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Rivista d'arte Parliamone
La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

LETTERATURA: Vigilia

24 Dicembre 2007

racconto di Matteo Ongari

L’aria è fredda e sottile, impalpabile, eppure il fiato congela ad un palmo dalla punta del naso.
Stanotte ha nevicato col vento, si sentiva ululare forte fuori dagli scuretti.

Il cielo sembra ghiaccio, come ispessito da una lastra di vetro. Alcuni esili lembi grigi oscurano in parte la luna, mentre albeggia. Soltanto Venere risplende candida dietro quel cristallo che suole dividerci, riflettendo il pallore ai prati inamidati.
Al mattino andare al mulino è sempre faticoso. Oggi ancor di più, visto che siamo alla vigilia di Natale e dovrò preparare abbastanza farina per fermarmi domani. Se però mia moglie spera che a santo Stefano io me ne stia tutto il giorno a casa in panciolle, si sbaglia di grosso.
Stamani, appena è suonata l’Ave Maria, ho destato Medardo. E’ a casa da scuola e oggi ho proprio necessità di una mano, seppur fanciullesca.
Ci siamo vestiti da basso, coi panni ancora intiepiditi dal calore legnoso della stufa lasciata morire ieri sera. Due belle paia di calzettoni di lana, le mutandone lunghe, le braghe di velluto, quelle a coste spesse e i maglioni di lana fatti da mia moglie ai ferri. Inoltre, per il viaggio ma anche per il lavoro, abbiamo messo i guanti e il cappellaccio infeltrito.
Gli scarponi spaccano la neve, levigata dal vento e sommata a quella caduta ieri, scricchiolando come andassimo su un tappeto di foglie secche. Il sentiero non si vede, ma a furia di andare avanti e indietro potrei farlo ad occhi chiusi.
No, non mi da fastidio l’oscurità, anzi. Posso muovermi fino al barcone senza essere visto e l’unica cosa che mi unisce al resto dell’umanità, ai contadini, sono le piccole lampade accese dentro le loro stalle, che brillano punteggiando la distesa candida, e i muggiti delle bestie in attesa del foraggio.
Mio figlio è taciturno, abituato bene. Si sveglia di solito più tardi, quando io sono già alla barca da un bel pezzo. D’accordo, è ancora gracile, ma alla sua età io lavoravo e tanti suoi coetanei fanno i facchini e i braccianti senza battere ciglio. Finché frequenta le elementari gli va bene, sua madre lo coccola proteggendolo, ma quando avrà finito l’esame di quinta dovrà venire a lavorare tutti i santi giorni.
Forse anche le domeniche e le feste comandate, se ci sarà urgenza.
Stamattina l’aria così rarefatta fa sentire i rumori in lontananza, rendendoli vicini. Per esempio abbiamo appena ascoltato il latrato di un cane, probabilmente oltre la sponda del fiume e si è udito, sospeso e filante come fosse uno sparo, perfino il fischio della locomotiva che porta il carbone in città.
La salita dell’argine riluce nell’aurora come una intonsa pista. E oggi, infatti, sarà sicuramente battuta dai bambini più fortunati con i loro slittini di legno; dai cittadini, quelli che non hanno da lavorare e possono vivere mantenuti.
Lasciamo il sentiero e tagliamo su per le banche dell’argine, per far prima. Abbandonato il percorso dei cavalli affondiamo almeno una spanna nella neve fresca. Medardo fatica a tenere il passo, si perde e rallenta penetrando fin quasi al ginocchio; il suo deve essere un cammino di dolore, che lo porterà a faticare per l’intera giornata. Ma in fondo non gli dispiace, lo so, è contento quando può venire alla mulinassa per imparare l’arte della macina.
