LETTERATURA: STORIA: Giuliana Ricci: “Le streghe di Soraggio e altri eretici”
22 Novembre 2019
di Bartolomeo Di Monaco
Streghi e streghe sono esistiti da sempre, e hanno suggestionato nei secoli la fantasia popolare. Grandi autori, come Andersen, Perrault e i Fratelli Grimm, li hanno inseriti nelle loro storie, soprattutto nelle favole, appassionando e un po’ terrorizzando i loro lettori più piccoli. Sin dalla più tenera età, il bambino ne sente parlare in famiglia, lo si minaccia con l’invocare l’arrivo della strega, quando gli si vuole impedire di fare qualcosa di pericoloso o di non gradito. La strega è un po’ il castigo più severo che possa essergli inflitto.
Un tempo però la strega non era una semplice minaccia fantasiosa, ma veniva individuata come persona fisica, accusata dal popolo magari per il suo aspetto disordinato e pauroso, per i suoi lunghi capelli spettinati, per il naso adunco e bitorzoluto, per gli occhi dallo sguardo curioso e penetrante, la voce fina e stridente, le mani lunghe e appuntite, l’abito lungo, sporco e consunto, ma anche per semplice invidia o antipatia.
Le si attribuiva ogni malefizio capitato nella comunità e la si accusava selvaggiamente affinché fosse punita.
Dal XII secolo in poi ci pensò la Chiesa a darle il giusto castigo attraverso l’Inquisizione, prima quella medioevale e successivamente nel XV secolo quella spagnola. La pena estrema era una sola: il rogo. E ad assistere al rito selvaggio era tutta la comunità, che ne gioiva, soprattutto nel momento in cui le fiamme avvolgevano il corpo della vittima, straziandolo.
Era facile, a quei tempi, liberarsi di una persona, radicando a poco a poco nella comunità la convinzione che essa fosse una strega o uno strego. Rari i casi in cui il poveretto scampasse alla punizione, che non sempre, per la verità, arrivava al rogo, e nei casi meno gravi poteva più generosamente condannare al bando dalla comunità per qualche mese o per alcuni anni.
Per chi voglia entrare in questo mondo che fu reale, e causò, ahimè, un numero considerevole di vittime, consiglio la lettura di due opere, che sono un caposaldo in materia: Jules Michelet: “La strega” e Aldous Huxely: “I diavoli di Loudun” (la storia narrata in quest’ultimo libro e accaduta in una piccola cittadina francese nel 1634, fu tradotta in vari film, l’ultimo dei quali è quello di Ken Russel, “I diavoli”, del 1971).
Giuliana Ricci, classe 1969, laureata in farmacia, che ha scritto già diversi libri toccando vari temi, affronta un caso di stregoneria di qualche decennio precedente a quello di Loudun, accaduto in Lucchesia, in un piccolo paese della Garfagnana, Soraggio, nel 1607.
Non so quanti conoscano questo caso, che deve aver suggestionato e sconvolto la piccola comunità, e l’averlo riproposto non può che essere ascritto al merito di questa scrupolosa e appassionata ricercatrice, brava anche nel disegno e nella pittura (sua la bella e suggestiva copertina).
Vediamolo insieme.
Troveremo, quasi al termine, una considerazione che inquadra la particolare epoca in cui i fatti accaddero: “Appare evidente che, tranne pochissime eccezioni e indipendentemente dal rango sociale, all’inizio del 1600 tutti credevano nelle streghe. La realtà costituiva un velo, oltre il quale si celava un mondo soprannaturale fatto di angeli e demoni, di limbo e purgatorio, di inferno e paradiso, di salvezza e dannazione. Un universo trascendente che poteva essere intuito nel momento in cui si manifestava attraverso segni prodigiosi.
Del resto, l’uomo era stato attratto da questa sfera ultraterrena fin dagli albori della sua esistenza.”; e ancora: “Le preghiere si accompagnavano agli incantesimi. La rigida osservanza camminava insieme al sacrilegio e alla convinzione di riuscire ad acquisire poteri dal commercio con le forze demoniache.”.
Uno degli inquisitori si chiama padre Lorenzo Lunardi da Sillico; deve indagare su una supposta stregoneria e, nel convento di san Francesco (“tra Pieve Fosciana e Castelnuovo”), è in attesa della visita del rettore della chiesa di san Martino, che sorge “in località detta Rocca di Soraggio”, anch’essa situata tra Castelnuovo Garfagnana e Pieve Fosciana. Padre Lorenzo “agisce su mandato del reverendo padre Serafino Burra de Brixia (Brescia), dell’ordine dei predicatori, lettore di sacra teologia e inquisitore generale per i domini del serenissimo duca di Modena.”.
Bussano alla sua porta ed è proprio il rettore atteso, don Joannes Paninius, di 50 anni, unitamente a due suoi parrocchiani, “cristiani devoti e accompagnatori fidati.”: Simone de Bassetti e Bartolomeo di Giovanni Antonio, entrambi di Rocca di Soraggio. È il 18 giugno 1607. Don Joannes non perde tempo ad illustrare la situazione: “Sono molto preoccupato. Non potevo rimandare oltre la questione e con questa denuncia intendo sottoporre alla vostra attenzione i numerosi casi di stregati verificatisi in quel di Soraggio. Una vera sciagura, un’infestazione di streghe da debellare all’istante.”.
La chiesa è stata sempre solerte nella caccia e nella punizione delle streghe, e così avvenne anche per Soraggio, in cui, come a Loudun, si era rivelata una consorteria di streghe che aveva messo a soqquadro la comunità. Non una sola strega, dunque, ma “molte persone spiritate” riunite dalle stesse finalità malevoli e persecutorie abbattutesi su “circa una sessantina di affatturati”.
L’inquisitore ascolta la deposizione e il suo assistente, Frate Hieronymus (“Hieronimus de Plebe Fosciana”), redige il relativo verbale, in luogo di un notaio, come si sarebbe dovuto fare, ma in questo caso “era indisposto e gravato di febbre”.
Continua il rettore: “Vengono a cercare un conforto da me ma, per quanto sia grande il mio impegno, la piaga si sta diffondendo rapidamente. Chi ha un figlio e una nuora stregati, chi la moglie o la nipotina spiritata. La vista di immagini sacre genera scompiglio, urla, tremori e fughe. Scene da brivido. E se nella comunità vi sono degli spiritati, devono esserci anche delle streghe.”.
A quel tempo la connessione tra certe isterie religiose e la stregoneria era automatica.
L’autrice ha scelto la strada di raccontare al modo del romanziere, come fece Aldous Huxely, e la lettura scorre in modo accattivante, con le giuste pause e riflessioni.
