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Rivista d'arte Parliamone
La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

LETTERATURA: Stanza n. 18

1 Marzo 2008

di Elisabetta Liguori

[L’ultimo romanzo di Elisabetta Liguori: “Il correttore”, Pequod, 2007]

Sul display c’è scritto: adesso.
Adesso esce da una Panda rossa, che ha ancora il cellulare nel palmo, e ancora calde entrambe le mani, emerse dal nido del suo grembo in panno blu. Armeggia con le chiavi davanti allo sportello richiuso; poi le mette nella tasca destra, per sentirne meglio il peso sul fianco. Il cappotto di panno le fa una piega brutta sul retro, quando tenta di evitare la pozzanghera sotto il marciapiede. Allora reagisce e misura meglio il passo del tacco, la stabilità del sostegno. Fa freddo, ma ha smesso di piovere. Ogni circostanza ha il suo incedere: la borsa piccola dondola appesa al polso, la gonna stringe in pieghe, una ciocca di capelli infilata sotto una molletta nera le tira sull’orecchio. L’ombrello non c’è, non s’adatterebbe al caso, quindi è una fortuna che abbia smesso di piovere. Nessuna intermittenza è consentita, neppure ridere per un attimo. Infatti non ride. Un’assoluta concentrazione è necessaria, perché si realizzi il progetto.
Entrando, saluta il portiere dell’albergo con la fronte. Si guarda intorno: le applique sono poste in alto, brillano, la luce s’irradia attraverso gocce di cristallo rosso, soffocata dal crepuscolo che s’accenna  appena dietro le vetrate.
Lei piega il collo all’indietro, ancora e poi ancora un po’, proseguendo nella panoramica aerea. Il soffitto è arabescato, stucchi colorati negli spigoli e medaglioni dipinti. Un teatro perfetto.
Sarà almeno un cinque stelle questa volta. Forse ha esagerato.
Poi chiede della 18 con una voce che non sembra la sua.
E’ al secondo piano, subito alla sinistra dell’ascensore. I tacchi non fanno rumore sulla moquette, piuttosto solleticano, tra le dita e il tallone, il punto in cui il piede soffre il vuoto. A destra l’avverte uno specchio con un’enorme cornice d’oro a riccioli, rutilante di bocche d’uccelli rapaci, spalancate e divoratrici. Lo specchio l’avverte e la riflette a figura intera. Due secondi appena. Ha tirato su i capelli e ne risentono gli zigomi. Sa che, tornata a casa più tardi, avrà la consueta punta di mal di testa, ma quella rigidità è ora indispensabile: condiziona, come deve, il passo, il tacco, la calza, la camicetta bianca tirata sotto la zip, e la regolare tenuta dei bottoni. Guardandosi si costruisce. A casa sua non ci sono specchi così grandi. Costruisce, mettendo insieme i pezzi meno noti. Quindi bussa alla 18.
Lui apre ed è nero di capelli. Sale solo sulle tempie, poco, mentre il pepe invece è ovunque. Potrebbe facilmente credersi che usi una tintura per capelli castano scuro. E la usi bene.
-Desidera?
– Lei è il dottor Ristanti? Sono Sofia, ho un appuntamento.
– Prego.
Il nero guarda la cravatta di lei, il nodo asfittico. Una specie di costrizione. La giacca abbottonata e la maniche ripiegate sui polsi come vele. La fede all’anulare. L’aspettava più o meno così. L’aiuta a togliere il cappotto, da cui lei sporge come un canarino con le spalle leggermente curve.
– Ha portato il carteggio come le avevo chiesto?
– Tutto quello in nostro possesso. Se vuole controllare… mi hanno raccomandato di farle sapere che l’ultima fornitura ha presentato dei problemi.
– Quella proveniente da Parigi?
– Parigi.
– Lei è mai stata a Parigi?
– Il congresso tre anni fa, si ricorda? I primi prototipi.
– No. Non mi ricordo di lei. E mi spiace.
– Io sì. Perché me lo chiede?
– M’interessa capire come la Stylenew sceglie le sue collaboratrici.
– Qualcosa non va?
– Al contrario. Tutto perfetto. Assolutamente, perfetto.
– Non siamo autorizzate a dare informazioni di contenuto personale. A nessuno.
Il nero le dà le spalle. Sta pensando cosa dire, mentre le versa da bere, in un bicchierino opaco, un liquido giallo contenuto in una bottiglia con una targhetta di metallo annerito appesa al collo. Pensa velocemente. Erano secoli che non vedeva una bottiglia così. Lei ha un frizzo sull’angolo destro della bocca, sotto il rossetto. La prima parte è andata, pensa lei, ma ancora sospira nelle spalle.
– Devo bere?
– Deve. Mi deve aiutare a capire cosa non ha funzionato a Parigi. E voglio anche conoscerla meglio. Beva. Si rilassi.
Dalla posizione in cui si trova, tra il letto e la mano di lui protesa in avanti, lei non può che arretrare. Fa un sorriso pigro di consenso. Il gesto imprudente e imprevisto di avvicinare il bicchierino al naso rischierebbe di trasformarle il sorriso in un lezio. Lui se ne accorgerebbe. Prova a pensare ad un’alternativa, ad una qualche tecnica rapida di correzione: siede sul bordo del letto a tre piazze, fa due saltelli di collaudo. Lui accanto. Tra le loro braccia c’è un incrocio a scorrimento rapido. Non sa dire da quale fantasia nuova venga fuori quel bicchierino giallo. Meglio andare oltre, per il momento.
– Non lo diremo a nessuno.
– A nessuno?
– Non avrei fatto di certo la carriera che ho fatto, tenendo la bocca aperta, cara.
L’odore che sente le è noto, la richiama a sé come fanno, nel dormiveglia, certe voci di bambini. Troppo noto. Anche il naso sa dirle quando è troppo. Avvicina il viso alla giacca di lui. La giacca sembra nuova: l’odore protervo non viene da lì, ma da dentro, da dietro. Nuova, sì nuova. L’idea del cellophane che s’apre e scrocchia la rilassa. Tocca la giacca e lui deglutisce: è il segnale.

