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LETTERATURA: Vincenzo Pardini: “Giovale”

26 Marzo 2021

di Bartolomeo Di Monaco
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Come è noto, Pardini ha svolto nella sua vita la professione di guardia giurata. Spesso gli capitava di fare servizio durante la notte. In un’intervista rilasciata a Titti Giuliani Foti comparsa su La Nazione del 16 dicembre 1999, così si esprime circa il lavoro di notte: “Mi ha aiutato a capire una realtà nuova che regala cose belle a livello di natura. Può capitare di vedere lampi lontani e starne in mezzo tutta la notte. Dimentichi il sonno, riuscendo ad affinare la tua sensibilità e vuoi più bene alla gente che chiede di essere tutelata. Da ogni parte c’è poesia.”.
Proprio così, e la poesia fa sempre da sottofondo alle opere di Pardini. Emerge finanche dal suo stile duro, nervoso. Ne è pieno. La notte e la poesia hanno formato in lui un amalgama indistruttibile.
Ogni cosa su cui posa lo sguardo Pardini, si avvolge di poesia, crea un legamento con la sua anima. Fa nascere l’amore.
“Giovale”, dedicata al suo mulo, è un romanzo-diario impregnato di amore.
Su La Nazione del 7 maggio 1993, il libro appena uscito, Gian Luigi Ruggio, che fu custode di Casa Pascoli, scrive: “Leggendolo, ci si imbatte tra ombre del passato e antiche memorie agresti – oggi scomparse – ma conservate gelosamente vive e attuali-nei paesaggi dell’anima del Pardini che mai si è separato dal suo viscerale attaccamento alla terragna e sana civiltà contadina.”.
Leggiamolo insieme.
Il mulo è stato utilizzato nel passato per il trasporto di pesanti carichi di merci impossibili da essere portati sulle spalle dell’uomo, soprattutto nelle località montane, dove i sentieri impervi e tortuosi rendono difficile e pesante il passaggio.
Giovale è il mulo del protagonista (palesemente lo stesso autore), uno dei pochi rimasti, non più utili ad una società ormai meccanizzata: “Plastica, lattine e auto avrebbero assediato quei borghi liberi e selvaggi. Piccoli, mostruosi trattori da carico rombavano sulle erte.”.
Lo compra dal cugino Remo che vuole disfarsene, poiché è caduto in un precipizio e ha riportato qualche danno. Ma è ancora un mulo forte. Il diario parte dal 10 settembre 1989 per arrivare al 20 dicembre 1990, e proseguire con un epilogo scritto dopo qualche anno (il libro è del 1993).
Scrive di Giovale: “Quando ci conoscemmo, otto, nove anni fa, ebbi il presentimento che un giorno saremmo stati amici. In lui c’è qualcosa che mi appartiene.”; “Trovo Giovale fuori della capanna, legato a un frassino. Lo sciolgo, lo porto con me nelle vie del paese. Una bella e sconosciuta ragazza, capelli biondi e sguardo triste, gli offre dei biscotti. Lui, labbra pendule e morbide, li afferra delicato, biascicandoli. Ha occhi grandi e languidi. Averlo appresso mi dà allegria. Insieme a lui mi sentirei di fare il giro del mondo. Un mondo, naturalmente, solo di boschi e di villaggi.”.
È il richiamo ad un mondo primordiale, non ancora inquinato dalla follia umana.
Giovale ha una mula compagna, Elide: “Traversando il castagneto degli Allocchi incontro Elide e Giovale: vanno a lavorare in una località prospiciente i dirupi. Giovale segue la compagna, passo svelto ed elegante, con aria meditabonda e scocciata. Gli carezzo la criniera. Mi guarda roteando le pupille di carbone e di gesso.”.
L’amicizia tra i due è nata e corrisposta nel silenzio.
Ricorda i muli della Grande guerra. La guerra e la morte sono presenti nella maggior parte delle opere di Pardini: “Un vecchio quasi cieco raccontava i muli sul fronte di guerra, nel ‘15-‘18. Seduto sopra un sasso, le grosse dita di una mano strette al bastone, narrava: ‘Quell’anno si congelava, sul fronte. A molti era stata asportata parte dei piedi. Bisognava tagliare, altrimenti la morte ci avrebbe divorati. Ah, che brutta bestia la morte! Più sei debole e più ti attanaglia. Soltanto i muli non la temevano. Erano alti, grossi, i ventri intrecciati di vene che parevano ruscelli. Fortunati i conducenti. Durante la tormenta o il gelo della notte si accostavano al proprio mulo e lì stavano come pulcini sotto la chioccia.”.