Il rettore ne ha individuati già quattro, di streghe e di streghi: Lucrezia di Biagio da Soraggio, Maria di Gian Antonio, Jacopino di Luca Saltata e Maria di Francesco di Cappa. Quest’ultima è una vedova ed è conosciuta da tutti come La Capina.”. Tra esse, dunque, anche uno strego.
Precisa il rettore: “Le persone che ho denunciato, quando incontrano dei religiosi, mostrano timore e non hanno l’ardire di alzare gli occhi. Questo è un chiaro segno di coscienza sporca.”. L’autrice ci dice anche che don Joannes “Non aveva motivo per essere dubbioso. Padre Lorenzo era da anni al servizio del Santo Uffizio ed era avvezzo a sospettare di chiunque cadesse nella sua rete. Un inquisitore non credeva nell’innocenza, sapeva bene che ogni creatura umana nasce macchiata dalla scellerata colpa del peccato originale.”.
Bastano queste prime annotazioni dell’autrice perché il lettore si senta calato immediatamente in quell’epoca lontana e ne intercetti perfino costumi, inganni, aberrazioni, sofferenza e intrigo.
Era facile accusare qualcuno di stregoneria. Gli interrogatori condotti dall’inquisitore ci mostrano il carattere molto suggestionabile in quegli anni, soprattutto delle donne, facili a sospettare di sortilegi e malefici.
Cominciamo ora dalle accuse che si orientano su Lucrezia moglie di Biagio di Villa Soraggio. Dice la prima testimone, Anastasia di Francesco “abitante di Villa di Soraggio, di quarant’anni” (siamo al 3 luglio 1607): “Io non so altro, se non che è voce publica che Lucrezia moglie di Biagio dalla Villa di Soraggio sia strega, ma però io non ne sono certa, et altri segni esteriori non cognosco in lei se non che essendo mia vicina so che alle volte la notte i figliuoli di lei la chiamano et ella non risponde, et io immaginandomi che all’hora sia in stregaria gl’ho domandato più volte dove ella sta la notte et ella mi ha risposto che sta fuori a vegliare. (…) in queste ville di Soraggio vi sono molti, e molti maleficiati, et io in particolare ho un mio figliolo, et una mia nora… maleficiati ma da chi assolutamente non lo so, gl’è ben vero che io mi imagino che siano stati maleficiati dalla sudetta Lucretia e questa mia immaginatione la fondo per il dire publico delle genti, et anche ho cognosciuto la nonna di lei la quale era tenuta da tutti per strega.”.
Se una donna era considerata strega, ne marchiava tutta la discendenza. Difficile liberarsi di sospetti e accuse. Il giudizio negativo era inappellabile e incancellabile. Dirà più avanti un’altra testimone, Antonia, moglie di Andrea di Giovanni, di trentacinque anni, “residente a Metello e cugina di Jacopino”: “Io so per voce publica che la madre del sudetto Iacopino, detta Filippa, e la madre di Maria di Gian Antonio… e la nonna di Lucretia… erano tenute streghe comunemente da tutti.”.
Tornando a Anastasia, ella fa anche i nomi degli altri tre sospettati e poi firma il verbale con un segno di croce, essendo, come tutto il popolino, analfabeta. Assistono alla firma, come testimoni della sua autenticità, Hieronimus e altri due assistenti: “il presbitero Matteo, abitante alla Rocca di Soraggio, e Pietro di Lorenzo Pannini, abitante alla Villa di Soraggio.” Quest’ultimo verrà in seguito sostituito da “Andrea di Giovanni Antonio della Rocca di Soraggio.”.
Anche Lucia di Francesco, “abitante alla Villa di Soraggio, di anni trenta”, accusa Lucrezia: “Raccontò che l’imputata le aveva toccato la gamba sinistra e, a causa di quel contatto, si era formato un grosso livido. Da quel momento, si sentiva tutta travagliata.”.
Un contadino, Giuliano di Giovanni Cardella “abitante alla Villa di Soraggio, contadino – exercens artem rusticam – di trentacinque anni”, accusa tutta la comunità di essere stata colpita da stregoneria: “L’uomo aveva perfino assistito agli esorcismi operati da don Johannes sulle donne spiritate. Si era trovato di fronte a scene sconvolgenti, a grida lanciate davanti ai ritratti dei santi e a contorcimenti per sfuggire la vista delle immagini sacre.”: “a me in particolare è successo che tornando da Volterra ho portato due figure d’alabastro della Madonna e vedendole una fra altra che si tiene che sia malefitiata, la quale si chiama Maria di Marco dalla Villa di Soraggio, si ritirò in dietro, e cominciò a fare molto strepito, e rumore.”.
Nei giorni successivi le testimonianze, che si tengono “sempre nella canonica della chiesa di san Martino”, cominciarono ad essere più pesanti su uno o l’altro dei sospettati, e padre Lorenzo cominciò “a sgomentarsi.”. Lo strego Jacopino, ad esempio, “Operava malefici persino sulle bambine di diciassette mesi. Se l’era presa pure con una ragazza, “Angiola, figlia di Bartolomeo, di anni 19 e residente a Villa di Soraggio.”, perché aveva respinto il suo invito al sabba. Di fronte al rifiuto della giovane, le aveva affibbiato un calcio nella coscia sinistra. La gamba era divenuta secca, rattrappita, ed era rimasta immobile per due giorni.”: “… fu nel canale detto di Rivangaia, in su l’Alpe di Soraggio, mentre io dava l’acqua al prato; in quanto al giorno determinato non me ne ricordo ma fu del mese di maggio, la mattina di bon hora, nello stesso giorno che mi pregò che io dovessi andar con lui in stregaria, e non vi era alcuno presente per che vedesse ma mediante la percossa che mi dette cadetti in terra e mi svenni.”; “… quando mi risentì erano arrivati ivi Bernarda mia sorella e Domenico di Filippo, li quali mi portorno su nel prato che io da per me non potevo andare havendo la sinistra gamba quasi secca, e ritratta, e così stetti dui giorni, e poi per gratia di Dio son risanata.”.
Simone di Lorenzo, “contadino quarantenne della Rocca di Soraggio”, su Jacopino racconta: “doppo che è cominciato a venire in casa mia che è stato da poco tempo in qua, ho quattro figliuoli, tre di femmine et un mastio, che sono travagliati, e adesso il sudetto Jacopino non pratica più in casa mia.”. Continua, illustrando le reazioni della gente stregata: “quando sono exorcizati, o che veggono religiosi, o quando sono alla messa, e quando veggono immagini di santi fanno urli, e strepiti e tremiti con tutta la vita, et altri segni da spiritati.”.
