LETTERATURA: TEATRO: I MAESTRI: Sarà l’anno dei copioni italiani1 Gennaio 2019 di Giancarlo Vigorelli Cala la narrativa, sale la saggistica – perdonate questi termini da marketing -; e forse non sarebbe del tutto improbabile, tra i due contendenti, che vinca, o almeno si avvantaggi, il teatro. Non mi abbandono a previsioni; basterà raccogliere le prime indicazioni, senz’altro più numerose di quel che ognuno possa sospettare. C’è addirittura il pericolo, da scampare subito, che si vada verso un boom teatrale, come si era andati, artificiosamente, verso quello del romanzo, tanti sono oggi gli scrittori, i narratori sopratutto, che annunciano di passare sul palcoscenico. L’elenco è lungo, vedrete. Ad ogni modo, prima di tentare commenti, veniamo ai fatti. È curioso, che proprio nel momento in cui su Sipario, uno scrittore, Arbasino, che col teatro di mezzo mondo ha con vissuto per anni, sfogliandone perdutamente le « due dozzine di rose scarlatte », ha detto e scritto che questa « baracca » (non lorchiana) del teatro è « tanto squallida » e che prima finisce meglio è »; è persino divertente, invece, che un numero imprevisto di scrittori italiani sia passato e stia passando al consputato teatro. Intendiamoci, certe risposte all’inchiesta di Sipario sono serie, e da meditare, per esempio quelle di Baldelli, di Kezich, di Rebora, di Chiaromonte, di De Bosio, di Zampa, di Leonetti, o di Moravia stesso, della Maraini, di Siciliano, che sono parte in causa, neoreclute. Ma, a meno che si tratti di sussulti preagonici (in tal caso, però, è la letteratura che è morta, prima ancora del teatro), non si può negare che un buon numero di scrit tori italiani, sino a ieri così restii anzi ostili, corra ora il rischio delle scene; e non può essere che vadano tutti dietro ad un cadavere. I cadaveri, neppur squisiti, sono se mai quei letterati stessi, che in luogo di consumare in silenzio il proprio fallimento, vorrebbero celebrare nel chiasso, autodifensivo ma autolesionistico, un presunto fallimento generale. Certo, se la « cultura » diviene uno spettacolo unicamente di « potere », così che ogni mezzo potere gioca a scacciare l’altra metà, e poi rigiocano, si incitrulliscono, e muoiono senza avere fatto niente…, allora la partita è chiusa, cala il sipario! Ma le apocalissi non si inventano nei salotti, e neppure in piazza: e anche dell’apocalisse bisogna essere degni, e capaci di leggerne bene tutti i segni. Dunque, non anteponiamo le deduzioni, e veniamo ai fatti, ai nomi. In principio non c’era che Pirandello, e si sa come e quanto certa letteratura ufficiale abbia odiato, o ignorato, il Pirandello teatrale e teatrante: tutti erano coalizzati a dire che il narratore, che quando era tale venne comunque sottovalutato, valeva di più del drammaturgo; anzi, sprege volmente dicevano, del commediografo. Né sorte migliore, se non fosse stato per gli apporti della Duse, e la scìa dei loro amori, aveva avuto il teatro di D’Annunzio. La lista posteriore degli « scrittori di teatro », esclusi beninteso i pariginanti fornitori di commedie borghesi della domenica, è ben magra, e quei quattro o cinque nomi li contiamo tutti su una sola mano. Insemina, questo popolo, pronto al « piccolo teatro » quo tidiano, pareva incapace, ignaro ed ignavo, di un « grande teatro » ; e ne conosciamo tutti le cause, le ragioni, le conseguenze. Ma, qui, per il nostro discorso, occorre sopratutto sottolineare l’indifferenza, più esattamente l’av versità, dello scrittore italiano, sino a ieri, verso il teatro. Bacchelli, ad esempio, è mai stato preso sul serio dai suoi colleghi per i suoi lavori teatrali? E fu stimato l’Alvaro della Medea? Tutto il teatro di Svevo, è lì ancora da recuperare, non solo, ma è raro che un critico abbia scandagliato quel rapporto, che pure è palese, tra Svevo commediografo e Svevo romanziere. Venendo al « dopo il ’45 », i letterati persistettero a sottovalutare il teatro, e non è che furono almeno capaci di apprezzare a tempo il buon teatro che veniva dal resto dell’Europa: io ne ho sentiti parecchi, con le mie orecchie, dire che Brecht era in fondo un canzonettista; che poi Sartre scrivesse per il teatro, li faceva scrollare la testa. Del resto, anche verso il cinema, nonostante qualche baldoria, non è che il lette rato italiano del ’45, malgrado la igienica « novità » del nostro cinema di allora (o forse pour cause), sia stato entusiasta; strizzava l’occhio, ma capiva poco, e ogni tanto si domandava: ma perché Zavattini è passato al cinema? Vociani e rondisti, d’altra parte, avevano detestato il ro manzo (e Moravia ne subì le condanne), osando dire che un verso ermetico valeva di più di tutta la Montagna incantata di Thomas Mann. Perciò, da queste radici, è comunque meritorio quel che è stato il lavoro dei narra tori italiani, dal ’45, a oggi, a ieri; e, da radici siffatte, è chiaro che stenterà a nascere anche un teatro, benché certi terreni già sondati dal romanzo, e ora dalla saggistica, possano agevolarne la gestazione. Pur che non sia una « moda » passeggera, o qualche speri mentalismo, o