che saranno destinati a congiungersi.
Quando si trovano a cenare insieme Daria, Clauss e Paris, quest’ultimo, affascinato dalla donna, si aspetta di ricevere da lei un sorriso, “uno di quei sorrisi che sono come fili tesi fra due bocche”. Invece è con Clauss che la donna amoreggia. Ragazzo com’è, Paris s’ingelosisce e in fretta e furia se ne torna a casa, dove trova Paolo affranto anche lui, poiché Daria gli aveva promesso un incontro amoroso e invece aveva mandato la sua vecchia serva, Kate, a dirgli che non sarebbe venuta perché “È andata da Clauss…”
La storia, in questa parte prima, si è stretta e invischiata intorno ad un tale asse lacrimoso e romantico. La giovane età dell’autore, anziché incoraggiarlo ad una esperienza diversa ed innovativa, lo trascina nelle spire di quel vortice tenebroso ed incostante che in quegli anni di crepuscolarismo e di dannunzianesimo attraeva molti neofiti. Accanto all’amore, infatti, va sempre di pari passo la morte, allorché l’amore provoca una qualche delusione e amarezza. Intorno a Daria aleggia il profumo della sua bellezza e della sua vanitosa crudeltà, ma anche sta in agguato l’artiglio perverso della morte. Quando Sterpoli si sente dire dalla vecchia Kate che Daria non verrà all’appuntamento perché ha preferito Clauss, egli reagisce come impazzito e la cerca disperatamente per vendicarsi, ma in lui s’insinua anche il pensiero del suicidio, con espressioni tipicamente romantiche. Racconta a Paris: “L’idea della morte mi balenò síºbito nel cervello. Síºbito la sua figura schifosa e orrenda m’apparve e si mise al mio fianco, e mi avvolse col suo sguardo buio, beffarda e amorevole, spaventosa e attraente. «Che vuoi da me, civetta? » urlavo. Ed essa mi additava con gesto servile la sua ghirlanduccia intorno al cranio vuoto, intorno al cranio nudo e risonante, per indicarmi che non tutti i fiori sono di questa terra. «Morire! » dicevo a me stesso. Anche questo è uno scampo.” Il brano, che prosegue immaginando che la donna amata si rechi a deporre una rosa rossa sul suo cadavere, riassume molto bene (si guardi, più avanti, alla vicenda amorosa tra Armida ed Esposito) il percorso intrapreso dall’autore: arduo, difficile, ricco di sforzi e di proponimenti volti ad emanciparsi da una scrittura che, altrimenti, non avrebbe avuto che poche cose da dirci.
Sterpoli, trovata Daria in casa di Clauss, si avventa sull’uomo, uccidendolo. L’inconscio, l’istinto, il mancato controllo delle passioni, primeggiano in questo inizio, e tutti i protagonisti, piuttosto che guidati dalla ragione, si muovono dentro una realtà impalpabile e imprevedibile che li governa e li trascina. Sono personaggi tormentati, dominati e trafitti da una psiche malata. Lo stesso Paris, che si sforza di analizzare quanto sta accadendo intorno a lui, ne è posseduto e coinvolto, così che egli non si differenzia dagli altri, anzi, la sua analisi disordinata trasferisce proprio sugli altri le stesse sue deformità: “Ma io proprio non riuscivo a trovare un cominciamento in quel garbuglio di cose, non una fine, e nemmeno un ordine qualsiasi che me ne spiegasse la natura.” Ancora di più il paragone con E.T.A. Hoffmann non pare avventato e meglio si delinea allorché Fracchia, avviando la parte seconda, riesce a creare intorno alla “collana dallo smeraldo” che Daria, in un momento d’ira, ha gettato contro Clauss, e che è rimasta dimenticata, quell’atmosfera allucinata e romantica, non soverchia tuttavia, che caratterizza lo scrittore tedesco. La parte seconda si presenta, dunque, come quel tratto di strada su cui, perse le incertezze dell’inizio quando non si era sicuri della meta, ci si incammina con un passo più fermo e risoluto. Alcune di quelle scorie che abbiamo incontrato nella parte prima sono cadute, illuminando la scrittura qua e là di bagliori, come quello che si sprigiona dal personaggio Bombata, un ragazzo rachitico, di dodici anni, uomo delle pulizie nel locale “Alhambra” dove si è tenuto il burrascoso incontro con Daria, il quale ha trovato la collana che poi finirà nelle mani di un rigattiere, e “Quella mattina Bombata, che era d’umor taciturno e usava di solito accompagnare l’andirivieni della sua scopa con dispettosi grugniti, l’udirono invece cantare, con una bella voce di mezzo soprano, una delle tante canzoni che là dentro sapevano anche i muri. «Guarda, » disse il maestro di casa che in maniche di camicia lucidava le maniglie alle porte, «nella testa di Bombata è nato un gallo! »” O la figura di Porfirio (“il tubino unto calato sugli occhi”), il vecchio rigattiere che, in riva al mare, tra barche in secca e in contemplazione dei “pescatori che risciacquavano le lor reti tutte piene d’erbe marine”, riesce a trafugare la collana alla piccola Egle, di tredici anni – a cui Bombata, per far bella figura, l’aveva regalata -, spaventandola col farle credere che nel suo sacco sia nascosto l’uomo nero. Questa collana ha un percorso suo proprio. Ammirata sul niveo collo della bella Daria, scagliata da costei contro l’amante in un momento d’ira, finita nelle mani di un rachitico innamorato di una ragazzina di strada, donatala a costei, finisce nelle mani del vecchio Porfirio che si mette a sognare per la gioia di quel possesso, e invece viene colto dalla morte improvvisa. Così la collana finisce nelle mani di un altro rigattiere, “suo concorrente”, che ha scoperto il suo cadavere e gli ha chiuso gli occhi. Due morti sono già disseminate lungo quel percorso: Clauss e Porfirio.

