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La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

LETTERATURA: Stendhal: “Il rosso e il nero”

4 Febbraio 2021

di Bartolomeo Di Monaco
(Da. Sìlarus – Anno XI -N. 57; Gennaio-Febbraio 1975 – e N. 58, Marzo-Aprile 1975)

Se è vero che ogni autore lascia l’impronta di sé nelle proprie opere, ciò ha particolare valore per gli scritti di Stendhal, non solo per l’animus che li pervade ma anche e sopratutto perché in essi ritroviamo gli stessi personaggi, lo stesso ambiente e gli stessi intrecci narrativi. Così Fabrizio ne “La Certosa”, Lucien in “Lucien Leuwen”, Giuliano ne “Il rosso e il nero” sono degli ambiziosi ed anche degli egoisti, degli ingenui (più spesso degli ipocriti) che vogliono inserirsi in un ambiente sociale superiore ed imporvisi.
Tale ambiente essi sostanzialmente disprezzano, tuttavia ne sono attratti da un imperativo interiore che li sottopone costantemente a delle prove di coraggio, a delle risoluzioni violente per saggiare il proprio valore.
A contatto con l’ambiente raffinato, vengono presi nel gioco crudele degli intrighi, delle gelosie, delle invidie e la loro natura li sollecita ad infiltrarvisi e a diventarne i protagonisti. Entrano in scena., allora, gli altri personaggi, potenti ed intriganti, e sopratutto compaiono le due donne, l’una quasi sempre dolce, sposata ed indecisa, l’altra capricciosa ed anche perversa. L’uomo in fondo al suo cuore ama la prima, però è la seconda ad ammaliarlo.
“Il rosso e il nero” offre con trasparenza questi caratteri, al punto che l’opera, a leggerla ai nostri giorni, non entusiasma più il lettore, che vi trova una rappresentazione assai meno spaziosa, meno incline alla descrizione di quella che invece compare ne “La Certosa”, opera a nostro avviso assai più matura, ricca come di movimento e di penetrazione psicologica. Si potrebbe dire â— per fare un esempio di ciò che desideriamo esprimere â— che “Il rosso e il nero” sta a “La Certosa” come il salotto dei de La Mole sta alla corte di Parma: ossia due grandi opere, la prima delle quali però, pur interessante e perfetta, è più impacciata, meno coraggiosa nell’estendere la propria analisi. Ne “La Certosa”, la corte di Parma pervade di sé le azioni di tutti i personaggi.

