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La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

LETTERATURA: STORIA: SCRITTORI LUCCHESI: Oriano Landucci: “Nero Nero e Rosso Cremisi”

10 Gennaio 2021

di Bartolomeo Di Monaco

I libri che hanno preceduto questo, uscito a fine 2020, hanno reso evidente la passione di Landucci per le ricerche d’archivio, con particolare interesse all’arte e alla storia, condotte con serietà e scrupolo.
Il romanzo “La Gran Botta”, del 2016, ne ha rivelato anche le doti di narratore.
È alla ricerca di una tale conferma che ci accingiamo a leggere insieme a voi questo romanzo, che uscito ora, fu però scritto prima de “La Gran Botta”. Porta in principio alcuni ringraziamenti tra cui quello rivolto al defunto parroco di Sant’Angelo in Campo, don Arcangelo Del Carlo “mentre scrivevo il romanzo mi stava vicino (anche se non era più in questo mondo) e mi sosteneva con la sua attenzione e il suo sorriso.”.
Esso capita tra le mani dell’autore come manoscritto del Seicento, mentre sta mettendo in ordine l’archivio conservato nella canonica di S. Angelo in Campo, un paesino ad ovest di Lucca: “Erano tre mazzi di fogli non rilegati, ma legati da un cordino assai rustico.”. Vi è narrata una storia che Landucci ci propone, salvo piccole eccezioni, “in un linguaggio più facile, più attuale, per una lettura, spero, più piacevole e più scorrevole.”. e che seguiremo insieme con il nostro lettore.
Intanto, è d’obbligo rivolgere un elogio al disegnatore della copertina, Massimo Baldocchi, che riproduce con colorita eleganza una scena della Lucca seicentesca, facendoci ricordare un altro grande disegnatore lucchese, Vincenzo Barsotti (1876 – 1963).
Ma veniamo al romanzo.
Don Ilario Quilici è parroco da molti anni di S. Angelo in Campo. Vive in canonica e lo aiuta la sorella Anna insieme con il nipote Sante Landucci i cui genitori, Cesare e Silvia Quilici, sono morti, quando ancora aveva dieci mesi, nell’incendio della loro abitazione, ora ricostruita e dove la donna e il nipote risiedono: “Sante era un ragazzone di oltre tre braccia, bello, sensibile, affettuoso, pieno di amore per gli altri. Sante era il ragazzo che qualsiasi madre avrebbe voluto per figlio. Non era soltanto lei [Anna] a vedere bello il suo Sante. Tutte le ragazzine del paese se lo mangiavano con gli occhi e ridacchiavano fra loro e diventavano rosse quando lui, incurante, passava loro vicino.”.
Di seguito trovate la descrizione della vita di corte quale in campagna si conduceva nel Seicento, e che fino alla prima metà del Novecento non ha avuto grosse varianti: “L’aspetto sociale della vita di corte era all’insegna del massimo contatto giornaliero tra le persone: tutti si conoscevano e, senza pudore, si confidavano gioie e dolori. Serpeggiava la gelosia, certo, ed anche il pettegolezzo, la cattiveria, i fatti di corna, come è normale nella vita tra gli uomini; pur tuttavia l’aspetto che maggiormente caratterizzava i rapporti umani del contado era la solidarietà”. E nelle ultime pagine: “In nessun’altra città si riscontrava la presenza così fitta delle corti, che non erano soltanto un agglomerato di case, ma un vero e proprio nucleo sociale legato fortemente da una radicata solidarietà, distinto da una propria identità e difeso da un corale spirito di corpo e di appartenenza. Era insomma molto di più di una contrada medievale.”.
Il riepilogo di usi e costumi nonché della storia dei luoghi, frutto di meticolose ricerche d’archivio, è una costante del romanzo, che diventa, dunque, anche una ricostruzione storica e ambientale con la quale si facilita l’assorbimento dei fatti che vi si svolgono.
Vari personaggi escono vividi e netti da tali ricostruzioni del passato. Francesco Bocci, detto “il Pialla”, il fabbro, è uno di questi: “Aveva passato i cinquant’anni, capelli brizzolati e corti, faccia squadrata e ampia, carnagione chiara che diventava rosea sulle guance, notevoli, e sul naso; il grosso grembiule scuro che portava non nascondeva del tutto la protuberanza della pancia che da qualche anno si rivelava sempre più prominente.”. Aveva sposato Cesira, una giovane di S. Angelo in Campo, e dal suo paese natale, Villa Basilica, vi si era stabilito praticando il mestiere che al suo paese si esercitava da anni.
Sante aveva imparato molto da lui, dotato di simpatia e di una popolana saggezza: “Gli aveva insegnato anche a sopportare il dolore e a tenerselo dentro senza urlare, senza inveire, senza fare tragedie.”.
Sante ha un amico, Paolo Biancalana; con lui va a pesca di anguille nel canale Ozzeri, un ramo antico del Serchio, il fiume dei Lucchesi, ricordato anche da Dante.