Paris, invece, il protagonista, l’io narrante, c’è andato vicino. Dopo quei fatti si è ammalato gravemente e solo la sua giovane età lo ha aiutato a salvarsi. Durante i suoi deliri, ha più volte avuto davanti a sé l’immagine della collana e quella di Daria che l’indossava. Una sera in cui “si festeggiava il compleanno di mia sorella Silvina”, alla quale le altre sorelle avevano regalato “un anello di platino con un fiorellino di smalto azzurro”, ecco che in carrozza giunge il padre e si presenta in casa, indovinate con che cosa? Con la famosa collana di Daria, acquistata “quasi per nulla” dal rigattiere. Non è passato che un batter di ciglia e Paris ora può vederla al collo di Silvina “e la pietra verde splendeva sulla sua esile gola.”
Vedete, dunque, come il romanticismo di Fracchia si è adornato di quelle ombre e di quei misteri che avrebbero potuto confinarlo e rigettarlo nelle incontinenze della prima parte e che qui sono invece amministrate con fascino e proprietà. Anche i personaggi sono introdotti con misura ed in successione tale che non appena essi sono nominati, al più presto Fracchia ce li ripropone per un approfondimento. È il caso di Silvina, la minore delle tre sorelle, a cui è passata la collana, e che apre la parte terza. Vive con un principe “ed esce per la città adagiata in una grande carrozza a due cavalli, con cocchiere e lacchè. Lungo la strada semina occhiate come elemosine.” S’intuisce che la trasformazione e la maturazione della scrittura di Fracchia, intraviste nella parte seconda, hanno qui raggiunto ormai la loro compiutezza e non fa meraviglia che tanta perfezione di stile sia derivata dall’incontinenza e dal disordine della parte prima, quasi che Fracchia, anche al momento della revisione del testo, dichiarata nell’Avvertenza, abbia deliberatamente voluto lasciare i segni di questa crescita, come una specie di segreto dei suoi meccanismi generosamente svelato. Dirà Paris: “Eccoci tutti eguali, noi di questa maledetta generazione, capaci di suscitare gigantesche illusioni dalle minime cose!” Ma non solo: noi ora faremo i conti con una scrittura diversa e ammaestratrice, che però, non dobbiamo dimenticare, trae le sue luci e le sue ombre, i suoi misteri, da quella scrittura tutta intrisa di fermenti con la quale si è aperto il romanzo. Non è un caso che Silvina riporti spesso alla mente del fratello il ricordo dei capricci e degli enigmi nascosti nel carattere di Daria. Quella parte prima è portatrice del caos, dunque, e del mistero da cui è sorta e sorge la vita: “Io sono stato senza dubbio del numero: anch’io un romantico.”
