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Rivista d'arte Parliamone
La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

LETTERATURA: Vandro

7 Febbraio 2010

di Mauro Cristofani
(La sua galleria di quadri qui)

Di quella storia non si volle parlar più in casa mia, ma una voce che ho dentro me la racconta giorno e notte   solo io posso sentirla, è ossessionante e mi perseguita mi spacca in due la mente ma guai se un giorno tacesse. So che lui mi sta cercando ne sento il soffio l’alitare il rantolo, prima o poi verrai accidenti a te. Io sono qui e t’aspetto, maledetto.

      Era il primogenito dei vicini gente miserabile che oltre alle ingiurie della sorte aveva dovuto sopportare anche un figliolo come lui. E’ passato un bel po’ di tempo e io ora abito lontano da quel posto ma ricordo tutto come fosse ieri, anche se a volte lo sguardo mi si vela e mi assale il pànico. Allora un formicolìo un intontimento un barcollìo mi fa traballare e mi sento punzecchiare la pelle da mille lame appuntite, come se una mano delicata e malvagia mi scarnificasse lentamente, e un soffio ruota intorno stillando la paura…

      ….Vandro fantasma più succoso del vero fatti carne e sangue, e fai di me quel che devi fare.

      A quell’epoca aveva sedic’anni io quasi nove tutt’e due senza amici lui schivato con sospetto da qualsiasi comitiva io selvatico rifuggivo i compagni, una sorte bizzarra per un periodo di tempo incrociò le nostre vite.

     Era un violento, passatempi preferiti: prendere a calci i gatti lanciandoli sul muro come palloni o facendoli rotolare giù per pendii, legare alla coda d’un cane un filo col barattolo in modo che l’animale ruotando su se stesso cercasse inutilmente di strapparselo.

      Gli animali gli fornivano sempre nuove idee di tortura, come quella volta che chiuse viva nella pentola piena di brodo bollente la gallina tanto amata da sua madre per via di tutte le belle uova che faceva ogni giorno.

      C’era però un gattaccio che gli sfuggiva sempre, muso sporco pancia vuota sguardo duro di chi è scampato tante volte a lotte selvagge. Non si faceva acchiappare e questo lo eccitava e quando alla fine l’ebbe fra le mani prima gli torse il collo due o tre volte badando di non farlo soffocare poi gl’inchiodò la coda al tronco d’un albero mettendo una ciotola piena di mangiare dove non poteva arrivare con la bocca. Col passare del tempo gli sforzi della povera bestia si fecero sempre più deboli ognuno martoriato dagli strattoni dolorosi procurati dalla coda ferita e sanguinante. La qual cosa lo eccitava a tal punto che Vandro cominciava furiosamente a masturbarsi, per poi stendersi a terra sguardo nel vuoto di belva acquetata finalmente sazia.

      Imprigionato nelle proprie nefandezze, non riusciva mai a respirare una boccata dell’aria pulita a cui tuttavia forse anelava.

      Pretendeva che assistessi alle bravate, vedendo il mio sguardo d’orrore il suo piacere cresceva. Istintivamente cercavo di sfuggirgli ma se mi obbligava con la forza scoprivo che nella mia rassegnazione non c’era sapore di sconfitta perché un diavolo segreto voleva che appagassi mie curiosità sadiche e morbose, in qualche modo gli fui complice. Macchia segreta bruciore dentro che m’imbratta l’anima e affiora per limitare ogni esultanza.

      A Vandro piaceva anche guardare i cadaveri. Un giorno mi disse: E’ morto il fattore di Solmonte, andiamo a vederlo.

      Io avevo visto solo mio cugino morto, che era stato schiacciato dalle ruote d’un carro mentre attraversava la strada. Steso nella cassa occhi semichiusi tutto vestito a festa era diventato quasi bello, ma di quel momento su tutto ricordavo l’odore dolciastro dei fiori in disfacimento misto a quello dei grossi ceri sgocciolanti.

      Arrivammo, sulla soglia esitai ma Vandro mi tirò per un braccio. Nella penombra donne chine sui rosari uomini appoggiati ai muri bisbiglianti fra di loro, tutti parvero ignorarci. Io non riuscivo a levar gli occhi dal vecchio nella bara stecchito e bianco che sembrava finto, statua di gesso messa lì solo per far paura. Gli avevano messo un fazzoletto passato sotto il mento e annodato sulla testa e sulle palpebre serrate due monete che il luccichìo dei ceri faceva un po’ brillare. Vandro esperto in cadaveri mi spiegò che il fattore era spirato strabuzzando gli occhi e con la bocca spalancata, il fazzoletto e le monete servivano a chiudere sia gli occhi che la bocca così non avrebbe fatto troppo impressione.