Ancora su Jacopino, troviamo la testimonianza di Francesca di Francesco Ramella, “ una sessantenne di Bricca”: “Ho inditio che il sudetto Jacopino habbia fatturato mia figliuola poi che mentre che queste fatturate sono exorcizate dicano che il sudetto Jacopino habbia ficcato un chiodo in un gelso vicino a casa mia e, nel tagliar poi quel gelso, vi trovorno un chiodo e mentre lo cavorno mia figliuola faceva grandissimi strepiti e urli bestiali e da poi in qua è andata sempre meglio.”. Su questo fatto delle due stregate (“Jacoba figlia di Francesco e Jacopina d’Antonino Maroni”) e del chiodo, abbiamo anche la testimonianza di Giuliano di Giovanni Metello, “Un falegname (artem fabri lignarii) di quarantotto anni”, il quale aggiunge alcuni particolari: “circa al chiodo poi pure lo prese il nostro rettore e lo guastò, e ruppe con un martello, e con un’accetta e lo gettò nel fuoco, e mentre che ciò si faceva la sudetta Jacopa malefitiata pativa grandemente e gettava urli insoliti.”. Il chiodo aveva anche altre funzioni, come ci fa sapere la testimone “Elisabettina moglie di Marco, di cinquant’anni e abitante a Villa di Soraggio.”, la quale ha un figlio, Bartolomeo, gravemente ammalato: accusa Maria di Francesco del Cappa, detta La Capina che era andata a trovarla per suggerirle un rimedio: “ti voglio insegnare risanarlo e guarirlo, et il modo che mi insegnò fu tale, mi disse che io pigliassi un chiodo nuovo, e dopo prendessi una parte di qual si voglia vestimento che egli portasse addosso e conficassi quel chiodo in una parte del sudetto vestimento sopra d’un legno e poi mi disse che non tagliassi il vestimento, né con cesoie, né con coltello ma che io lo strappassi che all’hora gli passerebbe via il male.”.
Alcuni dei sospettati avevano pure causato delle morti. Petrino Mignani, contadino, accusa La Capina di avergli ucciso il figlio “perché morendo nella Villa di Bricca tre giovani et in particolare un mio figliolo, quale era malefitiato, disse la sudetta Maria… che ella sapeva che in quel tempo dovevano morire, et anche quando ella veniva in casa mia quel mio figliolo non la voleva vedere, e mostrava segni che da lei particolare fusse stato malefitiato.”.
Ma la moglie Francesca, “di trentacinque anni”, lo smentisce: “io non so inditio alcuno, anzi essendo io vicina della sudetta Maria del Cappa non ho mai visto cosa alcuna di lei, anzi molte volte ragionando meco si è lamentata con dire queste gente dicano che io sia strega e che io sia una di quelle che facci maleficii, il che non è vero.”.
A chi credere? Quella donna aveva sconcertato padre Lorenzo. Ma anche il resto che aveva ascoltato da altri testimoni: “Negli interrogatori successivi vennero a galla storie di bestemmie, di magie contro-magie, di rituali di dannazione e guarigione, di minacce e combutte. Non bastavano le bastonate ricevute da entità invisibili, c’erano anche streghi che si appostavano davanti alle porte in forma animale.”.
Le streghe possono anche trasformarsi in animali, infatti. Lo racconta (siamo arrivati al 6 luglio 1607) il testimone “Battista, già figlio di Domenico Panini e contadino ventiquattrenne, residente a Villa di Soraggio”: “havendo io una mia figliuola di dui anni fatturata alla quale facevo guardia particolare e una notte fra l’alba intorno alle 5 hore nell’aprire un uscio mi si fecero avanti varie forme di diversi animali, et io perciò mi persuado che fossero malefichi e streghi che volessero venire a far morire quella mia figliuola, e tanto più lo credo che il giorno avanti essendo exorcizate alcune maleficiate dissero che la medesima notte sarebbono venute a casa mia a finire il malefitio incominciato intorno alla mia figliuola, e quelle che l’havevano cominciata a fatturare erano la sudetta Lucretia, Jacopino, e Maria di Gian Antonio Frate da Bricca.”.
Anche a causa della presenza dell’inquisitore, ormai la paura e il sospetto erano dilagati tra la gente di Soraggio: “Nella piazza, lungo i vicoli, attorno alla fontana e sul piazzale della chiesa, si formavano spesso piccoli assembramenti. Si commentavano gli ultimi eventi e si evocavano i tempi passati, in cui una cerchia di streghi aveva istruito la sua prole immonda.”.
Quelle della Inquisizioni erano sempre indagini lunghe che non si chiudevano in una o due settimane, ma duravano assai di più. L’indagine di Soraggio occupò addirittura due anni, e infine padre Lorenzo si decise, proprio al termine degli interrogatori del 6 luglio, a scrivere all’inquisitore generale di Modena, padre Serafino Burra di Brixia per “ordinare l’arresto degli accusati…”, per il timore di una loro fuga, e infatti vengono trasferiti “a Modena, via Frassinoro, dove sono incarcerati e saranno esaminati dal tribunale dell’Inquisizione.”.
L’autrice continua a guidarci per mano, con la scorrevolezza e il garbo di una narrazione ben costruita su fatti realmente accaduti e ci offre un ritratto del tempo, così da facilitarvi l’immersione del lettore.
“Questi borghi, dislocati a varie altezze lungo la stretta vallata del fiume Serchio, erano formati da comunità dedite alla pastorizia, alla caccia, al piccolo artigianato, allo sfruttamento dei boschi e dei prati che circondavano le vette dell’Appennino tosco-emiliano. Inoltre, come mostrano le varie testimonianze, buona parte della popolazione adottava l’emigrazione stagionale, non solo per la transumanza ma anche per trovare lavoro a Pisa e in Maremma.
Attualmente questi paesi sono compresi nel comune di Sillano, in provincia di Lucca, ma in passato hanno subito diversi domini.”.
Ne riepiloga la storia e ci fa sapere che all’epoca delle streghe di Soraggio, la zona era sottomessa a Modena, retta dai duchi d’Este. Ma Lucca aveva delle ambizioni sul territorio e si attraversò un periodo di scontri e rivendicazioni: “Questo intersecarsi di terre e competenze generava scontri e disordini, soprattutto perché Lucca voleva riconquistare i territori perduti e mantenere il controllo delle vie di collegamento con la Pianura Padana. Di conseguenza, la Garfagnana si ritrovò al centro di due guerre, la prima nel 1603 e la seconda nel 1614, che però lasciarono la situazione immutata.
