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LETTERATURA: Vincenzo Placido: “Zvanì. Il fanciullino di casa Pascoli”

11 Novembre 2020

di Bartolomeo Di Monaco

Dopo che sono uscite due importanti opere sul Pascoli, ossia “Giovanni Pascoli. Poesie e prose scelte”, Mondadori 2002, con la curatela di Cesare Garboli (il quale aveva già pubblicato un ampio saggio su Pascoli: “Da Massa a Livorno”, pubblicato su Paragone, gennaio – giugno 1999) e “Giovanni Pascoli. Poesie”, Utet, 2008 con l’introduzione di Giorgio Bárberi Squarotti, colui che ha contribuito in modo determinante a valorizzare il poeta, considerato fino ad allora un minore della nostra letteratura, si poteva pensare che qualcun altro avrebbe osato scrivere dell’autore dei “Canti di Castelvecchio”, dopo che due mostri sacri della critica letteraria se ne erano occupati? E a quel modo!
Si deve dire che la sfida che Vincenzo Placido ha accettato, gli fa onore e di per sé significa che qualcosa di nuovo troveremo nel suo libro, uscito nel 2020 per i tipi dell’editore Tralerighe Libri.
L’autore ci avverte che il suo saggio ha un valore anche narrativo, onde rendere comprensibile la storia soprattutto intima di questo grande poeta, che scelse Barga, o meglio il colle di Caprona a Castelvecchio, come suo nido dentro il quale egli avrebbe coltivato le bellezze e i segreti della natura.
Il Monte Forato, dietro il quale il sole sorge e tramonta due volte durante il solstizio d’inverno, rappresentò per lui un richiamo dell’anima.
Dall’altana di casa sua, insieme con la sorella Mariù, ogni anno osservava questo straordinario fenomeno naturale, ma il 30 gennaio 1912 i due vollero recarsi sul piazzale del Duomo, da cui la vista era superlativa. Si unirono ai molti che già l’occupavano, tutti ammirati di vedere tra di loro il famoso poeta.
Il sole è tramontato una prima volta e si aspetta che riappaia nella direzione del foro: “Tutti gli osservatori erano assorti in trepida attesa. L’incantesimo era iniziato! Ed il sole cominciò lentamente a riapparire nel foro dell’arco, fino a quando non vi combaciò occupandone l’intera superficie. La valle si illuminò di nuovo. E così pure il volto dei presenti, nelle cui espressioni la meraviglia si mescolava alla gioia. Si levò qualche grido di approvazione, mentre quasi tutti battevano le mani. Poi il sole cominciò di nuovo a declinare lungo la parte inferiore dell’arco. Tramontò definitivamente. E le ore del Vespero si apprestarono a cedere il loro tempo a quelle della notte.”.
Con questa prima citazione si dà anche l’idea di una scrittura pulita e precisa, che rende piacevole la lettura.
Giovanni Pascoli era una personalità molto sensibile e si lasciava trascinare dalle paure e dalle suggestioni. Il pensiero della morte spesso lo aggrediva, nonostante Mariù cercasse di confortarlo e di scacciare da lui i neri pensieri.
È un uomo fragile, a differenza del suo contemporaneo Gabriele D’Annunzio, capace di imprese leggendarie, come il volo su Vienna e l’impresa di Fiume.
Il passato è sempre presente in lui, un passato malinconico, contraddistinto dalla morte dei suoi genitori Ruggero e Caterina e dalla sorella Margherita, coi quali si trova spesso a dialogare e a confrontarsi. Zvanì è il ‘fanciullino’ che vive in lui e con il quale registra e interpreta la realtà.
Viene da domandarsi se mai il Pascoli divenne adulto nell’anima. Quando si trovava all’osteria “Ritrovo del Platano”, giocava a carte, beveva, chiacchierava con i frequentatori del locale, che si sentivano onorati della sua confidenza, sapendo chi era, ma bastava poco, una distrazione, una pausa, un momento di silenzio perché il fanciullino facesse sentire la sua voce.
L’autore fa seguire alle poesie del Pascoli le sue riflessioni. Sono poesie scelte, non molte, ma tali da provare che gli stati d’animo del poeta sono sempre intrisi di una fanciullesca malinconia, così che il poeta adulto non è mai riuscito a distaccarsi dalla sua infanzia: “Doveva tornare con il pensiero indietro in un tempo, un tempo lontano in cui… E si riconobbe bambino, seduto su uno sgabello con la testa appoggiata sulle ginocchia di sua madre che l’accarezzava con la mano. Era tanta l’emozione di ritrovarsi in quel dolcissimo stato di abbandono, che sentiva battere fortemente il suo cuore, mentre il suo sguardo esprimeva un’insolita gioia, poiché la dolcezza che provava era immensa.”. Attraverso il metodo del dialogo, inoltre, l’autore dà voce ai personaggi per spiegare e chiarire. Giovannino, Zvanì, Mariù hanno una propria voce e diventano presenze reali, anche se in esse fa sempre capolino la voce dell’autore quando ne disegna schema e contenuto. È il segno della partecipazione attiva e costante di Placido, che ambisce a legare per sempre il proprio sentimento ai suoi personaggi tanto amati. Qui, ancora una volta, parlando con Mariù, ricorda la mamma: “Io non le parlavo, né della fama raggiunta, né delle ambizioni letterarie che ancora nutrivo. Ma la consolavo. Perché, grazie al monito della sua ‘Voce’, ero riuscito a porre rimedio agli errori del mio passato: avevo accolto con me e proteggevo Ida e te dopo avervi dimenticate. Ma poi, proprio nel momento in cui volevo abbracciarla, perché mi sembrava che, in occasione del mio compleanno, lei fosse tornata da me, la sua figura svaniva. Vedevo al suo posto una bara e poi la croce del cimitero, dove l’hanno sepolta con le altre croci di famiglia. E tornavano in me il vuoto e lo sconforto di sempre.”. Un tale sgomento, una tale arrendevole malinconia è visibile in una delle sue poesie più significative: “La mia sera”. Come la centralità della madre nella sua arte, oltre che nella vita reale, è intensamente espressa nei cinque sonetti che compongono “Colloquio”.
Molto belle le pagine in cui Placido ricostruisce la morte di Ruggero, il padre di Giovanni, ucciso in un agguato. La forza che sprigiona dalle poesie che ne trattano, “X Agosto”, “Giorno dei morti”, “Il nido di ‘farlotti’” e la celebre “La cavalla storna” fa della morte un istante luttuoso, ostativo, ma anche magico, in cui si annida e si compenetra la stessa resurrezione, la quale dona alla morte i palpiti della natura che piange e il sigillo dell’eternità.