      All’improvviso nella camera ardente ci fu un certo movimento, una matta entrò nella camera ardente gettandosi sul morto e gridando Marito mio! Marito mio!   Le donne alzarono il capo dai rosari gli uomini cercarono di strappare dalla bara l’invasata ma quella sembrava averci affondato l’unghie tanto c’era aggrappata. A farle lasciare quella presa ci riuscì una bambina, con una mano tirandole appena l’orlo dello scialle e protendendo l’altra come a tenere una bacchetta magica, quindi spariron silenziose come due fantasmi.

      Vandro in prima fila s’era goduto quella scena e quando tutto tacque colpì la bara col ginocchio facendo cadere le monete. Gli occhi del morto si spalancarono grida d’orrore dei presenti fuggi fuggi generale, Vandro piegato su se stesso rideva a crepapelle. Io scappai fuori Vandro corse dietro me gridando: Fermati scemo! Fermati, che hai paura che t’agguanti il morto?

      Mi giurai di non seguirlo più, ma durò poco. Ehi sei sparito! disse beffardo quando lo rividi, io dissi: Ho da fare.

      Invece in cuor mio avevo sperato d’incontrarlo. Andò subito al sodo con l’ultima trovata, la Peniarda. Era una vedova ricca e pettoruta che aveva la nomea di pagare i ragazzetti perché la facessero divertire, e a sentir lui era cotta e stracotta e voleva portarselo a letto. Vandro ci sapeva fare con le donne lo sapevo che se n’era fatte tante sia giovani che vecchie e andava anche coi maschi se ci stavano, lui diceva che fra le gambe c’aveva un coso che non voleva riposarsi mai e   ogni tanto si tirava giù i calzoni sghignazzando: Vedi com’è grande e grosso, ha pur diritto di levarsi tutte le soddisfazioni!

       Però con la vedova mirava al colpaccio perciò voleva far le cose di molto ma di molto per bene.

        Il venerdi quando la donna andava al camposanto lui mi fece nascondere dietro un cespuglio dicendo: Guarda come si fa.

       Lei spuntò dalla curva lui fece in modo d’incontrarla la fermò e si dichiarò.

     Anche tu hai sentito l’odore dei miei soldi, eh, gli disse strafottente.

     Lui non s’arrese e allora   la vedova diventò una furia gridando: Io vado con chi mi pare e con te non ci vengo sei un maiale lercio e farabutto io non mi sporco con quelli come te mi fate tutti schifo io non ho bisogno di nessuno sto bene sola con la mia Marforia!

      Poi inculita se n’andò sulle sue gambette rinsecchite che parevano reggere a fatica il corposo volume soprastante.  

      Sbucai dal cespuglio e mi venne da ridere a veder Vandro lì impalato con l’espressione truce.

    Vecchiaccia maledetta troia che non sei altro ci penso io a sistemar la tua gattaccia! bofonchiò fra i denti.        

       Per la povera Marforia prevedevo giorni di dolore. Ci appostammo nei pressi del palazzo e la gatta apparve sul davanzale d’una finestra, indecisa se uscire o no. Uscì e  camminò pigramente sul muro di cinta occhieggiando   all’intorno, miciona coda al vento occhi obliqui pigramente socchiusi incedere indolente e molle. Vandro si protese l’afferrò e la infilò in un sacco, poi s’avviò per un viottolo che non conoscevo facendomi cenno di seguirlo.

      Arrivammo a una baracca, suo rifugio segretissimo. Una volta dentro tirò fuori la gatta stranamente docile la mise su un tavolaccio afferrò un coltello e con un colpo netto le tagliò la coda. Io gettai un urlo, lui mi guardò con sguardo feroce e soddisfatto.

      La bestia era rimasta con la bocca spalancata e i peli ritti come spilli, cercai di tamponare con un fazzoletto il sangue che usciva a fiotti dal mozzicone della coda ma Vandro mi spinse via e rimise la gatta nel sacco.