I pioppi sono spogli: il nevischio, scaraventato dal vento a grande velocità contro i tronchi, ha formato degli strati spessi e tutti nella stessa direzione, oriente, regalando l’impressione che le piante abbiano una irsuta barba bianca.
Per fortuna, nonostante il freddo, l’acqua del Po non è ghiacciata. Lentamente scende verso il mare, una lingua livida rinchiusa nelle sponde, obbedendo alle leggi della natura. Mentre remo per raggiungere il mulino Medardo, sull’assicella del battello, si rannicchia battendo i denti. Oggi morsica come un cane affamato. -“Manca poco, coraggio”, gli dico rincuorandolo. In fin dei conti mi impietosisce. Lui magari mi compatisce come un genitore burbero. Chissà che opinione avrà, in fondo all’animo, di suo padre?
Forse ce l’ha con me perché ho scelto lui e non qualcun altro. Ma suo fratello è troppo piccino, non riuscirebbe a raccogliere nemmeno la crusca, mentre le sue sorelle, le Tre Grazie, come le chiamano in paese, devono aiutare la madre nei mestieri e poi sono quasi in età da marito e quindi oggi pomeriggio andranno in giro a divertirsi a qualche festa danzante. Solo la Nina verrà a trovarmi, e già pregusto il suo arrivo. Non appena saremo sul barcone ed avrò messo in funzione le mole accenderò anche il fuoco dentro al magazzino, facendo in modo di sfacchinare nel tepore di un camino. C’è comunque da recuperare legna nel bosco, e non sarà facile, con la coltre bagnata e ispessita che copre ogni cosa e che bagnerà i guanti lasciandomi le dita intirizzite.
La macina sembra a posto. Metto dentro almeno due sacchi di mais, per prima cosa, e poi ritorno con la barca a far fascine nel pioppeto. Medardo l’ho lasciato dentro a controllare, a insaccare la farina gialla. E’ una mansione che ha già svolto, sa come deve allacciare la bocca del sacco per non far scappare il macinato per terra, oltre il buratto.
Tanto per farlo scaldare, gli ho ordinato di prendere la scopa di saggina e spazzare le assi dello stanzone: così almeno rimarrà occupato mentre si macinano quei due quintali di granoturco e io farò in tempo a ritornare con la scorta da bruciare per oggi.
“Stai attento quando si riempie il saccone”, gli ho gridato mentre scivolavo via sul battello. Facevo fatica a distinguerlo nei colori tenui dell’alba invernale. Poi si è chiuso alle spalle la porta del magazzino. So per certo che farà come gli ho detto, sta sempre attento ai miei consigli,   quel ragazzino diventerà sicuramente un buon mugnaio.
Per fortuna oggi è una bella giornata: il sole si è alzato, anche se non scalda, e ha pitturato di celeste il cielo. Le cappa grigiastra di ieri e la tormenta di questa notte sembrano essere lontane come le montagne che si stagliano a Nord, oltre il campanile. Quando c’è questa atmosfera così limpida, sembra proprio che le Alpi siano a due passi. E’ una vista, una sensazione, che spesso mi lascia senza fiato, estasiato dall’immutabile bellezza. Oggi poi, cucuzzoli e   pennacchi sono completamente smaltati e sembrano volerti abbracciare. Per lo meno la poca luce che ci separa dalla vigilia la passeremo sereni. Stanchi ed affamati torneremo stasera e festeggeremo l’avvento di nostro Signore Gesù.