Animali e uomini uniti: “A me lo zoccolare dei muli metteva e mette dentro l’armonia di un inno.”.
Sono animali che, in silenzio, offrono se stessi per aiutare l’uomo.
Prima che arrivasse il mulo, come è stato accennato più sopra, gli uomini portavano sulle spalle il pesante carico salendo per arzigogolati e puntuti sentieri: “I mulattieri in queste contrade, risalgono al dopoguerra. Fino allora, legname, vettovaglie e anche i feriti e gli ammalati si trasportavano a spalla. Questi ultimi con l’ausilio di una barella o su uno scranno di legno. Ci furono uomini che riuscirono a caricarsi sugli omeri due, due quintali e mezzo: balle di castagne, di patate o di rena. Messa della paglia o del fieno dentro un sacco, ne facevano una specie di cappuccio che dalla testa ricadeva sulla schiena: la cosiddetta bardella, il cui scopo era di attutire l’attrito del carico sulla carne. L’avvento dei muli allevierà la fatica degli uomini.”.
In questo viaggio diaristico rivivremo il passato e ne assaporeremo sacrificio e forte volontà.
La scrittura assomiglia così tanto alla storia ed è così contagiosa che se il lettore si mettesse a scrivere, se ne sentirebbe contagiato. Fiabesche leggende la contaminano dandole colore e fascino: “Nelle notti di luna piena, quando in quei botri gli alberi delineano ombre forcute, un frate, attraversata la strada, scompare dentro un castagno.”.
L’amore verso il mulo ha origini dalla fanciullezza: “Stavo così attento allo zoccolare dei muli che avevo imparato a distinguerli. Ognuno aveva il suo passo. Alcuni vetturini ne avevano più di una coppia. Carichi di legna, sabbia o carbone, si udivano arrivare da lontano; la valle rimandava la loro eco. Uditili, correvo in una piazzola laterale alla via, passo obbligato se volevano raggiungere la montagna. In fila, la carovana arrampicava i sentieri costeggiando i poderi o la macchia. Sparivano e riapparivano dalle boscaglie.”.
Acquistato Giovale dallo zio, gli prepara il recinto: “Penso a Giovale: è l’ultima notte che trascorre con Elide. Gli mancherà. La smania di partire mi taglieggia.” Elide è una mula. “Giovale è mio. Abbiamo camminato fianco a fianco oltre settanta chilometri. Non poteva essere altrimenti: sopra un camion non ci sarebbe salito. Già quando lo acquistò Remo dovettero portarlo a piedi.”; “Sui sassi, lo zoccolare di Giovale è ritmico. La mia musica.”.
Giovale diventa il veicolo per mezzo del quale si entra nelle vaporosità del passato; si riavvolge il tempo. Attraverso il mulo si compie un cammino a ritroso non solo dentro il passato, ma ben oltre la incommensurabile dimensione del tempo: “Niente so invece delle sue origini. Le caratteristiche morfologiche lo vorrebbero però figlio di un asino di Martina Franca e di una cavalla delle Murge. Di quest’ultima ha il colore del manto, la lunga criniera, le ganasce pesanti.”. La nascita chissà in quale seme si perde, in quale età millenaria. Troveremo: “Gli è forse passata nella mente la memoria dei progenitori, al seguito degli eserciti o sui sentieri di montagna o nelle pianure disperse tra i punti cardinali: comunque sempre con l’uomo, verso la terra promessa.”.
Il viaggio con il mulo fino al nuovo recinto è un attraversamento dell’anima del protagonista, che ne è preso. Uno sperdimento nella natura, una lancia tesa che la fende: “Sfioriamo rogge e canali; bollicine vanno e vengono dalla superficie dell’acqua: sono i guizzi delle trote. Salite e discese rasentano posti e divallamenti. Verso questi Giovale volge la testa: ci sono le sue montagne.”.