Un giovane compare all’improvviso nei ricordi di Paris. Passa a cavallo sotto le finestre di Silvina, a quel tempo ancora ragazza, di cui è innamorato. Un giorno, mentre passeggia lungo il fiume, cade e viene soccorso dalla famiglia di Silvina, portato nella loro casa e assistito. Non si sa nulla di lui. Paris ha trovato per terra una lettera in cui egli dichiara il suo amore per la sorella. Interroga Silvina, ma lei non ne sa niente. In realtà, di lì a poco, una notte, fuggirà con lui. Ancora una volta, il mistero avvolge i comportamenti degli individui; li fascia e domina quel certo che di arcano che è racchiuso in noi, in grado di stabilire improvvise congiunzioni, fulminei contatti, forse al di fuori perfino dei nostri sensi, capaci di trascinarci dentro un io sconosciuto che, una volta destatosi, ci comanda e ci possiede. È qualcosa di molto più del Mister Hyde immaginato da Robert Louis Stevenson. Non è un caso che Fracchia si soffermi, nel capitolo V della parte terza, a descriverci il mantide che si sente attratto dalle lusinghe amorose della femmina, che poi lo divora. Le azioni che si succedono respirano un’aria più fiabesca che bohémien, e sottolineano, dunque, quella parte irreale della vita che la ragione non riesce a comprendere: “Le vecchie suppellettili scricchiolavano tutte con lunghi gemiti, come se spiriti imprigionati nelle loro membra di legno tarlato e inchiodato si torcessero spasimando per liberarsene.” Fracchia sta disegnando quella zona indefinibile dell’esistenza che conserva ancora intatte tutte le cause e le motivazioni che originarono la vita. Ammalatosi improvvisamente Silvio, Silvina rimasta sola nel suo abbaino, al sopraggiungere delle “ombre nere in quella prima sera di solitudine”, è presa da paura, “scese correndo tre capi di scale, e, senza esitare, bussò alla prima porta che le si parò dinanzi.” Ricordiamoci che Fracchia non ha mai tralasciato di osservare che Silvina porta al collo quella collana con smeraldo che era appartenuta a Daria. È in grazia di essa che, rifugiatasi quella sera nella equivoca casa di madama Humbert, lo zio Stanislao si rammenta di averla già incontrata nel locale “Alhambra” in compagnia di Silvio. Una delle sette ragazze della signora Humbert dice a Silvina che una collana del tutto simile era appartenuta a una sua sorella morta giovane. Era poi scomparsa, insieme con altri gioielli. Per chi avesse per un solo momento dimenticati gli arcani e seducenti fili che intessono la trama, basti quanto Fracchia scrive a riguardo dei mutamenti che attendono Silvina: “Io credo che la gente superstiziosa si raffiguri giustamente come spettri notturni i maligni spiriti, e li veda sempre intanati nel buio, in agguato sotto gli antri oscuri, nelle cave rovine dove non penetra mai luce di sole, e specialmente senta la loro presenza invisibile nelle notti d’uragano, quando il mondo è alla mercé delle tenebre. Uno di me meno scettico penserebbe che in quella sciagurata notte un maligno spirito s’insinuò nel cuore di Silvina e vi stabilì il suo dominio.” Quella ragazza, infatti, che le parla della collana e le offre di ospitarla a dormire nella sua cameretta sapete come si chiama? Soave, ed è proprio la sorellina di Daria che abbiamo già conosciuta. È poco più grande di Silvina, che ha diciotto anni, ora. Suggerisce a Silvina di abbandonare Silvio e di scegliersi un uomo ricco, anche se brutto, tanto gli uomini sono “Tutti schifosi a un modo.” Le insegna a tingersi le labbra, gli occhi e il viso, e Silvina si compiace del mutamento, non solo ma lo zio Stanislao, brutto ma ricco, che si rivela essere quel principe Strostki di cui le aveva parlato un giorno con ammirazione Silvio, le dichiara il proprio amore e Silvina se ne sente lusingata. Non è un caso, infatti, che per tutti i venti giorni che Silvio è ricoverato in ospedale, vada a trovarlo una sola volta, in principio, e allorché, smagrito e debole, ritorna finalmente a casa, le sole parole che riesca a dirgli sono “Ah! Non sei morto?” Silvina è mutata. È ancora Paris, non dimentichiamolo, il fratello, che ci sta raccontando di lei, e che la osserva con noi. La malinconia che trasuda dalle righe è la sua malinconia per un destino che non si può arrestare. La misera vita che conduce con Silvio non può continuare, gli dice subito dopo, e allora Silvio che fa? Il mattino dopo, ruba a Silvina la famosa collana con lo smeraldo e la vende per poter disporre di un po’ di denaro. Cominciano a frapporsi tra i due, dunque,   la vanità e la menzogna, oltre alla gelosia. Silvina, infatti, ha nel principe Strostki il proprio amante. Le atmosfere decadenti di quell’inizio Novecento si insinuano nel contorto intreccio che Fracchia dà alla sua storia, anche se vigilate da uno stile più accorto rispetto a quello incontrato nella parte prima, e confermano quanto esse abbiano nutrito la vena letteraria dell’autore. Pare, anzi, potersi fare, proprio con questo autore, una distinzione abbastanza netta tra la sua scrittura, puntuale, controllata, e l’intreccio romantico, sul quale prevalentemente è andata ad adagiarsi la polvere decadente di quegli anni.