Gli avvenimenti dei processi esaminati accaddero in questo lasso di tempo, esattamente tra il 1607 e il 1609.”. Al termine del libro, nella Conclusione, troveremo altri dettagli.
La Giannini ci offre una riproduzione testuale degli interrogatori nella loro parte più significativa, e nella lingua volgare del tempo. Ne abbiamo già dato conto e ne daremo ancora, anche se in modo molto ridotto; esse rendono le atmosfere del tempo mostrandocele intrise soprattutto di gelosie, paure, fanatismo religioso, superstizioni, e di una notevole dose di suggestionabilità.
Ora ci troviamo di fronte all’inquisitore generale di Modena presso il convento di San Domenico, che interroga i quattro sospettati, ivi trasferiti per l’ulteriore stadio del processo.
È il 23 luglio 1607. Il primo ad essere interrogato è Jacopino di Luca Saltata: “io ho nome Giacopino figliolo del già Gianluca Saltata, et sono da Brica di Soraggio di Garfagnana et habito a Brica, et ho quaranta anni, e anco quarantuno in circa, et il mio esercitio è di lavorare, tagliar delli ligni, et affaticarmi.”. Nega di essere uno strego: “davano la colpa a me, ch’io vado in stregaria, et non è vero; et per questo io penso di esser messo in prigione et esaminato.”. Protesta la sua innocenza e interrogato sulla madre Filippa che in vita era stata considerata una strega, risponde: “non l’ho saputo né lo so, che mia madre sia stata tenuta per malefica et striga.”.
Non v’è dubbio che il linguaggio del popolo del XVII secolo è intrigante, saporoso e schietto, ed è esso stesso uno dei protagonisti di questo libro.
Poi è la volta di Maria, vedova di Francesco del Cappa, la nota La Capina, che non sa esattamente dire la sua età che è indicata in “annos 80 in circa”, e a riguardo del suo mestiere dichiara: “il mio esercitio è di zappare et aiutarmi al meglio che posso.”. E subito aggiunge: “dimando perdonanza della bestemia, se havessi bestemmiato in colera per li figlioli, et non so d’havere peccato cosa nessuna.”, e ci tiene a precisare: “io non so la causa perché sia stata messa in prigione, né perché vostra reverenza m’esamini adeso né me l’imagino.”. Ma non si perita di fare i nomi di due donne considerate stregate: “et lo so perché le ho sentite quando sono stata alla messa a gridare, et non so per altra via che loro siano inspiritate et maleficiate.”. Ma non conosce chi possa averle stregate, non certo lei, che si dichiara innocente: “pre’ io non lo so chi siano imputati, o huomini o donne, che habbino maleficiato quelle due donne, né so persone alcune che facciano maleficii o superstizioni o che vadino in stregaria. Dio è in cielo che sa ogni cosa.”.
È una donna che non rivela alcuna paura ed è in grado di tenere testa al suo interlocutore, padre Serafino, che non riesce a trarre da lei quanto aveva sperato, pur interrogandola più volte e cercando di confonderla.
Ma dobbiamo dire che anche Jacopino e gli altri due che saranno interrogati dopo La Capina, non manifesteranno mai incertezze nell’affermare la propria innocenza.
Il giorno successivo, 24 luglio, è la volta di Lucrezia di Gian Antonio, terza interrogata: “io ho nome Lucretia, figliola di Gian Antonio di Bertolacini da Brica, et mio marito ha nome Biasio, non mi raccordo di quali, et sono da Soraggio, dalla Villa di Soraggio, et sono d’anni 45 in circa, et vado alli campi, et attendo alla famiglia, et vado a lavorare.”. Dichiara che ha “sei figliolini” ed è “nitta e pura come la Vergine Maria.”. Sa che ci sono degli stregati, ma non conosce chi li abbia colpiti del maleficio: “et che volete ch’io sappia a chi si dia la colpa, io non lo so, né l’ho sentito a dire.”. Né sa perché sia stata imputata anche la madre e considerata strega pure sua nonna.
Il lettore si sta rendendo conto che queste povere disgraziate sono veramente vittime di calunnie, gelosie, dispetti legati ad una società intrisa di superstizione, e non ha alcuno indugio a riconoscerle innocenti, nonostante la loro condanna. Non furono le prime (soprattutto le donne, in specie) a pagare spesso con la vita lo scotto di vivere in una società fragile e bigotta. Scrive nel capitolo Conclusione l’autrice: “A fare le spese di tutte queste superstizioni furono soprattutto le donne. Vari trattati, tra cui il Malleus Maleficarum, le descrivevano come depositarie di facoltà nocive, esseri corruttibili, intermediari tra il diavolo e l’umanità. La loro natura curiosa e perversa le conduceva a seguire i demoni e a esserne preda. Non temevano di partecipare ai sabba e fare patti scellerati”. E ancora: “La differenza di erudizione era enorme: le domande venivano verbalizzate in latino, anche se erano rivolte in volgare all’accusato, e quest’ultimo rispondeva nel proprio dialetto che spesso l’inquisitore stentava a capire.”.
La quarta interrogata è la madre di Lucrezia, Maria, moglie di Gian Antonio di Bertoli di Frate da Brica villa di Soraggio, “et ho 70 anni, et il mio esercitio è di lavorare, zappare, et mio pre’ haveva nome Domenico di Vignali.”. Pre’, che abbiamo già visto usato da La Capina, sta per padre, rivolto al presbitero. Anche lei si dichiara senza colpa: “voi mi davate il giuramento di dire la verità, et mettetemi alla corda, mettetemi alla manaia, ch’io sono nitta di questo come Gesù Cristo di peccato, non so che dirvi.”. Alla domanda se è a conoscenza delle accuse che le sono mosse, risponde di sì e precisa: “io l’ho saputo anco perché dicevano i spiriti ch’io andava in stregaria, et una donna in particolare che si chiama Giacopina, moglie di Marco, non mi raccordo di che casata sia, che sta alla Costa di Soraggio, la quale io incontrai, et l’affrontai ch’io coglieva del fieno, et gli dissi che cosa è quello che tu dici di me, che cosa t’ho fatto, et lei si buttò in ginocchioni, et mi disse che non era lei che dicesse ch’io vado in striga, ma sono li spiriti, et che lei non ne sapeva niente ch’io vado in striga ma sono li spiriti che favellano; né so da altra banda, et non so nulla nulla.”. Smentisce anche che sua figlia Lucrezia e sua madre (nonna di Lucrezia) siano o siano state streghe.
Il 27 luglio 1607 il rettore don Joannes scrive una lettera a padre Lorenzo, il primo inquisitore, per informarlo che, dopo l’arresto dei quattro sospettati, la popolazione è andata in subbuglio, nessuno riesce a dormire la notte e sono aumentati paure e sospetti.