IL PROTAGONISTA

I protagonisti giovani di sesso maschile delle opere di Stendhal sono sempre combattuti tra la scelta di una carriera militare e di una ecclesiastica; e vi è nel loro aspetto qualche carattere (magrezza, pallore, gesti) che li fa somigliare ad un “bel pretino”.
Ä– il caso di Giuliano Sorel, così chiamato appunto dalla cuoca della signora di Ríªnal, il quale è scambiato al suo apparire per una “ragazza travestita, venuta a chiedere qualche grazia al sindaco” (cap. VI).
II suo aspetto, così apparentemente fragile, tuttavia fa presa ben presto sull’animo romantico della Ríªnal; e non appena è assunto come precettore ecco che egli comincia a tessere la sua ragnatela per affermarsi.
Si servirà anche del latino, in cui sa recitare pappagallescamente tutta la Bibbia, raccogliendo intorno a sé lo stupore e quindi l’apprezzamento delle migliori famiglie di Verrières: ma è sopratutto sull’animo dolce della Ríªnal che egli cerca di far breccia sin dal primo incontro, quando “ebbe immediatamente l’idea ardita di baciarle la mano”, profittando della sua bellezza “quasi femminile”: “Forse egli fu anche incoraggiato da quella parola ‘bel ragazzo’ che da sei mesi sentiva ripetere alla domenica da qualche ragazza”.
Il cuore della Ríªnal è molto fragile. Maritata a 16 anni “non aveva mai provato né visto in vita sua qualche cosa di simile all’amore”. Suo marito è raffigurato da Stendhal come uomo dai modi grossolani e privo di attenzioni per la moglie: «Da qui il successo di Giuliano”.
Ammirato dalla Ríªnal, che gli perdona la sua ignoranza e s’adopra a correggerne i modi rozzi ed impacciati di stare in società, Giuliano ne approfitta per mortificarla e quindi umiliare in lei l’ambiente che ella rappresenta: “Questi si accorse all’improvviso che la signora di Ríªnal si abbandonava sul suo braccio con intenzione, e, preso da un senso di ribrezzo, la respinse con violenza…” (cap. IX).
Per di più egli si sottopone, e la sottopone, a delle prove che hanno certo dell’assurdo e del perverso, come quella di trattenere nella sua la mano della Ríªnal in presenza di estranei: “decise che bisognava assolutamente che quella sera ella gli permettesse di tenere la sua mano nella mano” (cap. IX).
Ci riesce, e d’allora non si accontenta più: messo il piede sul primo gradino, è spinto dall’orgoglio a salire tutta la scala: così ad un certo punto s’impone di baciarle la mano in presenza del marito (cap. XI), e infine di possederla (cap. XIII), ciò che spontaneamente dichiara nel cap. XV allorché, avvicinatosi all’orecchio della Ríªnal, le dice: “Signora, questa notte alle due verrò nella vostra camera”.
Posseduta la Ríªnal e tornato nella sua stanza, egli non sa fare, però, che questo deludente commento: «Dio mio! essere felice, essere amato, non è dunque altro che questo?”
E infatti l’ambizione ha su Giuliano un cattivo effetto: egli calcola a tal punto tutte le mosse della partita che in ogni cosa che fa, vi manca lo slancio e (come dicono di lui alcuni vecchi ufficiali nel cap. XXXV, 2a parte) la giovinezza.