Un giorno che sono a pesca passa vicino a loro un gruppo di cinque ragazze, tra cui Maddalena. Sante incrocia il suo sguardo e prova un tuffo al cuore. È l’innamoramento: “A Maddalena il cuore continuava a battere con un ritmo così veloce che le faceva mancare il fiato.”. Sarà la sua ragazza. Sante è “alto, snello, aveva un fisico asciutto ed atletico, spalle larghe e possenti; la pelle abbronzata dava maggior risalto ai suoi folti riccioli d’oro, era bello il viso dove gli occhi azzurri spadroneggiavano; era bella, calda e convincente la sua voce, gentili i suoi modi.”.
È un amore fatto di sguardi e di timidezze. Ricordiamo che siamo nel Seicento, quando, almeno nella campagna, l’amore tra i giovani aveva ancora una pudica innocenza. È il secolo anche dei promessi sposi manzoniani, Renzo e Lucia. All’amico Paolo, che si è accorto del turbamento, Sante confessa: “Ma hai notato quant’è bella? Paolo, non ho mai incontrato una ragazza così bella, così dolce e attraente. Non so cosa mi stia succedendo, mi sento confuso, felice e triste nello stesso tempo; credo di aver provato e di stare ancora provando delle sensazioni e delle emozioni che non conoscevo, tante, intense e tutte insieme.”. Anche le amiche si sono accorte del turbamento di Maddalena che, alle loro domande, risponde: “Vi posso solo dire che il cuore vibrava forte nel mio petto come non l’ho mai sentito e con un ritmo così veloce da farmi mancare il respiro. Ancora sono molto confusa. Ho paura, ho molta paura che sia tutto un sogno.”.
Il registro di questo innamoramento si svolge come tutti gli amori di ogni luogo e di ogni tempo, il solo forse che non ha subito grandi mutamenti. Anche oggi due giovani che si innamorano l’uno dell’altra, pur nella rumorosità e fretta della vita moderna, diventano ad un tratto tremebondi ed innocenti.
Il Seicento di Landucci, quando affronta il sentimento, si ispira alla natura universale dell’uomo che oltrepassa luoghi e tempi. A differenza del Manzoni, nel cui capolavoro il Seicento è assorbente e dominante.
Si deve dire che nell’episodio dell’assalto alla strega Palmira, sventato da Sante e dallo zio don Ilario, per qualche momento ritroviamo il Seicento tratteggiato da Aldous Huxley nel suo celebre “I diavoli di Loudun”. Un episodio di caccia alle streghe ritornerà nella seconda parte del romanzo.
Maddalena è figlia di Francesco Scatena, fattore dei beni della ricca famiglia Santini, e di Ida Maria, della potente famiglia Trenta. La madre, però, è morta, e il padre si è risposato con Matilde, una popolana proveniente dal rione di Pelleria, sito nella città di Lucca, donna avida e falsa che gli ha dato un figlio, Girolamo, suo fratellastro, di animo buono come quello del padre.
Con l’entrata in scena di Matilde, il lettore avverte che il carattere prepotente della matrigna avrà delle conseguenze su quell’amore trepidante e puro che sta crescendo tra Maddalena e Sante.
È l’ombra di un don Rodrigo in gonnella che si forma nella sua mente: “C’era qualcosa di negativo che si stava frapponendo tra lui e Maddalena. Non riusciva a capire cosa fosse, ma lo sentiva.”.
La morte del ricchissimo nonno Silvestro Trenta, fa pervenire a Maddalena una sostanziosa quota di eredità.