Non c’è più differenza tra l’uomo e l’animale: “Giovale è un’ombra che mi segue. Forse il mio angelo custode.”.
Ci si meraviglia che in frasi così asciutte si nasconda un mondo intero, ancora primigenio: “Siamo dinanzi a un bivio, le cui strade si inerpicano, una tra le rocce, l’altra tra i cespugli; nel mezzo s’apre uno spiazzo argilloso, prospicente il quale rimbalza un paesaggio di foreste e di acrocori.”.
Ci si muove tra paesaggi che richiamano immagini di briganti, di streghe, di indovini, come perenni tracce di un passato che fu portentoso e magico.
Perfino “la donna dai capelli bai” che ossessiona la fantasia focosa e sensuale del protagonista, pare una traccia indelebile del tempo.
I ricordi (la vacanza in Marocco coi suoi colori accesi: “La casba verso cui ci avvicinavamo aveva i colori del rame.”) sono luci del passato che non muore mai e si ripresenta, percorre magari strade nuove, ma resta ciò che fu: “Figuri muniti di ascia e coltella si avvicinarono al cammello. L’animale li seguì sotto la tettoia di portelli e cofani di macchine. Un ceffo di cui vidi appena il gesto delle braccia gli vibrò un colpo d’ascia nel collo. Il cammello, lentamente come aveva camminato, s’accasciò al suolo. Il sangue sgorgava copioso.”.
Gestualità, riti fissati nel tempo.
Una scrittura stentorea e al tempo stesso immaginifica in cui ricordi e sogni si fanno tessere di un mosaico. Giovale non è che il centro di un rimescolio della memoria, un ricongiungimento d’amore e di poesia. Tanto che altri animali che compaiono, come la mula Elide e il mulo Lilli, sono incastri dello stesso Giovale.
Il quale tiene tanto alla libertà da adombrarsi del suo padrone: “Anzi, se mi avvicino afferra il secchiello coi denti e fugge. Non dà alcun segno d’affetto: sono il suo persecutore, forse il carnefice. Mi guarda da lontano, gli occhi lacrimosi.”.
Mai ho trovato nei libri di Pardini il sapore e il profumo della libertà e della completa immersione nella natura, e la corresponsione con essa, quanto qui. Pardini vi appare come l’essere che, con le braccia alzate, la bocca spalancata e gli occhi ridenti rivolti al cielo, grida, tra il folto della boscaglia, la sua gioia di uomo libero. Più avanti troveremo un lamento: “Penso che la vita altro non sia che la degenerazione della più grave e della più dolce delle malattie: l’amore.”.
Giovale, più che un animale, è un universo: “Non ci sono dubbi: in lui vibra una forza sconosciuta. Ne ho soggezione. Mi siedo vicino e lo cerco coi pensieri.”; “È il mio asso nella manica e non lo sa.”; “Mi ha eletto a suo amico e suo complice.”; “Scopro di sentirmi più vicino a lui, nella pelle e nell’istinto, che non ai miei simili.”; “È avvenuto quanto auspicavo: l’intesa che non ha parole. Sono di fronte a un uomo, un grande uomo. Poco importa se non capisco la lingua, ne comprendo le intenzioni.”.
Ormai Pardini è preso dal suo mulo, con il quale s’intende alla perfezione: “Ho avuto la sensazione che i suoi occhi vedessero Dio.”; “Ho capito nell’impeto di un’allegria che rende forti i derelitti, che Giovale potrebbe coprire le incommensurabili distanze che dividono la terra dalle stelle: basterebbe trovarne il sentiero.”.
Il mondo degli uomini infastidisce l’autore; potesse se ne libererebbe: “Lontano dal mondo sono felice. Esisto per quello che vedo e respiro. Sapessi come fare, mi cancellerei dall’anagrafe. Un giorno riuscirò nell’intento. Lo zoccolare di Giovale risveglia echi assopiti. Quassù non c’è più nessuno. Sono abbandonati perfino i cimiteri. Erbe e fiori selvatici hanno preso il sopravvento su tutto. Potessi, interrogherei la morte. Forse abita da queste parti.”.
Morte come rifugio, come difesa dagli uomini, per restare solo con la natura.

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Bart