Anche il marchese de La Mole farà su di lui una considerazione terribile: “Nel mondo del suo carattere c’è qualcosa, che fa paura” (cap. XXXIV, 2a parte). Ma è con l’ingresso di Matilde che il carattere di Giuliano viene lacerato, sconvolto, messo a nudo.
Mentre sull’animo ingenuo e dolce della Ríªnal egli esercita un dispotismo sadico, non altrettanto riesce a fare su quello di Matilde, donna contorta, violenta, annoiata dalle cose comuni, che sottopone Giuliano ad uno sforzo continuo di essere ciò che lei vuole che sia, un uomo capace delle azioni più insolite e coraggiose.
Quelle decisioni violente prese nei confronti della Ríªnal, con Matilde divengono regole quotidiane del gioco: e allorché Giuliano inciampa nella banalità o anche mostra di amare Matilde, raccoglie il disprezzo più acceso di lei.
Il loro rapporto ha qualcosa di diabolico e di perverso: “Le sofferenze di lui erano un vero godimento per lei” (cap. XVIII); “Era una donna di spirito e col suo spirito eccelleva nell’arte di torturare l’amor proprio altrui e di ferirlo crudelmente” (cap. XX).
Quando invece Giuliano sa essere straordinario ai suoi occhi, Matilde si fa dolce e sottomessa, come nel cap. XIX, allorché gli fa dono di un “folto ciuffo di capelli”.
“Ecco ciò che ti manda la tua schiava â— disse ella a voce piuttosto alta â— è il segno di un’obbedienza eterna. Rinuncio all’esercizio della ragione; sii tu il mio padrone” (cap. XIX).
La presenza inquietante di Matilde ravviva indubbiamente il romanzo che si fa, grazie a lei, ricco di penetrazione psicologica. Del resto, questo personaggio piace a Stendhal, che lo dichiara apertamente nel cap. XI. Entrato nell’ingranaggio della società dei “bennati”, Giuliano ne resta però travolto.
Quando è sul punto, infatti, di sposare Matilde, che pure lo ama ed è decisa a farlo contro la volontà del padre (il potente marchese de La Mole), ecco sopraggiungere una lettera della Ríªnal che descrive Giuliano come uno spietato calcolatore, un arrivista che per affermarsi in una casa ha quale mezzo “quello di cercar di sedurre la donna che vi regna” (cap. XXXV).
L’orgoglio fa precipitare Giuliano. Vedendosi disprezzato dalla donna che egli ha dominato (in realtà la Ríªnal è gelosa di Matilde), egli si sente in dovere di farsi giustizia; e nella chiesa nuova di Verrières spara alla Ríªnal.
Questa caduta di Giuliano, diremmo più volentieri questa umanizzazione dello sclerotico protagonista, smuove in lui sentimenti nuovi, come quello religioso, legato particolarmente alla morte, al giudizio di Dio e alla vita ultraterrena.
Fino a quel punto la religione è presente nel romanzo col suo aspetto esteriore; i personaggi che la rappresentano sono intriganti e profittatori (il vicario Frilair vuol sedurre Matilde, l’abate Castanède è un viscido politicante); il seminario è nient’altro che un covo di gelosie, di invidia, di rancori.
Il migliore è l’abate Picard, ma anche lui non è descritto troppo benevolmente dalla penna di Stendhal, che ne fa una specie di originale (si veda la sua mania di far quadratini, nel cap. XXV).
Di lui nel cap. IV, scrive:
“L’abate, da vero villan rifatto, era molto sensibile all’onore di pranzare con un gran signore”.