E’ allora che nota uno schizzo sul colletto della camicia di lui, piccolo, piccolo, come di caffè. Lui pure nota, e interviene: per sanare, le tocca il seno. Risale con le dita fino al collo di lei e allenta una delle ciocche raccolte dall’elastico in cima alla sua testa, così un ciuffo di capelli ricade, sfiorandogli un’unghia. Non si guardano, se non per brevi consensi elettrici, come di campanello suonato a fili scoperti. Equivoci di un paio di minuti. Lui le ha tolto le scarpe come fossero bucce e ora i piedi di lei se ne stanno raccolti, avvolti, in preghiera laterale. La circolazione sanguigna cambia, si creano sacche fredde, in cui lui sembra morire. Bene. Le viene voglia di accelerare il movimento delle mani per scoprire se lui ne muore ancora. Che ora sarà? C’è tutto il tempo perché lui ne muoia davvero. Ci riesce. Bene. Se lei riesce a credere davvero che lui ne muoia, allora s’abbandona. Nella mente è così che avviene, uno scambio concordato fra due binari. Se lui chiude gli occhi e ne muore, a lei piace. Lei sa che c’è un momento preciso in cui, da seduta, è opportuno passare in posizione distesa, lunga, piatta, sul copriletto blu; c’è un calcolo matematico da eseguire secondo parametri rigidi. Si deve solo capire quando.
Lei vuole avere potere. Lui vuole celebrare. Il punto d’incontro dei parametri sta lì; ogni volta nel medesimo punto. Aspettano, aspettano. Come è blu! Il copriletto. La camicia bianca le si spiana come una specie di stendardo sul cotone pettinato. E’ sacrosanto il disordine che si crea su quel letto tra capelli, forcine e carta. Lui trova nel caos il punto del Via, a bocca aperta, premendo un po’. Peccato che non possa togliere il pantalone, se prima non slaccia e sfila i mocassini. Ecco un errore piccolo, veniale. Richiude la bocca, quindi, preserva l’umidità della lingua, dopo la riapre. Aspettano ancora un attimo.
– Non abbia paura, mia signora.
– Neppure lei. Sono una donna: so quello che faccio.
Poi smettono di parlare e di darsi del lei.
Venti minuti dopo, sul display compare 3352324508.
Pronto. Tutto bene con il piccoletto? la febbre? ah, quindi è calata? Uhmm…Sì,…sì, mezz’ora al massimo. Avete pranzato? Sì.   Arriviamo.
Poi si interrompe la comunicazione. Il bagno, poco più in là, friccica d’acqua e vapore. Lei alza la voce, ma non la testa. Ha i capelli sulle spalle e un maglione. E gli occhiali.
– Fai presto?
– Stanno bene i bambini?
– Sì, però… fai presto?
– Finisco ora. Un attimo solo, dammi.
Lei ha messo il tailleur nella valigia che lui aveva portato con sé. La cravatta arrotolata come una pallina nera è stata lanciata in una tasca laterale. La camicia è da lavare.
Il nome Sofia infondo le è sempre piaciuto, sofia, sofia, sofia, il mio nome è Sofia, piacere Sofia, bello sì, lo userà ancora, per intanto non sa a chi affidarlo perché torni indietro veloce, restituito e integro, come tutto il resto. Chissà se a lui è piaciuto sofia, ma tanto, sui nomi, ognuno sceglie per sé, non ci sono vincoli. Vorrebbe aver avuto un abito da sera da conservare adesso nella plastica, ma lui è avvezzo allo stile alla garí§one. Non può rinunciarci e lei da anni tende ad adattarsi sulla questione abbigliamento. Così generosa e indubitabile, esce dalla stanza n.18. Si mira e si rimira nello specchio del corridoio, quello in cui si era vista poco prima. L’abitudine, stretta intorno al suo collo con nodo largo, è ancora quella, certa come una caffettiera preparata per il giorno dopo e posta sul fornello, che svetta nel buio di una casa, che dorme e non guarda, fino alle 6.30 del mattino, allorché qualcuno si alza in un inizio qualsiasi, e il fornello dell’attesa prende piano l’odore che deve. Massimo tre tazze. Zucchero: due cucchiaini smezzati. Le imposte da aprire. Tutto quello che sempre riempie il risveglio. Ogni giorno. A parte le cravatte appena comprate, sembra che tutto avvenga per caso. Ma non è per caso che avviene.
Lei si guarda intorno. Dietro la grande tenda lei intravede una strada. Nuova. Lucida. Lunga e senza arrivo. Le insegne dei negozi sono colorate ma identiche: un panettiere non è distinguibile da un ferramenta, se ad osservare è un forestiero. Bene. Lei non lo è. Rientra in stanza e accende la tv mentre aspetta lui; cerca i canali internazionali con il telecomando.