Eccoli.
Stanno arrivando, a fatica sui sentieri dei pioppeti non battuti, i fittavoli coi carretti carichi di granaglie. So già che vorranno subito la loro farina, per sfamare le famiglie e anche il bestiame. Purtroppo non potrò accontentare ogni richiesta. Mi serve tempo e la mola è liscia , per cui devo forzatamente rallentare la produzione. Ma oggi non c’è tempo per fermarsi a scolpire la ruota, oggi c’è da darsi da fare per non lasciare nessuno senza mangiare.
Devo ammettere che le ore in cui sto meglio, che preferisco, sono quelle dell’alba e del tramonto, quando nessuno si presenta qui al mulino colmo di pretese, quando i mezzadri sono impegnati con la mungitura e con i lavori della campagna. Purtroppo questa è la stagione del riposo, per loro, mentre per noi mugnai non esiste né estate né inverno, ma si fatica sempre uguale.
Sono i momenti di maggior calma, quando si riesce a preparare scorte di farina e macinare in santa pace i cereali, lontano da smanie e raccomandazioni. Odio chi mi fa pressioni, anzi odio quasi la maggior parte di coloro che vengono a trovarmi, ma purtroppo devo lavorare se voglio mantenere una famiglia. Faccio buon viso a cattivo gioco.
Medardo è stato bravo: ha aspettato pazientemente che facessi fuoco, pulendo il magazzino e preparando la farina gialla; ha addirittura legato i sacchi con il canapo. Mi ha sicuramente copiato. E’ uno che non si dimentica le cose, mio figlio. Sono sempre più convinto che questo sarà il suo mestiere. Con lui non devo ripetere le cose, o sgolarmi. Così deve essere un buon mugnaio: sveglio, taciturno, lavoratore e intuitivo. Guai a perdersi con la pesa o nei conti.
E’ oramai quasi mezzogiorno: i dodici rintocchi dei tre campanili che ci circondano – Borgoforte, Scorzarolo e Torricella – picchiano nell’aria sovrapponendosi come se ci fosse una festa in corso.
Guardando fuori, io e Medardo abbiamo visto una esile figura avvicinarsi sull’argine spruzzato di neve: il brillar del sole dava l’idea che mille specchietti riflettessero argento verso di noi.
Nina è già arrivata e mi aspetta al molo. Ho sentito il suo fischio, non propriamente da damigella di buona famiglia, fin dal barcone. Io e Medardo eravamo alla balaustra, sinceramente curiosi di sapere cos’ha portato da mangiare. Tiene un fagotto sotto braccio, mentre l’orlo della sua enorme gonna blu sfiora lo strato di ghiaccio. Gli scarponi non si vedono nemmeno, sepolti dalla neve.
Mando mio figlio a recuperarla, dovrà pur imparare a governare il battello a remi. Oggi, con la calma che regna sul Po, non è difficile spostarsi in barca. Nel frattempo ho deciso che, almeno per la vigilia, mangeremo in tranquillità senza rumori fastidiosi. Mi avvicino alla ruota e fermo la turbina, sganciando la leva di traino. Le pesanti pale di legno lentamente si fermano, azzerando il ronzio e la macina superiore fievolmente si blocca sul grano ancora mezzo tritato.
Mentre loro preparano il tavolo, con tovaglia e posate, do un’occhiata alla turbina e alle corregge.
C’è una puleggia usurata, due elastici consumati che andrebbero al più presto rattoppati e i due mozzi dei cuscinetti scricchiolano pericolosamente. Alcune tavolozze di legno della grande ruota sarebbero da sostituire, rese precarie dalla forza dell’acqua e un paio si sono addirittura staccate dalla loro base.
Ci sarebbero una enormità di lavori da eseguire, ma purtroppo non c’è il tempo materiale per farli.
I miei fratelli fanno la spola tutti i giorni dalla mulinassa al magazzino fino alle corti dei clienti, senza sosta. Vorrà dire che sacrificheremo una domenica.
Dovremmo per forza prenderci un giorno di chiusura e riparare tutte questi piccoli rattoppi, altrimenti ci ritroveremo senza mulino in breve tempo.
Cospitone e polenta abbrustolita. Mia moglie oggi ha deciso che faremo festa in anticipo, nonostante la cena solenne che ci aspetta stasera.
Certo non si è sprecata in abbondanza: in tre abbiamo si e no una spanna di anguilla affumicata e due fette di polenta a testa. “Meglio”, mi dico, come a consolarmi, altrimenti ci appesantiremmo troppo.
Nina è euforica: parla in continuazione, mentre noi uomini rimaniamo in silenzio a gustarci il pranzo. Aiutata dalla presenza di suo fratello – di solito quando viene e siamo solo io e lei è molto più guardinga – ciarla di tutte le belle cose che hanno comperato al mercato, in paese, stamattina. Stoffe, ricami e dei cappelli di paglia per questa estate. Quando vanno a far spesa, mia moglie e le mie Tre Grazie  non badano a spese, dando aria alla mia fisarmonica di banconote.
Nina ci dice che oggi pomeriggio sono state invitate a Corte Lavandera per un ballo. Ci saranno tanti giovanotti e, anche se non lo ha raccontato, m’immagino che troverà pure il figlio dei Bigi, quel ragazzotto smilzo e dinoccolato che dovrebbe chiamarsi Ruggero. E’ venuto con suo zio qui al mulino a macinare orzo e segale. Lo vedo ogni anno in chiesa a Natale, quindi anche domani mattina ci incontreremo. E’ un buon partito, non credo che mi opporrò se dovesse domandarmi Nina.
Lei non s’immagina che io conosca quel povero Cristo, che io sappia chi le ronza intorno e sia informato sulle loro tresche. Non sarebbe da padre inflessibile come mi giudicano, ma raschiando il fondo del mio animo una parte di leggerezza la si può trovare. Anche le sue sorelle hanno dei giovani virgulti che fanno loro la posta, che le invitano a ballare perdendosi in quelle pupille turchesi e annusando la profumata cascata paglierina delle loro chiome.
Adesso che abbiamo mangiato, pian piano Nina sparecchia facendosi aiutare da Medardo. Lo sanno che io ho bisogno di riposare e per quello non mi disturbano quando mi appisolo sulla branda, non prima però di aver rabboccato il fuoco con un paio di ceppi.
Fuori si sente solo lo sciabordio dell’acqua. Niente altro a disturbare il mio sonnellino, nemmeno le chiacchiere sommesse dei ragazzini che sono usciti sul barcone a giocare con la neve bagnata.