LE DUE DONNE

Quale significato racchiude, dunque, una storia come questa?
Niente di più e di meno che quello racchiuso nella storia di Fabrizio ne “La Certosa”, e cioè che l’ambizione porta alla solitudine, sempre desiderata alla fine dal protagonista, reso debole e stanco da una lotta impossibile, quella per affermarsi in una società che non lo desidera e per la quale, infine, non ha vocazione.
Ci corre l’obbligo, ora, di dire qualcosa di più sulle due donne, che sono quelle poi con le quali si misura strettamente l’ambizione di Giuliano. Cominceremo dalla prima, la signora di Ríªnal.
Essa incarna, rispetto alla seconda, lo spirito conservatore, legato e dominato dalle convenzioni. Le sue giornate, dedicate sopratutto ai figli, scorrono sempre eguali e metodiche.
Ä– facile per Giuliano trovare piacere nello scompaginare una personalità così prevedibile: e abbiamo visto che in un certo qual modo ne approfitta anche, arrivando a stravolgere l’animo della donna.
Attraverso le piccole attenzioni che ella rivolge a Giuliano per farsi perdonare di qualche sgarbo che questi ha subito dall’ambiente, la Ríªnal arriva presto ad innamorarsi di lui.
Combatte questo pensiero, ne ha terrore ma infine, di fronte alla prepotenza di Giuliano, si abbandona a lui.
L’amore però la rivela intrigante, oltre che donna appassionata. Poiché la gente comincia a mormorare, ella, anziché allontanarsi da Giuliano, studia il modo di sviare i sospetti del marito, e qui agisce con sorprendente abilità e decisione. Giuliano non sa come comportarsi, cosa fare, ma è lei che dà le direttive con lucidità e determinazione.
Si veda il cap. XX, in cui impartisce a Giuliano le istruzioni per una lettera anonima, o nel cap. XXI, allorché, con grande bravura, tiene testa al dialogo sospettoso del marito.
Quando l’abate Chélan (che ricorda in tono minore l’abate Blanès de “La Certosa”) ordina a Giuliano di mettere fine a quel rapporto e di ritirarsi nel seminario di Besaní§on, la Ríªnal sembra scomparire dal romanzo, in cui comincia a prendere il primo posto, come sappiamo, la figura di Matilde, ma in realtà Giuliano la ricorda spesso e non manca di paragonare frequentemente Matilde a lei, con vantaggio di quest’ultima: “Che differenza con ciò che ho perduto! Che naturalezza adorabile! Che ingenuità! Conoscevo i suoi pensieri prima di lei; li vedevo nascere”. cap. X); “Quanta passione c’era negli occhi di quella povera signora di Ríªnal â— disse tra sé Giuliano â— quando, anche dopo sei mesi di relazione intima, osava prendere una mia lettera! Mai, credo, m’ha guardato con occhi ridenti” (cap. XIV).
In effetti, nel turbinio della vita sentimentale con Matilde, Giuliano ricorda con nostalgia i giorni di Verrières che, alla fine, potevano ben dirsi giorni sereni se paragonati a quelli che trascorreva con Matilde: “Un tempo, l’ambizione, i successi di vanità bastavano a distrarlo dai sentimenti che la signora di Ríªnal gli aveva ispirati. Matilde, invece, aveva assorbito tutto” cap. XXIV).
Riappare, la Ríªnal (che si chiama Luisa, come vien detto una sola volta nel cap. XXI), con quella lettera anonima (segno della sua gelosia); e infine, spinta dall’amore per Giuliano, gli fa visita in prigione. Il loro incontro ridesta l’antico sentimento e Giuliano, ormai liberato da ogni ambizione, ne è vinto.
Dobbiamo ammettere così, con Giuliano (cap. XLIII), che è la Ríªnal ad averla vinta su Matilde nel cuore del giovane; tuttavia la Ríªnal lascia in noi un certo che di riservatezza, di pignoleria, di calcolo che la sminuisce nei confronti della rivale.
Questa, infatti, non fa economia di se stessa e dei suoi sentimenti. É una donna spontanea, che dà e vuol ricevere secondo il proprio desiderio. Ciò alla fine la perderà agli occhi di Giuliano, che, dopo essere stato dominato da lei, nella quiete della prigione ha questa considerazione sulle assiduità di Matilde: “e con le imprecazioni di questa pazza per unica consolazione…” (cap. XLII).
Al contrario della Ríªnal, Matilde impone il suo amore a Giuliano, nelle cui azioni stravaganti intravede il segno di un giovane diverso da quelli del suo ambiente; un amore incostante che si spegne ogni qualvolta Giuliano cade nella banalità. Anche Giuliano è attratto a poco a poco dalle stranezze di Matilde: “Giuliano attribuiva a Matilde la duplicità di Machiavelli” (cap. XIII), al punto che tra i due, ogni qualvolta si incontrino, corre questo interrogativo: “Oggi saremo amici o nemici?” (cap. X).
Matilde arriva a concedersi a Giuliano per ricompensarlo della prova di coraggio che questi ha dato, salendo in camera sua (cap. XVI) e decide di sposarlo (e lo farà) contro la volontà del potente genitore.
Quelle convenzioni e quelle indecisioni che turbano la vita della Ríªnal e la contengono, non esistono per Matilde, che anzi infrange con voluttà ogni regola del suo ambente.
Ella è sconfitta soltanto dalla sua esuberanza incontrollata, che Giuliano scambia per pazzia o per immaturità mentre, a nostro avviso, in Matilde è il sentimento che la vince su tutto, sia esso capriccio, orgoglio o amore. Soltanto quando Giuliano è in prigione, noi vediamo questo sentimento fermarsi, assestarsi nell’amore doloroso di una donna che si sente battuta da un’altra; e non crediamo certo alle parole di Giuliano quando nel cap. XLII dice di lei: “Forse ha pianto tutta la notte; ma un giorno come si vergognerà a questo ricordo! penserà d’essersi lasciata fuorviare, nella sua prima giovinezza, dal basso modo di ragionare di un plebeo…”.
Infine, anche se le ultime parole del romanzo sono per la Ríªnal, noi crediamo che sia la figura di Matilde a dominare la conclusione e a lasciarci un doloroso sentimento: “Comparve Matilde in lunga veste nera, e, alla fine del servizio, fece gettare a quei montanari parecchie migliaia di monete da cinque franchi. Rimasta sola con Fouqué, volle seppellire con le sue proprie mani la testa dell’amante” cap, XLV).
Di lei non sapremo più niente.