Paris va a trovare la sorella, sono trascorsi cinque mesi dalla sua fuga con Silvio. La madre sta morendo e ha chiesto di poterla rivedere per l’ultima volta. Paris le promette anche che Silvina resterà d’ora in avanti con loro, non se ne andrà più da casa, ma non sarà così. Qualcosa non scatta ad aiutare e a redimere la vita di Silvina che, infatti, morta la madre, “se ne andò per sempre. Come mia madre. Nemmeno Silvio la rivide più.”
Dobbiamo metterci ora sulle tracce della collana (“Questo gioiello apportatore di sventura”), che per un lungo tratto è il vero filo conduttore della storia, intorno alla quale i personaggi appaiono, prendono la ribalta e poi svaniscono nell’oblio. A proposito della collana si legge: “Raccontano che vi siano state gemme altrettanto malefiche quanto questa, ed anche più, le quali rovinarono con la loro sinistra influenza regni e repubbliche, spensero nel sangue intere dinastie, scatenando guerre e pestilenze; e, precipitate poi nelle profondità dei mari, furono dopo secoli ripescate, e tornarono a seminare sulla loro strada delitti e sciagure.”, che è anche uno dei tanti esempi che si potrebbero fare della elegante prosa che adorna e piega alla sua bellezza assai spesso la tessitura romantica del libro. Ma Fracchia, come vedremo molto più avanti, sarà capace di scrivere anche, senza alcuna titubanza, a proposito di Isacco: “Era un piccolo uomo più basso di statura molto di me”.
Silvina rivede la sua collana presso un gioielliere, dove l’amante Strostki l’ha condotta per comprargliene una ancora più bella. Finge di non riconoscerla e così, sottolinea Fracchia, “Silvina rinnegò per l’ultima volta il suo passato, e la collana di Daria fu nuovamente rinchiusa dentro lo scrigno.” Come in una fiaba o in un romanzo di Robert Louis Stevenson, viene introdotto il personaggio di Perdifiato, altro esempio di bella prosa, al quale manca una gamba perduta sotto un carro, ma non la gobba “che il destino, previdente di ciò che gli sarebbe mancato poi, gli aveva appioppata sul groppone fin dalla nascita.” La gente lo chiama Perdifiato “perché, camminando con quella stampella e quel fagotto sempre appeso alle spalle, pareva a tutti che per la gran fatica dovesse mancargli da un momento all’altro il respiro.” In conseguenza di certi disordini accaduti in città (che ci ricordano il Manzoni de “I promessi sposi”), i quali avevano provocato saccheggi e un grosso incendio e distrutto case e botteghe, egli si trova a rovistare nella gioielleria dove si trova la nostra collana. È stata già visitata dai ladri, ma Perdifiato raduna quel che trova, lo rovescia in una valigia e se ne torna a casa, non dopo aver subito qualche scontro lungo il cammino. La sua casa è una misera grotta in riva al mare, dove vive con Prisca, la giovane e bella moglie nera ed il figlio Accolito. Bene, tra le minutaglie di quel magro bottino, c’è proprio la nostra collana, che finisce sul collo di Prisca, la quale, vestitasi a festa, se ne va in giro per la città, sola con il figlio, visto che lo storpio marito è costretto finalmente a letto da una ferita e non può tormentarla con la sua gelosia. Tutti l’ammirano e ammirano la collana. Ma Perdifiato, per guarire da quella ferita pericolosa infertagli al fianco quel giorno dei disordini, promette la collana alla Vergine Maria. Così la strappa dal collo di Prisca e, salito ad una vecchia chiesa lì vicino, la offre alla Madonna. Paris ci fa sapere che “Là un giorno rividi per caso la collana di Daria, la collana di Silvina. Essa ora appartiene al cielo: è di Dio.” Dunque, Fracchia ci fa ricordare che finora abbiamo seguito le vite di Clauss, di Daria, di Silvina e di Silvio, intrecciatesi attraverso la collana con lo smeraldo. Di Clauss solo siamo certi che è morto. Di Daria lo abbiamo sentito dire dalla sorella Soave. Gli altri personaggi restano come sospesi su un percorso al fondo del quale resta il mistero, che è una delle chiavi più suggestive di lettura di questo romanzo. Paris, che è stato il tramite, come io narrante, di queste vicende, ora si accinge a parlare di sé. Ha raggiunto i 35 anni, ed è stanco e malato, con una gran voglia di porre fine alla sua esistenza. Conduce una vita misera, non ha denaro e abita in una