Gli interrogatori andranno avanti per molto tempo, poiché l’inquisitore generale non crede a nessuna delle testimonianze rese e vuole indurre i sospettati a qualche contraddizione. Per le povere vittime sarà necessaria una forte capacità di resistenza. L’interrogatorio si trasforma, così, in una specie di tortura psicologica, tanto penetrante e insidiosa da creare angoscia e stanchezza nelle vittime, le quali, è bene ricordarlo, sono prive di istruzione e facilmente trascinabili in pericolose contraddizioni, le quali facilitano il sospetto nell’inquisitore, che ne approfitta.
Il libro ci mostra molto chiaramente questo aspetto, sadico e cinico a un tempo, volto a poter formulare una condanna a carico dell’indagato.
L’interrogatorio del 1 agosto di Maria di Gian Antonio è un esempio. Padre Serafino vuole incastrarla, e lei è costretta a fare le capriole per correggersi e chiarire: “io ho detto che stanno alla Costa, Giuliano et sua moglie, ma anco stanno alle volte a Brica; et quando ho detto che a Metello non ci sono in spiritati, ho inteso che sono alla Costa, perché Metello è la Costa, è tutta una cosa, che v’è solo un canale in mezo; et quando ho detto che la moglie di Giuliano è inspiritata, ho inteso che alle volte parla fuori di proposito, e quando ho detto che non è inspiritata, ho inteso che parla in cervello; et io sono nitta di queste cose.”. Maria non sa farsi il segno della croce nel modo corretto, e anche questo è un ulteriore motivo per dubitare di lei. Ci fa sapere l’autrice: “Ancora una volta si fa il segno della croce e non compie un gesto perfetto: muove la mano dalla fronte al ventre, poi la riporta al petto senza spostarla al lato sinistro e al destro.”.
A Lucrezia, la figlia della suddetta Maria, interrogata di nuovo il 2 agosto, l’inquisitore insinua e vuol sapere dove si trova ogni volta che i suoi figli piangono di notte, poiché sospetta che vada in stregaria, insieme con le altre, ma lei risponde: “io sono acanto a loro, et dove volete ch’io vada? Non vado in luoco nessuno.”.
Il marito di Maria e padre di Lucrezia, Gian Antonio, scrive una lettera all’inquisitore generale di Modena in cui accusa il rettore don Joannes di essersi inventato tutto per eliminare delle persone scomode che conoscono le sue relazioni con alcune donne della comunità di Soraggio: “La causa è che detti che sono imprigioni di V.S. havevano detto e parlato d’alcune donne che facevano le spiritate et andavano e vanno di continuo a darsi piacere con detto prete alla sua canonica”.
Ma padre Lorenzo, imperterrito, continua le sue indagini interrogando varie persone della comunità di Soraggio, in cerca di altre testimonianze che possano aiutare l’inquisitore generale.
La sensazione che se ne ricava è che la caccia alle streghe e agli streghi era svolta dalla Chiesa con puntigliosità e accanimento. Quando si muoveva, lo faceva per conseguire una sentenza di condanna. Tutta la comunità che ne era stata compresa subiva una pressione tale che la resistenza, soprattutto in quei tempi assai infatuati dalla superstizione, alla fine era fiaccata.
Una certa Domenica di Simone di Lorenzo, di trent’anni, di Rocca di Soraggio, arriva ad accusare uno dei sospettati, Jacopino, solo per il fatto di esserselo sognato di notte: “io non so da chi io sia stata malefitiata ma ho sospetto del suddetto Jacopino perché dormendo mi sono sognata, et mi è parso vedermelo avanti con grandissima paura, et questo mi è intervenuto assaissime volte.”. Jacopino frequentava la sua casa e l’autrice avanza il sospetto, poiché era un noto donnaiolo, che ci andasse per la donna, e che dunque l’accusa nascesse da un’intesa tra il marito Simone e lei nel “tentativo di mascherare la vergogna di un tradimento e un’opportunità di vendetta per il tradito, oppure per l’amante abbandonata.”.
Insomma, accusare qualcuno di stregoneria nascondeva spesso uno scopo tutto personale ed anche piuttosto ignobile dettato da sentimenti pruriginosi e spesso inconfessabili.
A dar man forte all’inquisitore generale, ci pensa incessantemente padre Lorenzo, interrogando questa volta alcuni sulla diceria secondo la quale la madre di Jacopino, Filippa, e la madre di Maria di Gian Antonio, Catalina detta La Rapaia, erano streghe. Ad accusarle è Maddalena, vedova di Antonio, di Costa Soraggio, di anni sessantuno. Su Filippa rivela di aver ricevuto da lei questa confidenza: “hora che io sono vecchia non vorrei più andare in stregaria ma se io non ci vado li altri streghi mi batteno et percuoteno.”; e su Catalina, conferma che è stata la causa della morte del fratello Paulino, il quale in punto di morte le aveva detto “che moriva per cagione della Rapaia (…) il lunedì notte, sentendo piovere, uscii fuori per mettere in casa alcune robbe e fui percosso malamente dalla suddetta Catalina, qual mi disse non ero qui per te. Così, il martedì morì.”.
Interessante l’accusa che un’altra testimone, Antonia, moglie di Martino, rivolge alla madre di Jacopino, Filippa: “medicò una donna chiamata Margherita moglie di Marco da Bricca, quale anco hoggi dì è viva, et… prese una scudella di acqua et vi pose dentro de carboni accesi et con refe misurava quella scudella et poi dette da bere di quel acqua alla suddetta Margarita inferma et a me disse poi la suddetta Filippa che il male che havea la Margherita l’havevo io, perché li altri streghi mi batteranno.”. Margherita, di anni cinquantaquattro, interrogata a sua volta, confermerà la deposizione di Antonia.
L’accusa a Filippa viene anche da un’altra testimone, sempre interrogata dallo scrupoloso padre Lorenzo, che darà, quindi, un forte contributo al processo di stregoneria in corso a Modena, condotto da padre Serafino. La donna ha quarant’anni e si chiama Pedra di Bartolomeo di Villa Soraggio e riferisce di una confidenza ricevuta da Lucrezia, l’accusata che già conosciamo, la quale ha assistito ad una stregoneria di Filippa: “fece un incanto per guarire una figliola della Polica da Bricca quale era maleficiata et l’incanto fu tale, pigliava tre candele benedette et facea succiare l’estremità di quelle tre candele cioè quella parte verde che è in fondo alle candele da tre fanciulle vergini et poi con quella cera facea non so che medicamento che io non me ne ricordo e la suddetta Lucretia quale è in prigione a Modena mi disse che lei medesima fu una di quelle tre fanciulle che si trovarono a succiare quelle candele.”.