LO STILE

Oltre che per il meccanismo narrativo ed i personaggi, l’opera di Stendhal è riconoscibile dalla descrizione, così partecipe, di taluni ambienti, ed in particolare quello ecclesiastico e quello dei salotti. Il primo è sempre denso di un fascino legato sopratutto ad atti liturgici, come una processione o una messa; il secondo è avvincente per la fitta rete di schermaglie e di intrighi in cui si gettano i protagonisti.
“Il rosso e il nero” non fa eccezione; e sappiamo già che Giuliano ha sentito il fascino della carriera ecclesiastica, sopratutto perché la Chiesa ai suoi occhi è più forte dei partiti. Così è proprio Giuliano che dà l’occasione a Stendhal della bella descrizione della stanza del vescovo di Agde nel cap. XVIII e della processione di Bray-le-Haut, con la partecipazione del re: “I contadini erano ubriachi di felicità e di esaltazione religiosa. Una giornata come quella distrugge l’opera di cento numeri di un giornale giacobino” (cap. XVIII).
Anche la descrizione della vita in seminario è assai efficace ma, al contrario del fascino che promana dalla suggestiva processione di Bray- le-Haut, qui tutto è teso a rendere l’ipocrisia, le invidie che accompagnano la formazione dei novizi. L’abate Castanède in una sua lezione dice agli allievi: “… otterrete un posto magnifico, un posto di comando, immune da ogni controllo, un posto dove starete inamovibili, e i cui stipendi sono pagati per un terzo dal governo e per gli altri due terzi dai fedeli, edificati dalle vostre prediche”; “Ho conosciuto, io che vi parlo, delle parrocchie di montagna dove i benefìci eventuali erano più considerevoli che in molte parrocchie di città. Lo stipendio era lo stesso, ma c’erano in più dei grassi capponi, delle uova, del burro fresco e mille altre cose gradevoli. Pensate che là il curato è il primo, senza contrasti: non c’è un buon pranzo a cui egli non sia invitato e dove non sia bene accolto” (cap. XXVII).
Esponenti di questo modo di intendere la vocazione religiosa sono indubbiamente lo stesso Castanède e l’abate Frilair, la cui figura svela da sé il suo carattere. Ecco infatti come Stendhal lo descrive nel cap. XXIX: “Quel volto avrebbe avuto una maggiore gravità, senza l’estrema astuzia che appariva in certi tratti e che sarebbe giunta fino alla doppiezza, se il possessore di quel bel viso avesse cessato un attimo di sorvegliarsi. Il naso, molto pronunciato, … dava, malauguratamente, al profilo, distintissimo del resto, una somiglianza irrimediabile col muso di una volpe”.
Allorché Giuliano è inviato dall’abate Picard in casa dei de La Mole, Stendhal si cimenta in uno dei suoi cavalli di battaglia, la descrizione di un salotto della nobiltà. Tutto sembra apparentemente tranquillo (“La noia si leggeva su tutti i volti”); eppure ciascuno è avidamente attento alle mosse degli altri; se qualcuno sorride, si sospetta una malignità; se tace, si suppongono le più compromettenti ragioni; si spiano gli sguardi, si studiano gli atteggiamenti. I giovani che ruotano intorno a Matilde sono gli occhi con cui Stendhal osserva il salotto dal punto di vista del pettegolezzo, della moda. E a questi giovani, infatti, non sfugge mai l’occasione di burlarsi anche di uno ricco e potente.