stamberga. Sembra che la maledizione della collana sia passata a lui. L’intreccio così saltellante e imprevedibile contribuisce in realtà a dare alla tessitura uno spessore che nasconde, e spesso annulla, gli afflati decadenti che ogni tanto soffiano sul romanzo. Passando attraverso la vicenda amorosa tra Armida e Esposito, Paris si trova, infatti, in un intreccio alquanto rocambolesco, a dover sposare la sorella di questi, Luisa: “Luisa aveva trent’anni, ma ne dimostrava sedici. Non saprei dire, in realtà, se la magrezza e la povertà del suo corpo fossero indizio di una giovinezza precocemente sfiorita, o se ancora dovesse sbocciare. Era giovane, e vecchia: non aveva età.” Inizia una vita coniugale senza amore (“Non la consideravo neppure come una moglie”) e intristita dalla miseria. Luisa ha portato con sé la madre, vecchia e malata. Paris si lamenta: “Per sfamare voi due, io vivo e fatico, e mi accieco dalla mattina alla sera.” Ha trovato, infatti, lavoro “nella redazione di un piccolo giornale settimanale” e in sovrappiù, per “racimolare qualche altro soldo”, fa il correttore di bozze. Il ritratto di Luisa è quello di una sposa umile, docile e riservata, dal “sorriso malinconico e pietoso”. E ancora: “Una buona, una devota serva: secondo la mia opinione d’allora, questa era Luisa per me.” Taglia e cuce camicie per uomini e “Dopo aver ripulito tutta la casa, Luisa si metteva in capo il suo cappellino spennacchiato, al collo una sciarpetta di lana, e andava a misurar camicie ai suoi clienti.” Nella stanza accanto alla loro, divise da una sottile parete, vive Isacco, che fa il commesso in una “botteghina di libri usati”. Ha circa trent’anni, è di statura un po’ più bassa di Paris, gli piace chiacchierare. Un giorno si conoscono ed Isacco comincia a frequentare la loro casa, a dispetto di Paris che non lo ha in simpatia. Ma quando, approfittando, sembra, di un suo zio ricco, Isacco comincia a portare in casa regali d’ogni specie: fiori, vino, dolci, ecco che le cose cambiano. La sua compagnia è gradita non solo a Paris, ma anche e soprattutto a Luisa, il cui viso ogni volta “s’irradiava di gioia”. Dunque, come Daria e Silvina, un’altra donna sta per prendere la scena, in questo romanzo che si rivela tutto al femminile. Contagiato dalla gelosia, poiché suppone una relazione tra Luisa e Isacco, la sua vita diventa insopportabile. Spia ogni gesto dei due; non si dà pace: “qui tutto ormai viene da Isacco” dice alla moglie quando Isacco gli porta in dono un paio di scarpe nuove, e ne deduce che “Ormai era chiaro per me che fra lei ed Isacco esisteva un intrigo.” Ed ecco la sfida che Fracchia ci lancia in questo finale, nel quale alla nostra mente non mancano di presentarsi ancora dispersi e vaghi come fantasmi le immagini di Daria e di Silvina: “Non mi pareva concepibile la gelosia, là dove non c’era l’amore.” Non c’è amore tra Luisa e Paris, può esserci allora gelosia? Non solo può esserci, ma, soprattutto se si è stati per tutta la vita perseguitati dalla sfortuna, si può diventare così crudeli da spargere intorno a noi soltanto orrore e disperazione: “Io ero uno di questi” dice Paris allorché, una notte che Luisa si era recata a far visita a Isacco, gravemente ammalato, la chiude fuori della sua camera. Così umiliata, Luisa per la prima volta pensò “una cosa alla quale non aveva mai pensato.” Alla fine del romanzo, quando sapremo tutta la verità su Luisa e scopriremo la dolcezza e la generosità del suo amore, ci resta da porci quella domanda che ci ha accompagnato per tutta la durata di questa lunga confessione di Paris. C’è differenza tra Daria, Silvina e Luisa? O non sono esse, piuttosto, la stessa donna, complessa e meravigliosa, dolorosa ed istintiva che Fracchia ci ha voluto consegnare, nel momento in cui Paris, afflitto dal suo tragico rimorso, rivela: “Ora anch’io, come Robinson, incido sopra un bastone un segno per ogni giorno che passa, e il mondo non è per me che un’isola deserta, sperduta in mezzo al mare. Siamo in due ad abitarla, in attesa di navigare insieme verso il nulla dal quale approdammo per caso in quest’isola abbandonata.”  


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1 commento

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Bart