Il pomeriggio è corto, freddo. Il cielo si è parzialmente oscurato, nubi viola arano solchi nei pressi del pallido sole, che si è come disperso dietro lembi bianchastri. Fra poco sarà di nuovo sera e minaccia ancora di nevicare. Sarà davvero una bianca vigilia di Natale.
Nina è scappata subito dopo la pennichella. E’ rimasta, caso strano, soltanto per vegliare su suo fratello. Negli giorni feriali scivola via in silenzio, con la sportina dei piatti sporchi, non appena mi corico. Evidentemente non si fidava a lasciare Medardo fuori, sul barcone, da solo. E’ una brava ragazza, l’unica della mia famiglia che riesca a farmi ragionare. E questo lo sanno tutti, ecco perché ogni anima della mia casa affida a lei le missive da trasmettermi, le belle e le brutte notizie, le novità e le richieste. Anche le più azzardate. Sanno, gli infingardi, che a lei non avrei mai il coraggio di una scenata, di risposta sgradevole. Mi prendono dal lato debole della mia scontrosità.
E’ tempo di ripassare il grano col setaccio. Faccio vedere a Medardo come muovere l’attrezzo, quanto cereale lasciarci, quanto versarne poi nella tramoggia. La farina fine, la rimacinatura, la setacceremo un’altra volta. La vagliatura va appresa per gradi.
Per fortuna altri seccatori oggi non se ne sono visti. Questi sentieri ghiacciati hanno scoraggiato i mezzadri a mettersi al calesse. Ci vorrebbero le slitte al posto dei carretti, e qui nessuno è così attrezzato a parte i grandi proprietari. Ma quelli, si sa, vivono in città e non scendono al paese che d’estate per la spartizione del raccolto, la divisione delle messi con gli affittuari.
Meglio così, vorrà dire che riprenderemo fiato sistemando il magazzino. Soltanto i miei fratelli dovrebbero arrivare a momenti: loro sfidano la neve, hanno bisogno del macinato.
Già sento i campanacci di Fulmine, il cavallo che tira la carretta. Scendono dall’argine. Uno tiene le redini all’animale per non farlo correre, l’altro dietro controlla che la carrozza non scivoli giù.
L’aria si è fatta pesante, inumidendosi. Quando respiri, tra il fiume e il bosco, sembra d’ingoiare un blocco di ghiaccio. Anche il trasbordo dalla terra ferma al mulino diventa un lavoro massacrante.
Medardo mi guarda dalla mulinassa. Osserva i suoi zii che aspettano tirando giù dal cassone i sacchi pieni di granaglie per far posto alla farina che gli sto portando. Tutti i giorni è la stessa storia: loro portano materia prima e io gli consegno, sempre sotto tacito accordo, il prodotto finito.
Nel tornare alla barca mi accorgo di avere i piedi inzuppati di nevischio e le mani, dentro i guanti di lana ormai laceri, raggrinzite. Le estremità dei piedi sono gelate, e pungono come mille formiche impazzite…
Faccio cenno a mio figlio di venire ad aiutarmi. La cuffia che tengo in testa, nell’alzare un sacco, mi scivola e fortunatamente ricade sull’asse della barca, sfiorando il fiume.
Portiamo dentro e impiliamo ogni sacco con cura contro la parete: li macinerò dopodomani, penso, controllando che siano legati bene. Topi non dovrebbero essercene, ma non si è mai sicuri.
Quando l’ultimo filo di luce abbandona l’occidente, accendo la lampada, che brucia olio grezzo puzzando di bruciato e tiro la leva.
Anche per oggi è finita. Medardo mi scruta: sembra voler trovare una vena di malinconia nei miei movimenti. Sapendo come sono attaccato a questo lavoro spera di vedermi triste nel momento dell’abbandono. Ma oggi è diverso. Ho freddo, la giornata è corta, poco proficua e sento la festività.
La ruota lentamente si ferma, il fiume scorre sempre piano come il volano di un Landini.
Alzo le macine, raccolgo la polvere e le puliture del grano spezzato. Vuoto la tramoggia, il buratto e chiudo le paratie delle corregge. Controllo ancora le pulegge scricchiolanti, visiono le cinghie e, come ultima cosa, mi chiudo dietro le spalle a chiave la porta del magazzino.
Medardo mi aspetta sul ponte tra i due barconi, esile sagoma nelle tenebre.
Rientriamo in paese camminando lentamente tra i pioppi sgocciolanti. Il sole ha scaldato e ora una nebbia bagnata ci accompagna, sgranando le figure in prospettiva. Per non cadere in fallo poggiamo piano i piedi sprofondando nella neve frolla. Solo il nostro alito lacera il nero, come freccia d’aria.
I sentieri sono deserti, come stamani. La campana suona, piano, nemmeno fosse ricoperta d’ovatta e non volesse disturbare chi ancora sta lavorando. Le stalle hanno le lucerne accese, allargate dall’aria spessa, nelle finestre di mattoni dei fienili. Alcuni abbaini sono illuminati da lumi a petrolio.
Mentre attraversiamo le prime case del borgo, silenziosi, mi perdo nel futuro prossimo.
Prima di andare a casa dovrò passare in chiesa per l’acqua santa.
La spargerà Nardino –   l’ultimogenito –   stasera, prima sui tortelli di zucca, poi a consacrare le stanze della casa. Peccato non aver mai fatto benedire la mulinassa. Ci tengo appeso un crocefisso, la Madonna e l’effige di Santa Caterina. Manca Sant’Antonio. Una volta o l’altra devo dire al prete di passarci.
Stasera sarà qualcosa di speciale: anzi tutto perché faremo il bagno, cosa che non succede spesso, specialmente d’inverno. Seconda cosa per i tortelli al burro e parmigiano, poi per le poesie recitate dai miei ragazzi e le letterine infilate sotto il piatto, con cui prometteranno di essere ubbidienti.
Dovrò rispondere semplicemente con la mancia. Mangeremo il marinato e la polenta fresca. E poi i cachi della pianta, la frutta secca e il bissolano dolce, col Moscato da bere. E anche perché, mentre le donne andranno alla messa di mezzanotte, io sarò in osteria a giocare al punto, al punt.
E’ una tradizione che si ripete immota ogni vigilia da tempo immemore, dai tempi di mio padre.
Non importa che io vinca o che, come spesso mi accade, ci rimetta qualche moneta da dieci centesimi. Ciò che veramente conta è il ritrovarsi, assieme agli altri compaesani, per interminabili partite che finiranno all’alba, col fumo dei sigari negli occhi, l’alcol della grappa nelle vene e l’immancabile risotto con le salamelle nello stomaco.
Mentre fantastico del mio domani, quasi davanti al recinto di casa, Medardo mi tira per il giaccone.
“Padre, dovevi prendere l’acqua Santa!”
“Hai ragione. Stavo sopra pensiero.”
“Felice Natale anche a te, padre.”