Più tardi, nel cap. XXII, Stendhal ci offre un altro aspetto del salotto de La Mole, quello dell’intrigo politico. Qui il capitolo appare intriso di mistero per la presenza di un potente duca di…, intorno a cui nobili e clero (c’è anche il giovane vescovo di Agde) si riuniscono per predisporre un piano di difesa della monarchia contro i giacobini. Dirà de La Mole:
“Fra la libertà di stampa e la nostra esistenza come aristocratici c’è guerra e morte”;
“Fra cinquant’anni non ci saranno in Europa che presidenti di repubbliche, e più nemmeno un re. E con queste due lettere R, E, se ne vanno i preti e gli aristocratici” (cap. XXII).
L’importanza che il salotto aveva al tempo di Stendhal per una persona che amasse l’attenzione e il successo, può essere riassunta nella frase del marchese de La Mole: “Non c’è altra candidatura reale e proficua che quella dei salotti” (cap. XXXIV).
Oltre all’ambiente, il grande scrittore francese sa offrirci anche delle descrizioni efficaci di alcuni personaggi, soprattutto quando costoro hanno una parte ridottissima nel romanzo. Ne è esempio il marchese Carlo di Beauvoisis, stupendamente tratteggiato nel cap. VI.
Anche l’entrata in scena, nel cap. XXV, dell’abate Pirard dà all’autore l’occasione di una bella descrizione del personaggio. Altro bel momento narrativo si incontra nel cap. XXVI, in cui si può trovare l’esempio del corteggiamento amoroso dell’epoca allorché, allo scopo di far ingelosire Matilde, Giuliano mette in atto i consigli galanti del principe Gorasov per farsi ricevere dalla signora di Fervaques. Parlando de La Certosa”, abbiamo rilevato che più volte Stendhal si dilunga nelle descrizioni, cadendo nell’ingenuità e sopratutto nella banalità. Ciò non avviene, a nostro avviso, ne “Il rosso e il nero” in cui l’autore, allorché una scena sta per farsi eccessiva, riesce coraggiosamente a troncarla, come quando Matilde è ebbra di gioia per l’audacia dimostrata da Giuliano nel salire in camera sua (cap. XIX).
Anche la morte del protagonista, resa lapidariamente, dà il segno di questo chiaro intento: “Tutto si svolse semplicemente e dignitosamente e senza affettazione da parte sua” (cap. XLV).
Si può senz’altro dire che in quest’opera lo stile di Stendhal è più controllato, meno rivolto alla contemplazione che ne “La Certosa”, e se ciò offre il pregio di evitare quei difetti che sottolineammo nell’opera posteriore â— specialmente quel certo romanticismo sdolcinato â— fissa anche il limite di questo romanzo, che manca degli enormi spazi scenografici e della tumultuosità di movimento che arricchiscono ed abbelliscono invece “La Certosa”.
Come abbiamo fatto per quest’ultima, anche qui vogliamo sottolineare una particolarità. Nel cap. I, quasi alla fine, si legge: “La carrozza si fermò”. Sulla carrozza, naturalmente, dovrebbero trovarsi l’abate Pirard e Giuliano, diretti al palazzo de La Mole. Ci si domanda, allora, quando essi vi siano saliti, poiché, tornando qualche pagina indietro per meglio ricordare, troviamo conferma che la loro conversazione dovrebbe svolgersi ancora in casa dell’abate! Così pure ci pare un po’ sforzata ed innaturale quell’alternanza del “tu” e del “voi” di Giuliano nei confronti della signora di Ríªnal, nel cap. XLV.