Siamo arrivati, ora, al 20 maggio 1692. È il compleanno di Sante, che compie venti anni, e a S. Angelo in Campo, in via Casale, accade che una carrozza, la più elegante di un lungo corteo proveniente da Pisa, nell’attraversare il ponticello, si è rovesciata nel fossato. Il passeggero che la occupa e che viene aiutato ad uscire è nientemeno che il principe di Danimarca Federico, “dai capelli rossi”, impegnato in un tour nella nostra penisola. Risolto l’incidente senza alcun danno per la persona, il principe viene ospitato dalla famiglia Controni nel palazzo che oggi è conosciuto come palazzo Pfanner. Vi si tengono i festeggiamenti per l’arrivo del principe ed in occasione di un ballo, costui nota Maria Maddalena Trenta, un’aristocratica giovane nota per la sua bellezza, e se ne innamora. Ma le differenti religioni osservate dai due (lui luterano, lei cattolica) ostacolano la relazione, che viene interrotta. Il principe nel 1699 diventerà re di Danimarca e di Norvegia col nome di Federico IV. Non dimenticherà mai la nobildonna, che intanto si è fatta suora rinchiudendosi nel monastero di Santa Maria de’ Pazzi, a Firenze.
Il pensiero del giovane re, che ebbe un infelice matrimonio, andava spesso a quel ricordo. Ce ne parla diffusamente anche Giovanni Joergensen nel libro “Gemma e altre storie lucchesi”, edito da Maria Pacini Fazzi nel 1983, nel quale si legge che Federico IV inviò alla giovane (non sapendo della sua monacazione), un suo ritratto da re “con cornice d’oro e di diamanti” e questa lo restituì aggiungendovi un crocefisso d’argento, che si conserva nel castello di Rosemborg, accompagnato da un biglietto in cui scrisse: “Ecco il vero ritratto del mio Sposo.”, firmando: “Suor Maria Maddalena Trenta, carmelitana scalza”.
Federico chiederà e otterrà di vederla più di una volta, di passaggio in Italia. Nessuno seppe mai le parole che si scambiarono. Si legge in una ricostruzione che si trova in calce al libro: “Quali fossero poi i discorsi che passarono tra loro non si seppero”; “ma i cinque colloqui durarono tutti oltre due ore l’uno.”; “Nell’uscire la Maestà Sua fu osservata col fazzoletto al volto come in atto di asciugare gli occhi.”.
Sante sarà tra coloro che aiuteranno il principe ad uscire dalla carrozza e si presterà a trarla fuori dal fossato distinguendosi per la sua intelligenza e per le sue capacità organizzative.
Tra i due nasce una simpatia. Dal principe riceve un dono: “’È per te, regalalo alla tua Maddalena il 22 luglio, quando vi fidanzerete’. E così dicendo aprì una piccola scatola fatta a scrigno e sul blu del velluto interno brillava una piccola meravigliosa piuma, tutta d’oro con al centro incastonata una piccola pietra bianca dai riflessi splendidi. Era una spilla di pregevolissima fattura.”.
Un incidente, uno scherzo maligno del destino, come quelli che accadono nei romanzi di Thomas Hardy, interviene nei rapporti tra Sante e Maddalena.
Il padre di Maddalena, all’insaputa della figlia, l’ha promessa in sposa al cugino della matrigna, Isidoro Chelini, “un vecchio energumeno poco di buono.”. Maddalena si ribella e rivela al genitore di essere innamorata di Sante, ma il padre non demorde. La ragazza è preoccupata e non vuole farsi vedere in quello stato da Sante e non va all’appuntamento con lui; manda invece l’invidiosa Giovanna che, alla domanda di Sante del perché Maddalena non si sia presentata all’appuntamento, risponde malignamente che l’amica non ne vuole più sapere di lui ed ha scelto un altro innamorato.
Il mondo crolla davanti a Sante. Aveva portato con sé la spilla ricevuta in dono dal principe di Danimarca per donarla a Maddalena, ed ora la ragazza lo respinge per sempre.