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5 Comments

  1. Commento by Carlo Capone — 24 Dicembre 2007 @ 17:07

    Un mugnaio indimenticabile, ho respirato la sua aria, visto le sue cose, ammirato i suoi luoghi, assaporato la sua cena di vigilia. Bravo!

  2. Commento by matteo — 24 Dicembre 2007 @ 17:27

    Sono lusingato, Carlo. E devo ringraziare Bartolomeo per aver pazientemente inserito il mio racconto anche all’improvviso e all’ultimo istante. E’ la seconda volta che racconto del mugnaio (il mio bisnonno, insomma) e spero che ci sia un filo conduttore tra le due narrazioni.

  3. Commento by Gian Gabriele Benedetti — 24 Dicembre 2007 @ 21:07

    Racconto che ti avvince e ti emoziona. Tutta la storia, godibilissima, è narrata attraverso una scrittura accurata e visiva. La scena è resa viva da avvenimenti ben descritti e da personaggi umanissimi, che ci riportano una realtà, quasi toccata con mano, proiettata sapientemente nel tempo e fissata nella memoria. Complimenti al bravo autore!
    Gian Gabriele Benedetti

  4. Commento by matteo — 25 Dicembre 2007 @ 18:50

    Grazie Gian Gabriele. Non so davvero come commentare questi complimenti. E’ stato un gioco, un immedesimarsi che forse mi è riuscito bene, magari più di quanto mi aspettassi.

  5. Commento by Gian Gabriele Benedetti — 25 Dicembre 2007 @ 23:37

    Caro Matteo,
    continua pure in questo “gioco”, che sai interpretare bene. Ed è un “gioco” che fa bene a te ed a chi ne fruisce i risultati
    Gian Gabriele Benedetti

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