pappagallismo, in più. Ad ogni modo, qua lunque possa essere il risultato, non sarà inutile ed insa lutare questa « prova del teatro » che non pochi scrittori italiani nuovi stanno tentando. Lascio da parte, è ovvio, i nomi di coloro che operano da tempo per il teatro; sap piamo tutti quale posto a parte, unico, abbia Eduardo. Da Fabbri a Testori, i migliori sono al lavoro, il primo con Lascio alle mie donne e con la riduzione de I viceré di De Roberto, il secondo con L’Erodiade. Anche Patroni Griffi e Brusati, Kezich e Dursi, Siro Angeli e Prosperi, o Fabio Mauri. Ma venendo ai nomi sino a ieri « non addetti ai lavori » di teatro, è in testa Pasolini, che ha dichiarato di avere scritto cinque o sei opere teatrali in versi, Pilade, pubblicato su «Nuovi Argomenti », l’Orgia, Il porcile (in via di anticipazione in film, come Teorema, romanzo e poi film, si annuncia in posticipazione teatrale), Affabulazione e Bestia da stile. Il Teatro Stabile di Torino metterà in scena l’Orgia, e lo stesso Pasolini, per lo stesso Stabile, presenterà La vita è gioco di Moravia, che oltre alla lontana Beatrice Cenci ha al suo attivo Il dio Kurt e Il mondo è quello che è. È risaputo che Moravia, con Dacia Maraini e con Enzo Siciliano, ha addirittura dato vita al « Teatro del Porcospino », che ha avuto il merito, non fosse altro, di scoprire Il guerriero, l’amazzone, ecc., di Carlo Emilio Gadda. Moravia e Pasolini, si dirà, a titoli diversi, erano già nel cinema, e il passaggio al teatro può sorprendere meno. Ma non può essere del tutto casuale l’entrata in blocco nel teatro, quest’anno, di Landolfi, Bigiaretti, Berto, Santucci, Saito, Chiara, Pasqualino, Bevilacqua, Barolini, Rosso, Roversi, Sanavio; e forse, involontariamente, dimentico qualcuno. Altri scrittori, è vero, si erano già mossi, in questi ultimi anni: Dessì, Testori, Parise, tra i primi e con precisi risultati; ed anche Buzzati, Flaiano, Troisi, Tomizza, Del Buono, Cassieri, e Natalia Ginzburg. In questo numero, Il Dramma pubblica sei atti unici della nuova stagione, selezionati al « Premio Pescara », Bigiaretti, Pasqualino. Simongini e Costanzo, Brunori, P. B. Bertòli, Ori. A giorni, verrà assegnato il « Premio Pirandello », e tra le candida ture alla vittoria, esclusi sembra Pasolini e Siciliano, si fanno i nomi appaiati di Landolfi, per il Faust ’67, e di Saito, per I cattedratici. L’ingresso di Landolfi è il più atteso. Berto lavora a La passione secondo noi stessi; Chiara, alla riduzione del suo romanzo, La spartizione; e altrettanto fa Bevilacqua, che riduce L’occhio del gatto, per il Teatro Stabile in Toscana. Brignetti ha tratto un radiodramma da Il gabbiano azzurro, intitolandolo In un’onda più lunga. Santucci ha dato a Stoppa una commedia in due tempi, Allegra, siamo morti, amore, e ne ha finito da poche settimane un’altra, Eba e aragaste. Siciliano, dopo tre atti unici, prepara una commedia in tre atti, Basta il pensiero (e poi si butta via). Roversi ha dato a Paolo Grassi Il crack. Pasqualino, oltre all’Abelardo, pubblicato qui, ha pronto un dramma, Il dottor Prometeo, affidato alla regìa di Ermanno Olmi. To mizza darà quest’anno i tre atti I sette a Sant’Elia, e per il Teatro Stabile di Trieste ha in lavoro una seconda ridu zione del Bertoldo, la prima l’aveva fatta Dursi. Barolini porta avanti un’opera in versi, che anticiperemo presto. Troisi ha pronte tre commedie, Chiamata in giudizio, II vi zio dell’innocenza, II frutto dell’albero. Sanavio ha portati a termine un Panoptico a metà secolo. Renzo Rosso, dopo La gabbia, sta scrivendo un’altra commedia, che si avvarrà mi ha detto, della fitta collaborazione di un musicista, Silvano Ambrogi, dopo aver licenziato quest’anno il ro manzo L’ingrasso, nell’arco di sviluppo di I burosauri e di Neurotandem, due singolari prove teatrali, ha portate pochi giorni fa a Roma L’Arcitreno. Non può essere una « conversione » fortuita, questa di cosi numerosi, e diversi, scrittori italiani. Né vanno dimenticati, di appena qualche anno fa, Codignola con tutto il suo lavoro in proprio e gli apporti critici al teatro, Binazzi con Il male sacro, il povero Raffaele Orlando con L’annaspo, sopratutto Primo Levi con la versione di Se questo è un uomo, Antonicelli con Festa grande di aprile, Frassineti con Il tubo e il cubo, Sciascia con L’onorevole; e andrà ricollocato debitamente il teatro di Mario Apollonio, anzi tutto nel contesto della sua opera critica e creativa. Non dirò, non diremo, che il teatro italiano esiste: perché per esistere, gli autori non bastano. Però, sino a qualche anno fa, si diceva che non esistessero gli autori; e, oggi, dirlo, sarebbe ignorare questo azzardoso lavoro in corso, che senonaltro non vede più gli « scrittori » guardare dall’alto in basso gli « scrittori di teatro ». E se arrivano, se sono in viaggio gli autori, la « baracca » del teatro può, per altre ragioni, e deve essere contestata: ma testi alla mano, riforme in atto, volontà comuni, non con gesti gratuiti, anarchie interessate, parole in vanità.
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