Dal bagno il richiamo è umido. Lui parla come dentro un’asciugamani, eppure vuole farsi sentire con chiarezza. Ci tiene, quindi spiana le vocali del discorso. Sa che farsi sentire, dopo, è importante. Che farsi sentire, argina, controlla, dirige. Conferma. Le immagini che ha appena diretto, sono ancora dietro i suoi occhi, seminano cloni.
Lui si asciuga la pelle della faccia che pare già più spessa. Massaggiarsela con amichevoli pizzicotti, allontana la paura. L’idea dell’amore, a cui pensa in quel momento, è come una luce in uno specchio: non la si può guardare, né farne istantanee, ma lo consola. Gli dà ragione. Poi pensa ai loro bambini a casa e, senza rendersene conto, accelera i movimenti.
– Però il nodo che hai fatto alla cravatta era troppo stretto; sai che mi piacciono più dandy quando si tratta di te.
– Non lo so fare.
– Sono dieci anni   almeno!
– Be’? Non lo so fare.
– Non era male l’idea della Stylenew, no? Del complotto. Bello, no? ti piaceva così misterioso?era   misterioso abbastanza? forse con qualche dettaglio in più? che dici?
– Non puoi farmela più facile la prossima volta, ché ogni volta devo star lì, a scervellarmi…
– Quando la prossima?
– Non so, tipo sabato?
– Siamo a pranzo da tua madre.
– Giusto, mia madre!
– Venerdì lavoro fino a sera, e ci sono pure la pagelle. La domenica, invece, non vuoi tu:   ché è triste. Altrimenti, si potrebbe…
– Allora?
– A casa?
– No, a casa no!
– La prossima volta facciamo che io ero un vampiro?
– Coi denti e tutto il resto?
– Eh; una cosa da fumetto, ma di classe però, raffinata, e tu una tardona. I denti li tiro fuori dopo. All’improvviso. Prima arrivi tu, poi io, poi i denti.
– Vabbè tu giovanissimo, facciamo vent’anni di differenza. Mi piace. Tu completamente perso di me.  Io la tardona. Mi sta bene. Mi piace molto. Molto.
– E ricca.
– Ricca???
– Eh! Sì. Ricca la tardona.
– Ma, a proposito, l’albergo quanto è costato, scusa? tutta la scenografia, scusa, per sapere: quanto? per mezz’ora, quanto?
Coi vestiti addosso sono diversi. Chissà se il portiere li riconosce. Lasciano l’albergo con due auto diverse., ma dopo poco parcheggiano nei pressi dello stesso civico. Il panettiere Piero, quello che sulla sua insegna aveva fatto disegnare un piccolo forno, e lo aveva fatto utilizzando la pancia della P di Piero, e nelle altre lettere aveva messo colori tutti diversi a mosaico, ha chiuso ormai da un pezzo.


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A chi dovesse inviarmi propri libri, non ne assicuro la lettura e la recensione, anche per mancanza di tempo. Così pure vi prego di non invitarmi a convegni o presentazioni di libri. Ho problemi di sordità. Chiedo scusa.
Bart