Maria moglie di Francesco, di anni quarantadue, di Villa Soraggio confermerà questa deposizione, e aggiungerà che con quella cera Filippa toccava e “ungea l’infermo maleficiato e lo sanava.”.
La resistenza dei quattro accusati è all’estremo. Il 5 settembre Lucrezia prova ancora a difendersi: “s’io ho fallito perdonatemi, et io non vi dico la bugia, et s’io fallisco, fallisco per non sapere.”.
Maria di Francesco del Cappa (“La Capina”), addirittura, a forza di resistere agli incessanti interrogatori, ne morirà “e il 18 settembre viene seppellita.”.
Per far cedere Jacopino si ricorre a “un altro inquisitore: Domenico di Mantova, un frate tenace che tiene sotto torchio l’imputato.” Il quale si incaponisce di voler chiarire il rapporto tra lui e i coniugi Simone e Domenica, di cui è considerato l’amante. Ma Jacopino insiste nella sua versione dei fatti: “Se l’hanno detto, hanno detto la bugia… a Domenica non ho mai parlato se non al molino, in casa mai, a Simone per la strada quando l’ho affrontato, come s’affrontano gli huomini, et in casa non gli sono mai stato, dicano mo li testimoni quello che vogliono.”. L’inquisitore vuol sapere della madre Filippa, reputata una strega, e lui risponde: “io non ho mai conosciuto mia madre perché morì, et bisogna che fossi picciolino perché non l’ho mai conosciuta, et non so se sia stata tenuta per strega, et non ho mai sentito a dire che fosse strega, se non nelli esamini che mi sono stati fatti.”. Nega anche di essere la causa dell’incidente capitato a Angiola, figlia di Bartolomeo, di anni diciannove, la quale, come si ricorderà, ebbe per due giorni la gamba sinistra secca e rattrappita, poiché colpita da un calcio datole da Jacopino. Al termine dell’interrogatorio si rimetterà al buon cuore della Santa Inquisizione: “quando veni qui al Santo Uffitio mi parve di venire in Paradiso, m’assicuri che non mi farà alcuna ingiustizia, anzi che mi trattarà con misericordia, però non voglio fare alcuna diffesa, né meno havere copia di processo, et mi rimetto in tutto e per tutto alla santa Inquisitione”. A lui tocca di essere perfino torturato, ma non confessa alcuna colpa, e nonostante ciò fra Domenico di Mantova il 24 ottobre 1607, lo condanna a subire alcune pene, tra cui il bando “da Soraggio di Garfagnana, et dalli suoi contorni, per 10 miglia, per doi anni”. Anche Lucrezia si rimetterà con fiducia nelle mani della Santa Inquisizione, che sempre il 24 ottobre, la condannerà, tra l’altro al bando da Soraggio, come accaduto a Jacopino, ma limitatamente ad un solo anno. Stessa pena, e nello stesso giorno, viene inflitta a Maria di Gian Antonio.
La tenacia degli inquisitori è pervasiva e dà al lettore l’idea di quanto diventasse insopportabile la vita per chi fosse caduto sotto le loro grinfie. L’inquisizione, forse senza rendersene conto, costituiva un espediente efficace che ognuno aveva a disposizione per punire o liberarsi dei nemici odiati o scomodi. Una volta messa in moto la macchina, essa non cessava di funzionare fino a che non fosse arrivata alla condanna dell’accusato. Difficile uscirne salvi. E il rischio di finire addirittura al rogo era molto elevato. Troveremo: “Purtroppo, l’idea della strega vinceva sempre e, dopo l’arresto, alcune persone preferirono non dormire più nelle proprie case. forse sentivano di avere gli occhi puntati addosso e temevano ritorsioni. Del resto, chi subiva queste accuse era condannato a divenire una persona invisa alla comunità e non aveva altro da fare che piangere e lamentarsi, se era abbastanza fortunato da non finire sul rogo.”.
Si può dire, dunque, con sollievo, che questi poveri contadini, pastori e piccoli artigiani furono molto fortunati, nonostante tutto.
L’autrice ci fa sapere che “Del resto, gli inquisitori riconoscono che le querele sono state fatte da persone malevoli, intenzionate a cercare più la rovina dei carcerati e delle loro famiglie che la salute delle anime. Inoltre, i testimoni esaminati per raccogliere informazioni ‘hanno deposto ignorantemente’ e si è “prestato fede a donne di poco cervello et anco a altri quali non hanno saputo quel che dicano.”.
Per completezza di documentazione le sentenze sono riportate integralmente in appendice III.
L’autrice passa poi a considerare il caso di un medico eretico di cui si è occupato il padre Lorenzo che abbiamo conosciuto nella vicenda delle streghe di Soraggio. Il documento è stato rinvenuto nell’Archivio di Stato di Modena.
Lo scandalo è di poco antecedente al caso delle streghe e inizia con una lettera di denuncia del 10 dicembre 1606 inviata da Castelnuovo Garfagnana al “Santo Ufficio di Modena”, che riguarda il medico Giuseppe Simonelli accusato di aver detto male del Papa di allora, Paolo V, a proposito del commercio e del valore delle indulgenze.
Padre Lorenzo interroga l’8 giugno 1607 (il 18 giugno scoppierà il caso delle streghe di Soraggio) il prete Domenico da Vagli, di quarantaquattro anni, il quale riferisce positivamente sull’accusato: “Io l’ho per huomo da bene e per tale lo tengo et anche so che frequenta le chiese, le compagnie e si exercita in opere pie et cattoliche, et anche so come tutto Castelnuovo ne può far fede che lo stesso medico non va a far visite di infermi che prima non vada a visitare la chiesa.”. Ma il capitano Jacopo Fattore, di quarantotto anni, è di tutt’altro avviso: “intorno la sera al tardi, ritrovandomi fuori della bottega di Damiano Simonelli alli mesi passati, non mi riccordo se per agosto o dicembre, ove erano molte persone et ivi si ragionava della gran liberalità del sommo pontefice Paolo quinto intorno all’indulgenze concesse alle medaglie, immagini, o croce, e similia, ove sopraggiunse il signor Giuseppe Simonelli medico di Castelnuovo, mi par che dicesse io vorrei che il sommo pontefice mandasse mille o dumila scudi e che queste sarebbero le vere indulgenze.”. Tuttavia, lo considera “per buon cristiano e per cattolico.”, e che, in quell’occasione, parlasse “piutosto per burla che per disprezzo della chiesa.”.