    Ci penserà la sua padrona, disse. Poi rivolto a me: Ora riportala al palazzo. Era un ordine, se accettavo ero suo complice. Non potevo dir di no. La lasciai dov’era stata presa, muta e barcollante lasciandosi dietro una scìa di sangue scuro e raggrumato. Sparì dentro la finestra da dov’era sortita, tirai un respiro di sollievo.

      Quando Vandro s’accorse che dopo quella vigliaccata volevo davvero allontanarmi da lui escogitò un trucco che riteneva per me irresistibile. Mi disse: Oggi ti porto dalla Genziana. Era una che faceva la prostituta a domicilio. Ma… sono piccolo, balbettai, lui ridacchiò: Non aver paura non ci devi far nulla che se ne fa di te, guardi e basta così impari per quando c’avrai il cazzo giusto per accontentare le puttanone come lei! e giù risate.

      Nell’entrare in quella casa tremavo, un po’ per l’emozione nuova a cui andavo incontro e un po’ per il timore d’esser visto da qualcuno della mia famiglia.

      La donna non era per niente brutta e volgare, anzi. Con Vandro si vedeva ch’era in confidenza, lo abbracciò subito passandogli la lingua su un orecchio. Senza tanti preamboli lui mi fece cenno di avvicinarmi a loro e non sto a dire quello che vidi e sentii.

      Dopo mi sembrava d’essere diventato grande d’un colpo e quando fui davanti a uno specchio cercai di vedere se quell’esperienza m’aveva lasciato qualche segno.

      Volevo rompere con Vandro, a mente calma pensai a come poter fare. Cercai intanto conforto nella vita di famiglia e uscendo evitavo le strade frequentate da lui, ma poi mi consolavo immaginando che mi stesse cercando.

        Come una saetta un giorno si sparse la notizia: la Peniarda s’era ammazzata.

        Paese in sobbuglio, chi diceva che la causa era la troppa solitudine chi perché la vita senza un uomo porta alla tomba chi perché voleva raggiungere il marito morto. Però i meglio informati sapevano che la causa di tutto era stata la sorte tremenda toccata alla gatta adorata, che prima di farla finita la vedova aveva fatto testamento dal suo notaio lasciando tutti gli averi a favore della gatta e nominando proprio lui l’unico amministratore responsabile.

      Dal palazzo, però, Marforia, era sparita.

      Il giorno del funerale anch’io mi misi in fila fra i curiosi che andavano alla camera ardente. La morta era nella bara col suo abito da sposa il velo bianco i nastri fra i capelli le collane e i braccialetti, sembrava una bambina vecchia messa lì per la festa. Fra le sue mani irrigidite spiccava un cameo d’oro e di brillanti con l’effige della gatta   e si diceva che da solo valesse un occhio della testa.

      Preso a guardare il cadavere non m’ero accorto che Vandro era dietro a me.

      Quasi quasi è più arrapante ora che quand’era viva, s’annunciò bisbigliandomi all’orecchio, seguitando con altre frasi sconce.

      Cercai d’allontanarmi ma lui mi venne dietro e fuori del palazzo mi sbarrò la strada. Che vuoi? gli chiesi con un tono cupo che non mi conoscevo. Mi prese per un braccio mi svincolai corsi via mi raggiunse dicendo: Se tuo padre sapesse quel che abbiamo combinato insieme!… A vedermi spaventato rise beffardo: Non dirò nulla scemo! Allora amici?

      Non vidi vie di fuga, mi porse la mano e lo stesso feci io.

      Non era finita lì, disse che aveva bisogno di me per fare una certa cosa. Però è l’ultima volta, dissi lamentoso. Hai visto quanta roba c’aveva addosso la Peniarda? mi chiese. Poi guardandomi fisso e duro per vietare ogni protesta aggiunse: C’avrà un capitale che non serve a niente e nessuno, nemmeno ai vermi che vogliono solo la sua ciccia!

      Non riuscivo a parlare, ero in un incubo. Ma Vandro proseguì: La tomba verrà chiusa fra tre giorni e da stanotte la Peniarda sarà a bara aperta nella cappella del camposanto, ha voluto così perché aveva paura d’essere sotterrata ancora viva… ah ah!

      Poi vedendomi imbambolato mi scosse due o tre volte quasi gridando: Non capisci che quella ci ha fatto un gran favore sarà lì con tutte le sue cosine luccicanti non potrà più dirmi di no e io non farò certo aspettare una signora!