Da un incidente di questo tipo, nei romanzi di Thomas Hardy, si sviluppano vere e proprie tragedie, che dimostrano come da minimi gesti possano nascere, a volte, sconquassi materiali e spirituali in grado di abbattere un essere umano. Basti pensare alla povera Fanny Robin in “Via dalla pazza folla” (1874).
Il lettore che conosce Hardy, si domanda a questo punto se ci troveremo di fronte ad una situazione analoga e il suo interesse per il romanzo si fa più acuto: “Tutti i suoi sogni sul futuro, i suoi progetti di famiglia, di lavoro, di uomo e di padre vedevano sempre lei come fulcro della sua volontà, compagna indiscussa, vita della sua vita. Lei, l’unica vera donna possibile, lei l’unico amore della sua vita, perché lo sapeva che non avrebbe avuto più alcun altro amore, fosse campato anche cent’anni.”.
Non bastando, Giovanna, tornata dal colloquio con Sante, riferisce falsamente a Maddalena che Sante si è stancato di lei ed è contento che il loro rapporto si interrompa. Succede, così, che a causa dell’invidia dell’amica, Sante e Maddalena si ritrovano a provare lo stesso sentimento di dolore e di disperazione.
Da quando è entrato in scena il principe Federico, il romanzo, attraverso vari riferimenti storici, ci presenta più nitidamente disegnato l’ambiente seicentesco, così che anche la storia dell’amore tra Sante e Maddalena indossa panni e contorni seicenteschi, amalgamando con ciò le due storie tra loro: “Le botteghe di via Fillungo e di via della Pantera erano ricche di mercanzia; c’erano gli orafi e i battiloro, gli artigiani di ogni genere, gli speziali, i fornai, le botteghe di pannina. Di contrasto ad ogni angolo, di qua e di là della via, sostavano i mendicanti con le braccia tese ad implorare la carità; erano sempre più numerosi a conferma della grave crisi che stava mettendo in ginocchio l’economia della Repubblica e in miseria la povera gente.”.
Troveremo più avanti, quando Sante va a Lucca, quest’altra bella descrizione d’epoca: “Ben presto raggiunse via delle Tagliate che lo avrebbe portato dritto dritto davanti alla Porta S. Donato. La strada non era molto larga e due barrocci avrebbero potuto incrociarsi solo in alcuni punti; in certi tratti essa era ricoperta da un manto erboso solcato nettamente da tre carreggiate, due laterali fatte dalle ruote dei barrocci, dei calessi e dei carri e una centrale creatasi col calpestio delle bestie, cavalli, asini e vacche e dagli uomini a piedi. Man mano, però, che ci si avvicinava a Lucca la strada perdeva sempre più i suoi spazi d’erba per poi diventare uno sterrato unico e polveroso senza un filo di verde, dove i cerchi di ferro delle ruote dei barrocci, schiacciando sassolini e ghiaia, producevano un continuo acuto scricchiolio. C’era molta gente, soprattutto a piedi, e a quell’ora la direzione di marcia era pressoché unanime, tutti verso Lucca.”. Fanno seguito altre belle pagine dedicate alla Lucca del tempo.
Maddalena e Maria Maddalena Trenta (“di cinque anni più grande”), di cui il principe si è innamorato, sono cugine, poiché il padre di quest’ultima, Iacopo Trenta, era fratello della madre di Maddalena, Ida Maria Trenta: “Più che cugine potevano essere scambiate per sorelle.”.
Quando Maddalena si reca a palazzo Trenta (“in Via di Borgo, angolo Via Nuova.”) a far visita alla cugina le due tormentate storie d’amore convergono e s’incontrano. Le due si confidano. Sono entrambe innamorate follemente, la prima di Sante, la seconda di Federico, a causa del quale ha rotto il suo fidanzamento con il conte Filippo Hercolani di Bologna. Le dirà Maddalena, pensando a Sante: “L’amore vero, direi, annulla l’individualità e ti fa vivere soltanto in funzione di coppia. E non riesci a vedere la tua vita futura se non accanto alla persona amata.”. Maddalena è andata a visitare la cugina per esporle la sua intenzione di monacarsi, visto il dissidio apertosi con Sante e riceve con sorpresa la notizia che anche la cugina, essendo impossibilitata per vari impedimenti di Stato, a sposare Federico, si è decisa a vestire l’abito monacale: “Se Dio vorrà, un giorno, ci ritroveremo in Paradiso.”.
Il romanzo sta acquistando spessore sia nell’architettura del progetto narrativo che nella trama che ha trovato nella convergenza di situazioni e di sentimenti l’occasione di acuire e concentrare l’attenzione del lettore.
Che farà Maddalena? Rinuncerà a Sante e si rinchiuderà pure lei in un convento?
La cugina ha fatto con entusiasmo la sua scelta ed entro un mese farà la propria consacrazione a Gesù, il suo nuovo e unico sposo. Ma lei avverte che il sentimento per Sante è ancora forte e dominante. Non vuole rassegnarsi.
Sante si è recato a Lucca, poiché convocato dal Gonfaloniere di Giustizia Filippo Maria Arnolfini (“vestito tutto di rosso cremisi”), che ha sentito lodarlo dal principe Federico e desidera dargli l’incarico di nascostamente indagare alla scoperta di complottisti che si dice stiano preparando un attentato ai Medici che arriveranno in città “per la prossima festa di S. Croce”. La riuscita del complotto sarebbe esiziale per l’indipendenza di Lucca, dando il pretesto a Cosimo III di muoverle guerra, minacciando perciò la secolare indipendenza della città.
Landucci sta lavorando su più corde del pentagramma, mostrandoci una eclettica capacità nell’impianto della trama.
Chi sono i complottisti? Hanno a che fare, per esempio, con la situazione in cui si trova calata contro la sua volontà Maddalena? Modificheranno i piani che il genitore e la matrigna le hanno riservato combinando un matrimonio da lei non gradito?
Notiamo che nella scrittura di Landucci ci sono due tonalità, una più esperta e sicura, decisa quando si tratta di riprodurre quadri e cenni storici del tempo (caratteristica assoluta de “la Gran Botta” e, qui, nell’imboscata di Antraccoli); l’altra, ancora perfettibile quando si narra la parte romanzesca e amorosa.
Resta comunque costante l’interesse per la trama coi suoi punti interrogativi abilmente sollecitati nella mente del lettore, il quale si troverà di fronte a qualche sorpresa, specialmente a riguardo degli autori del complotto contro la famiglia Medici, e vedrà piacevolmente sciolti i nodi della bella storia.


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Bart