Il tema era estremamente delicato e la vigilanza dell’Inquisizione era accanita e spietata, essendo stato il commercio delle indulgenze uno degli scandali che avevano provocato lo scisma della Chiesa, protagonista l’agostiniano Martin Lutero che aveva dato origine alla riforma protestante, il quale, fra l’altro, condannava, per tale commercio, i Papi Giulio II e Leone X, che lo scomunicherà per eresia nel 1521. Il capo del luteranesimo morì nel 1546.
Questa volta l’imputato si salva, poiché tutti gli altri testimoni ne parlano bene e anche il capitano Jacopo Fattore, in fin dei conti, ha concluso descrivendolo come uomo pio e morigerato.
Ma la paura deve essere stata tanta.
Perfino lo stesso padre Lorenzo è accusato di fornicazione da frate Giovanni De Angelis di Pieve Fosciana, e sapete chi lo rivela all’inquisitore? Quell’Hieronimus (Gerolamo Giovannetti di Pieve Fosciana) che gli aveva fatto da segretario durante il processo delle streghe. Egli racconta all’inquisitore Gian Antonio Zappa, richiesto dallo stesso padre Lorenzo per indagare sull’accusa, di aver appreso da frate Giovanni “in particolare che fra Lorenzo lettore dal Silico, quando andò a Soraggio villa della Garfagnana per ricercare et ritrovare il fatto degli incantatori che si diceva erano in detta terra, nell’esaminare una donna di detto loco, la ricercò carnalmente; et dappoi soggiunse, e disse, quel hircho fottuto del padre inquisitore di Modena si credeva di guadagnare cento scudi in quella caccia, et disse, se non gli guadagna detto fra Lorenzo non li guadagnava ne anco lui.”. Hircho è termine che significa probabilmente – precisa l’autrice in una nota – “capro o becco.”.
Si tratta di un’accusa infamante, che padre Lorenzo ricusa e si adopera per far interrogare il suo accusatore, il quale gli resiste sostenendo “che li reverendi padri inquisitori di San Domenico non hanno autorità alcuna sopra li frati di san Francesco”. Interrogato a Modena viene informato dall’inquisitore padre Serafino Burra di Brixia, già incontrato nel processo alle streghe di Soraggio, che una Bolla di Paolo V del 1606 ha rimosso tale impedimento e legittima l’audizione. Padre Giovanni sa, tuttavia, ben destreggiarsi ed è lasciato libero.
Dagli interrogatori emergono, come abbiamo già visto, anche curiose e stravaganti ricette per praticare la stregoneria. Eccone un’altra, praticata nel 1608 dall’accusata “Claudia, che fu figliola di Josepho di Penacio”: “ci insegnò che pigliassimo tre libre di carne di vitello femmina et che le facessimo cocere, e che pigliassimo uno pignazo novo, che lo empiesimo di quel brodo, et poi ci metessimo una libbra di olio, nel brodo che era restato da quel pignazo in su, et che di quello mi ungesi lo stomaco, et il resto bevessi in tre mattine, in bichiere di vetro; et se questo non giova pigliate uno caprone, et fatelo cocere, et poi bevete quel brodo, et quando lo bevete tenete il capretto per le genochia, et la capra del caprone tirate uno pezo in qua e l’altro in là; et se questo non giova…” e si passava ad un’altra ricetta che avrebbe praticato però Lucia “moglie di Ipolito da Vibiana: “la detta Lucia mi cavò tre o quattro goce di sangue dal dito minimetto della mano sinistra, et poi detta Lucia mi dixe che lo voleva dare a bere a Giovanna di Tonino da Vibiana perché beuto che haveva detta Giovanna questo sangue io saria guarito.”. E se non bastava ce n’era da aggiungere un’altra: “pigliare tre siropi di finochi dolci, radice di scorzone, et certe cose che haveva lei.”. Lei è sempre Claudia. E tutto ciò non disgiunto da una preghiera addirittura in latino.
Quante strane e complicate ricette, e tutte tenute per miracolose! Il libro ce ne offre una ghiotta rassegna, e chi sa che ancora oggi da qualche parte non si conservino per buone e si pratichino.
Tenete di conto, però, che quella di Claudia non aveva funzionato alla perfezione, al punto che il malato, Ippolito figlio di Marco di Vincenzo, figlio del castellano della fortezza delle Verrucole, “si era sentito ‘forzato andare a trovare detta Claudia’ e a darle delle bastonate perché lei gli aveva più nociuto che giovato.”.
Attenti perciò se qualcuno dei lettori venisse tentato a farne una prova.
La stessa Claudia, interrogata dall’inquisitore, confermerà: “fu quello che alli dì passati mi diede delle bastonate come sapete voi che mi vedeste o messer Pellegrino. E mi conciò talmente che non potevo star ritta.”.
Altrimenti potreste provare quest’altra ricetta, che leggiamo in un caso di stregoneria denunciato il 14 aprile 1608 da Margherita, vedova di Antonio di Sandonnino di Castelnuovo, di anni quarantadue: “La suddetta Caterina pigliava pane, formaggio et un coltello dal manico bianco, et andava in un crocevia e faceva fette del detto pane, e lo gettava, mi par dicesse, in quattro parti.”. Precisa l’autrice: “Nel luogo ‘bisognava vi fosse un sambuco’ e dovevano essere recitate determinate parole. Tutto questo andava ripetuto ‘nel detto crocevia tre volte sul tramontare il sole.’”.
Perché il crocevia e perché il sambuco? Ce lo spiega l’autrice: “Gli incroci delle strade, infatti, erano considerati un rifugio di geni o demoni. Spesso si cercava di ottenere i loro favori ma anche di evitarne le collere. Per questo motivo e fin dai tempi antichi, usava porre in quei luoghi degli altari e delle statue di Ermes (dio protettore dei viaggiatori), oppure altri elementi sacri. Con l’avvento del cristianesimo, si utilizzarono le croci e le marginette (edicole con immagini e statuette votive, soprattutto della Madonna e dei santi). In questo modo, si pensava di poter contrastare le forze soprannaturali di questi esseri.
Invece, la presenza del sambuco all’incrocio è legata al fatto che questo albero era associato alle fate, alla magia e alla divinazione. Gli influssi di questa pianta potevano fare da catalizzatore a un incantesimo ma anche agire da talismano, ragione per cui veniva piantata vicino alle abitazioni.”.
È un libro dovizioso, frutto di una ricerca scrupolosa e ben finalizzata a ricostruire e rappresentare quasi visivamente un’età remota che probabilmente aveva raggiunto nell’area della Garfagnana (siamo a nord del bellissimo parco dell’Orecchiella) una nomea da far tremare i polsi e da tenersene lontani.