      Occhi spiritati denti scuri grandi labbra umidicce capelli spettinati dritti sulla testa ora lo vedevo chiaramente, era un mostro. Ma lui implacabile: Quando in casa tua tutti dormono salti dalla finestra. Il becchino lo conosco è sempre sbronzo e la notte soffia come un mantice, gli altri inquilini non si sveglieranno di certo ah ah!

      Era anche pazzo, come avevo fatto a non accorgermene prima.

      Ti aspetto qui a mezzanotte, aggiunse e se ne andò.

      Verso quell’ora lo raggiunsi e lo seguii fino al cimitero. Il cigolìo del cancello mi fece andare il cuore in gola, inciampavo nelle lapidi e sbattevo nelle croci di marmo, occhi spalancati nel buio orecchi tesi a ogni rumore Ecco la cappella circondata di corone e fiori, ecco la Peniarda nella bara. Il becchino ronfa nella sua stanza e i ceri sono spenti, il chiarore che viene dall’unica finestra basta a far brillare gli ori della morta. Mi par di vederle un’espressione diversa da quella del giorno prima, le palpebre un po’ meno serrate le labbra atteggiate a una smorfia nelle mani un tremito… Su quelle mani Vandro si tuffa avidamente sfilando dalle dita ogni anello e dai polsi ogni bracciale, un po’ li getta nella borsa che io gli tengo aperta un po’ se li infila nelle tasche dei calzoni mentre rantola di piacere. Ora solleva il capo della morta per sfilar le collane ma ecco all’improvviso il vetro della finestra si squarcia e tra una cascata di vetri un gatto dalla coda mozza gli occhi arrossati e le fauci spalancate si lancia su Vandro gli si artiglia al collo affondandoci i denti con ferocia, schizzi di sangue che m’imbrattano li sento in bocca m’accecano. Butto la borsa scappo via saltando di tomba in tomba mentre dietro di me sento urli terribili di Vandro maciullato dalla gatta Marforia.

      Becchino che dà l’allarme il giorno dopo, notizia che si sparge come un lampo: cimitero violato morta depredata gatta dentro la bara galleggiante nel sangue. Vandro sparito.

      Poco tempo dopo la mia famiglia si trasferì in un altro paese. Di quelle storie non si parlò più ma una voce che ho dentro me le racconta ogni giorno. Solo io posso sentirla, e mi fa riprovare le stese angosce e paure d’un tempo. Ma anche le stesse emozioni, guai se un giorno tacesse.

      So che lui mi sta cercando e che prima o poi verrà.

      Io sono qui, e t’aspetto.

                                                                                                                                                                                                           


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2 Comments

  1. Commento by claudio grosset — 7 Febbraio 2010 @ 08:56

    Cristofani appare ostinato, oppure artisticamente sempre se stesso, nel trascinarci irresistibilmente nei suoi mondi fantastici e fiabeschi. Mondi a noi preclusi, inimmaginabili e quindi sempre diversi, nei quali ci fa l’onore di accompagnarci anche con questo racconto.

    “Vandro”, fosse esistito, potrebbe essere un campione rappresentativo de ‘la feccia del genere umano’, uno di quei ‘tanti’, definiti ‘Mostri’, protagonisti di qualche atroce fatto di cronaca poi diventati leggenda. Incarna in sè tutte le peggiori qualità: asociale, violento, crudele, perverso, sadico, vendicativo, “farabutto… un mostro… pazzo..”!

    L’unico verso il quale manifesta una parvenza d’umanità, una sorta di discutibile forma d’amicizia, è il giovane anonimo io narrante, di “quasi nove…” anni, compagno suo malgrado di scorribande ed avventure. E questo conflitto interiore, di una sola parte, ed esteriore quasi teatrale, tra i due, forse è la metafora d’una doppiezza presente, cosciente o latente in ognuno di noi; Vandro è “â€¦una voce che ho dentro me”, quella parte di noi indigesta o inammisibile, della quale però non possiamo fare a meno!

  2. Commento by Bartolomeo Di Monaco — 7 Febbraio 2010 @ 19:52

    Leggendolo, mi è venuto in mente il film di Corman, La tomba di Ligeia, tratto da un racconto di Poe.

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Bart