LETTERATURA: Suona il silenzio
5 Dicembre 2008
di Matteo Ongari
Ho un bisogno urgente. Esco dall’ufficio e mi rifugio dietro ad una cabina elettrica.
Mi libero, finalmente.
In un attimo mi accorgo di essere isolato.
Mentre la sensazione straniante mi riporta a mesi infausti, in strada stride un cigolio. Presumo sia una bicicletta, ma non vedere acuisce la mia ansia.
Veloce esco dal nascondiglio, con l’onda emozionale che ogni volta si riversa nello stomaco.
Il primo fantasma che bussa è il volto  di Gavino.
Strano, ripenso, l’ultima volta che ho vista quella faccia affilata, era alla sbarra con gli altri complici. Non era più quel carceriere schivo ma disponibile. Sembrava un cane bastonato.
Che eravamo sull’isola lo avevo capito. Rinchiuso da qualche parte avevo percepito il rollio delle onde e poi l’accento dei rapitori.
Fui ritrovato sul Gennargentu, nel casolare adibito a riparo per le pecore di Gavino Sonnu.
Fui prelevato da casa mia, con un bliz degno delle migliori teste di cuoio, il giovedì notte.
Quindi giunsi al nascondiglio nella giornata di venerdì. Mi furono tolte corde e cappuccio: mi accorsi subito, oltre i quattro uomini armati e incappucciati, che ce n’era uno storto come un arbusto, a viso scoperto.
Aveva gli zigomi sporgenti e due carbonelle infossate tra le sopracciglia basse.
Le guance scarne, erano coperte da una peluria scomposta.
La giornata successiva, il secondo giorno di prigionia, era quindi sabato. Quando si presentò Gavino con la colazione notai che si era rasato e aveva il viso liscio, butterato da piccoli crateri di acne giovanile.
La sua tranquillità era dovuta al fatto che si sentisse al sicuro nel suo eremo e che gli altri compagni non gli avessero spiegato lo scopo della mia presenza. E’ vero che girava armato, col coltellaccio alla cintola, ma non mi ha mai dato l’impressione di sapere quale fosse il mio peso economico.
Comunque, mi accorsi del passare del tempo dalla ricrescita della barba del mio carceriere.
Capii ben presto che Gavino era un uomo metodico e solitario. Intuii che si rasava immancabilmente ogni venerdì sera. Infatti tutti i sabati si presentava sbarbato, mentre a partire dalla domenica si notavano sulle sue gote irti peli neri che man mano s’infittivano col passare delle giornate fino ad arrivare al culmine al venerdì.
Quando i corpi speciali fecero irruzione, si consegnò senza il minimo tentativo di fuga, quasi sapesse che le sue azioni erano macchiate dal peccato.
Eppure quei rimorsi non me li confessava mai. Veniva a portare i pasti e rimaneva dentro quel bugigattolo maleodorante, seduto sulla panca, aspettando delle storie.
Nel periodo della prigionia cominciai a fare strani sogni. Inquietanti rimembranze della mia maturità si palesavano, facendomi stare peggio di quella mia estraniante condizione.
Mi svegliavo guardandomi attorno e mi sentivo felice anche se ero una vittima.
E allora, vuoi per noia, vuoi per sfogarmi, raccontavo a Gavino ogni incubo che si disegnava nel mio subconscio.
A dir la verità , il solo fatto di non riaprire gli occhi in camerata e di non sentire quel olezzo di piedi era un sollievo.
Non contava se ero un carcerato.
Non avevo alzabandiera da fare.
Non ero più sotto l’esercito, questo bastava a darmi benessere psicofisico.
In effetti il sogno non partiva mai nello stesso modo, nel qual caso avrei potuto correggere il tiro. Ogni volta l’ingresso nell’allucinazione avveniva per vie diverse, ma la sostanza diveniva l’ennesimo fiele indigesto.
Chissà per quale astruso meccanismo lo svolgimento onirico mi portava inesorabilmente nella stessa caserma.
Una volta accadeva che mi venisse recapitata una nuova cartolina di leva; in un’altra occasione la miccia era un richiamo di chi aveva già fatto il militare; un’altra volta ancora io ero renitente e quindi dovevo ripresentarmi al CAR come recluta.
E allora mi ritrovavo adulto, forse trentenne, con ancora dodici mesi di leva da svolgere e le peggiori mansioni. Quindi di nuovo  c’erano latrine puzzolenti da lavare o marmitte giganti da ripulire dalle incrostazioni di bolo nauseabondo; oppure compiti meno tediosi come fare il piantone o lo scritturale nelle foresterie degli ufficiali.
Arrivavo alla mattina con il magone nel petto. Eppure non riuscivo a smettere il mio delirio, era come se fossi costretto ad assistere e rivivere sensazioni ossidate nel mio inconscio e risvegliate da chissà quale meccanismo.
Quasi tre mesi, ecco quanto durò la mia costrizione. Non chiesi mai quale somma era stata chiesta come riscatto.
Un pomeriggio afoso, Gavino entrò con due bicchieri di acqua fredda. Seduto accanto a me, chiese se io avessi mai davvero immaginato una esistenza completamente differente?
Prima che imbastissi una risposta sensata, anticipò la sua.
-Io avrei voluto fare il pescatore, disse. Era serio, parlava piano ma con voce sicura.
-Mi sarebbe piaciuto davvero imbarcarmi su un peschereccio e tirare le reti.
Io non sapevo cosa rispondere. Un pastore, abituato alla vita campestre e all’odore muschiato della vegetazione che agognava l’afrore salmastro dei flutti. Era una dichiarazione ingenua, come di uno scolaro davanti al tema della sua vita.
Dopo aver riflettuto, gli spiattellai la mia aspettativa.
-L’insegnante di educazione fisica. Gavino mi squadrò con aria contrita: non capiva le mie semplici parole. Cosa significava, chiese smarrito.
-Ginnastica, risposi.
Non feci in tempo a completare la spiegazione.
Grida e scoppi d’armi ci divisero, lui all’inferno e io a casa mia.
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Pingback by Suona il silenzio : Oltre l’Argine — 5 Dicembre 2008 @ 08:56
[…] Oggi, sulla rivista d’arte Parliamone, gestita dall’infaticabile Bartolomeo di Monaco, è uscito un mio racconto inedito dal titolo “Suona il silenzio“. […]
Commento by Gian Gabriele Benedetti — 5 Dicembre 2008 @ 16:52
Una drammatica prigionia produce incubi, che si trasformano nell’inquietante, caotica, degradante vita di caserma. Situazione che diviene quasi più angosciante della prigionia stessa.
E poi c’è Gavino, il carceriere sempre presente, che mostra un volto da definirsi anche umano, che parla delle sue aspirazioni, che ascolta gli incubi della vittima e non sembra rendersi conto della gravità del suo comportamento. Ne esce un rapporto, tra sequestratore e sequestrato, quasi di complicità , mentre non si avverte la rabbia, la paura, la disperazione di chi subisce. Un quadro, tutto sommato, dai risvolti di una certa umanità , un quadro che sa pure di comprensione e di una qualche interdipendenza. Ovviamente non si arriva alla Sindrome di Stoccolma, ma non sfugge il sottile legame che si instaura tra i due protagonisti.
Il racconto, attraverso l’intimo potere di rievocazione, si fa suggestivo, mentre la scrittura non prevarica mai l’intento creativo ed emotivo
Gian Gabriele Benedetti