Troveremo, infatti, altri casi e dunque proviamo ad immaginare, per un qualche istante, come doveva essere complicata ed esposta a rischi, perfino della vita, l’esistenza in quei luoghi, dove si era formata la convinzione che la notte streghe e streghi si riunissero nei boschi e poi il giorno andassero a spargere le loro malie in questa o quella casa, a questa o a quella persona: bambina, giovane o anziana che fosse.
Dirà al riguardo un testimone, Lorenzo, figlio di Francesco, di quarantacinque anni: “e questo è quanto io so, come anche so che le nostre ville di Soraggio stanno molto male per queste stregarie e maleficii.”.
Anche per conquistare un uomo o una donna c’era una facile risoluzione: “si ricercano un cuore di capra negra, un cuore di gatto negro, e un cuore di gallina negra, le quali tutte cose disse che bisognava seccarle, e farne polvere, e poi gettarla addosso a uomo, o donna, e faceva l’effetto di sopra.”.
Il presbitero Matteo di Rocca Soraggio di trent’anni è, pure lui, interrogato da padre Lorenzo: “havevo letto alcuni libri, li quali dicano che quando le streghe vogliono succhiare il sangue a bambini prendono uno spillone e li forano il capo in una parte dove corrispondono molte vene, et io come curioso per vedere se l’ha detta bambina morta haveva tal segno, mi accostai, e le viddi in mezzo della testa, però dalla parte di dietro, un segno picciolo come un denarino di Genova, et aveva fatto un poco di briciolina, e quel segno non solo fu visto da me ma da molti altri”.
L’autrice, non a torto, attribuisce tutto questo sconquasso in stregoneria un po’ anche al rettore don Joannes che reputa alla stregua di un ossessionato da questa caccia alle streghe, il quale finisce perfino di esasperare padre Lorenzo che, in una lettera all’inquisitore di Modena del 26 marzo 1609, così si definisce “continuamente sono travagliato, e infastidito dalla comunità di Soraggio, la quale per quanto intendo ha peggio che mai per tanti malefitii che ivi sono”.
Aggiunge subito dopo l’autrice: “Di conseguenza, le circostanze assumono un risvolto drammatico. Il clima è teso e sospettoso, la suggestione contagiosa, gli odi covano e la paura si allarga a macchia d’olio.”.
Finisce che questa seconda indagine non andrà a processo e si chiuderà con una archiviazione, con il rammarico del vicario don Joannes, il quale, forse per difendersi dall’accusa di frequentare donne (sulla quale nessuno indaga, però), desidererebbe per questa via liberarsi dei suoi nemici.
Nel 1595 il medico Battista Codronchi aveva pubblicato un libro sulle streghe, “De morbis veneficis ac veneficiiis” nel quale si trova: “è sancita tra loro la regola che in notti stabilite le adepte si radunino in una pubblica assemblea, o trasportate attraverso l’aria dai demoni, o, se più piace, giacendo supine prive di sensi… (in un) reale distacco della mente dal corpo. Giacciono infatti le malefiche come morte, anche ad occhi spalancati non vedono i corpi presenti né odono voce alcuna, e se vellicate, o punte, oppure scottate, non sentono minimamente.”. E aggiunge: “se poi queste misere donne vogliono, secondo il patto stipulato, essere portate col corpo a quei convegni, ammaestrate prima per due giorni dal maestrino, e chiamate all’ora stabilita da una voce umana, gettano subito a terra tutti i vestiti e si spalmano tutto il corpo di grasso di bambini, che atrocemente sgozzano a questo scopo, e cavalcando un demonio in forma di caprone sono trasportate, come paglia da un turbine, attraverso grandi distanze”.
Ma, una volta andati al sabba, come si arrivava al patto col diavolo? Ce ne parla lo stesso Codronchi: “vi è un modo espresso e solenne di stringere il patto, di obbligarsi in questa sacrilega professione, di modo che quanti già furono iniziati, condotti da qualcuno dei già professi in un pubblico luogo, nel quale furono soliti convenire in giorni stabiliti, presente un demonio in forma umana seduto su di un trono come un re, avvalendosi di particolari cerimonie solenni, rinneghino la fede Cattolica; disdegnino e disprezzino il nostro salvatore Gesù Cristo, la di lui Beata Vergine madre, la santa Chiesa e tutti i Santi; spezzino calpestandola la santa croce, con le dita infliggano nascoste offese alla santissima Eucarestia, facciano sacrifici al demonio seduto su di un alto soglio, gli tributino sacri onori, gli offrano doni e lo riconoscano come un vero Signore… A questi poi il demonio imprime in una parte del corpo e soprattutto nascosta, uno stigma, ossia il suo carattere, che è insensibile anche se perforato”.
Il medico Codronchi fu indotto a studiare la materia avendo avuto una figlia malata che deperiva giorno per giorno senza che se ne scoprisse la causa. Fu la moglie a suggerire che si potesse trattare di un caso di stregoneria, e quando andarono a controllare se qualcosa si nascondesse sotto il materasso del letto della malata, vi trovarono “ceci, semi di coriandolo, un pezzo di carbone, un frammento d’osso preso da un cadavere e un granello impastato di sangue mestruale. Vi erano anche piume cucite insieme, come quelle che decoravano i cappelli. Tutto fu bruciato in un fuoco benedetto e, per tre giorni, furono eseguiti esorcismi sulla bambina. La piccola cominciò a star bene ma il maleficio veniva ripetuto di continuo e ogni volta strani oggetti erano stati infilati nel materasso. Alla fine, il medico cambiò casa e un nuovo religioso applicò alla figlia un potente esorcismo.
Finalmente la bambina guarì senza alcun farmaco naturale.”.
Quest’ultime citazioni si traggono dal capitolo intitolato Conclusione, che si rivela un vero e proprio saggio sul tema della stregoneria, anche esaminata in congiunzione con la scienza di quel tempo, molto ampio e approfondito, che ne arricchisce ed estende il contenuto. Vi si sottolinea in particolare il rapporto tra scienza e religione: “la medicina restava ancora influenzata da concezioni filosofiche, astrologiche e religiose. Le patologie erano viste come un segno divino. Di conseguenza, la cura non doveva coinvolgere solo il corpo ma anche l’anima, con il ricorso a rimedi ecclesiastici.”.
Al termine il libro è corredato di note e di una esauriente appendice che riassume in un quadro sinottico i fatti accaduti e i loro protagonisti. Come già anticipato, si riportano anche le sentenze di condanna a riguardo di Jacopino, Maria di Gian Domenico e di Lucrezia (sua figlia). Ricordiamo che l’altra Maria, La Capina, era morta nel corso del processo e non si era, perciò, arrivati a sentenza.
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