ALCUNI MOTIVI

Forse più che ne “La Certosa”, in questo lavoro hanno particolare rilievo alcuni motivi, ricorrenti tuttavia anche nelle altre opere di Stendhal. Il primo di essi è senza dubbio il rango, che ha ovviamente il posto d’onore, dato il significato che il romanzo vuole racchiudere nell’avventura di Giuliano. Vi è nel cap. XXIX un momento assai significativo dell’importanza che la società del tempo attribuiva ad esso, ed è quando la signora di Fervaques dice “molto seccata” a Giuliano di farle avere delle buste “col vostro indirizzo già fatto”. Infatti: “Alla seconda lettera, la marescialla fu quasi trattenuta dalla sconvenienza di scrivere di suo pugno un indirizzo così volgare” (cap. XXIX).
Il culto della proprietà, impersonato dai Valenod, è egregiamente reso nel cap. XXII allorché Giuliano fa loro visita. Del resto, presentando Verrières, l’autore ci dice chiaramente: “Ecco la grande parola che risolve ogni cosa a Verrières: rendere. Essa rappresenta da sola il pensiero abituale di più di tre quarti degli abitanti” (cap. I).
L’influenza del padre nella vita del protagonista è motivo ricorrente ed importante in tutte le opere di Stendhal, e sia ne “La Certosa” che ne “Il rosso e il nero” il figlio disprezza o comunque non sopporta il genitore (in “Lucien Leuwen”, invece, il padre assolve ad un ruolo tutto sommato positivo nella formazione del carattere di Lucien): “Giuliano non s’aspettava più, prima della morte, che un solo fatto sgradevole: la visita di suo padre” (cap. XXXVII).
Ä– un tratto questo che scopre l’infelice fanciullezza di Stendhal che, rimasto presto orfano della madre, una donna bella ed allegra, non vide nel padre che difetti tanto fisici che morali e non riuscì a nutrire per lui alcuna simpatia.
In quest’opera l’ironia è frequente ed anche temeraria, perché prende a bersaglio la Chiesa (“L’Ercole dei tempi moderni è Sisto V che inganna per quindici anni di seguito con la sua modestia quaranta cardinali, i quali l’avevano conosciuto vivace ed altero nella sua giovinezza”, cap. XXVI); la giustizia dei tribunali (cap. XXVI), la politica (cap. IV, XXII, XXIII), la galanteria (cap. XXVI).
Non mancano giudizi mordenti, come quello sull’opinione pubblica: “l’opinione pubblica la fanno gli sciocchi che il caso ha fatto nascere nobili, ricchi e moderati” (cap. XXIII), o amari, come quelli sulla vita matrimoniale: “La noia della vita matrimoniale fa sicuramente perire l’amore, quando l’amore ha preceduto il matrimonio”.
Traspare qua e là la simpatia di Stendhal per la vita di provincia, più rozza certamente, ma più sincera di quella cittadina. Dirà nel cap. V: “In provincia, se vi capita un accidente entrando in un caffè, il cameriere si interessa di voi; se poi questo accidente ha qualche cosa di sgradevole per il vostro amor proprio, lo stesso cameriere che vi ha soccorso ripeterà dieci volte la parola che vi tortura. A Parigi vi si usa il riguardo di ridere di voi nascostamente, ma siete sempre uno straniero”; e nel cap. XXXVII: “Le sgrammaticature, i gesti grossolani di Fouqué non contarono più: Giuliano gli si buttò tra le braccia. Mai la provincia, messa al paragone con Parigi, ha ricevuto un omaggio più bello”.
Oltre al significato e al meccanismo narrativo, ci sono tra “Il rosso e il nero” e “La Certosa” somiglianze più specifiche, le quali rivelano come Stendhal fosse legato ad un suo mondo spirituale ben preciso e pressoché immutabile, che si riversa nei suoi lavori spesso con identiche immagini o slanci.
Così l’entusiasmo della Ríªnal per Giuliano (“l’eccesso di felicità le aveva quasi tolto l’uso della ragione”, cap. VIII) si ritrova presente nella Sanseverina, quando abbraccia Fabrizio, liberato dalla prigione. Anche il figlio più piccolo della Ríªnal si ammala gravemente, come succederà al figlio di Clelia; e la prigione di Giuliano è una torre come quella di Fabrizio. Infine, l’interesse della folla per il processo di Giuliano anticipa quello per le prediche di Fabrizio.
Concludiamo con una significativa particolarità: dal cap. XLII, Stendhal non pone più la consueta epigrafe; dal momento in cui, cioè, Giuliano, al termine del processo, pronuncia le parole “Trovo giusto d’essere condannato”, Stendhal comincia lui stesso, dal di fuori della storia, a preparare il protagonista alla morte, liberandolo gradualmente dai suoi ricordi della vita.


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Bart