La morte del padre fu centrale nella vita del poeta, che non riuscì mai a dimenticare. I due Giovanni che dialogano, il Giovanni dell’infanzia e quello interiore, Zvanì, ne stigmatizzano il dolore e le conseguenze recate alla madre, che non si sollevò più dallo smarrimento in cui era precipitata: “Morì di dolore quando aveva soltanto quarant’anni e sette figli, che doveva ancora crescere.”.
Ancora oggi il delitto è rimasto avvolto nel mistero e impunito: “La motivazione più plausibile, su cui anche il poeta e la sua famiglia insistettero, fu relativa alla rivalità professionale nei suoi riguardi.
Il principe Alessandro Torlonia, a cui apparteneva La tenuta ‘La Torre’, stava per formalizzare la nomina di Ruggero Pascoli ad amministratore unico di tutti i suoi possedimenti romagnoli. Qualcun altro, che ambiva al suo posto, volle impedirlo. Lo raggirarono, adescandolo a Cesena, con la scusa proprio della nomina e sulla strada del ritorno lo ammazzarono.”.
Le poesie che sono riportate nel testo indicano una ad una le varie fasi della vita del poeta e ne segnalano la sua forte determinazione a lasciarne il ricordo. Rari i momenti di felicità, che ebbe solo le volte che si immergeva materialmente e spiritualmente nella natura circostante e nel suo amato giardino, dove era sepolto il suo cane Gulì, trattato fino alla sua morte come uno di famiglia.
La prosa di Placido si nutre della malinconia e della sensibilità del poeta. Ne recupera al lettore lo spirito contemplativo e dolente.
La lettura si fa delicata, raffinata, morbida.
Ma il Pascoli fu anche un militante politico. Auspicava una società che tutelasse i più deboli e trovò rifugio nelle idee anarco-socialiste di Bakunin, Andrea Costa e Carlo Cafiero.
Fa parte della sua poesia anche questa vicinanza al popolo. Dalla sua casa di Caprona amava che si avvertisse la sua vicinanza alla povera gente. La quale, pur deferente per la sua fama, lo avvertì sempre come uno del popolo. Dovunque andasse, sapeva mescolarsi alla gente. Qui succede a Massa, dove ha ricevuto la cattedra di greco e latino, trasferendovisi da Matera: “Da bevitore qual era, infatti, cominciò a frequentare le osterie e le mescite della città, bazzicate da cavatori e lavoratori del marmo. Con loro entrò subito in sintonia, sia per apprendere meglio il lessico gergale, toscano, con flessioni liguri-romagnole, sia nel gustare il vino delle ‘verdi colline di Candia’, un nettare che non gli faceva rimpiangere il moscato di Matera e ancor meno il Lambrusco della sua terra.”.
A lui i barghigiani fecero comporre la memoria che si trova affissa nella parte sinistra dell’ingresso al bellissimo Duomo di Barga.
Si sapeva che la sua vita non era stata e non era facile. La morte (“lo sparviero”) aleggiava da sempre intorno a lui. Accade che muore anche Giacomo, il fratello maggiore, che li aveva accuditi dopo le morti del padre e della madre. Aveva 24 anni, una moglie e due figli. Come la sorella Margherita, era stato colpito mortalmente dal tifo. La guida della casa gravava ora sul poeta, che aveva da badare alle sorelle Ida e Maria e ai fratelli minori Raffaele e Giuseppe (“un fannullone mezzo sbandato”): “Purtroppo Giovanni non poteva badare a nessuno di loro; anzi, neppure a se stesso, perché conduceva una vita disordinata, da studente fuori corso, sospeso fra un’utopia rivoluzionaria e una disperata e continua ricerca di mezzi di sopravvivenza. Con la morte di Giacomo era svanita, fra l’altro, anche la possibilità di pagarsi le tasse universitarie e riprendere gli studi. Se ne tornò perciò a Bologna affranto e disperato. Fu costretto anche a mendicare per tentare di pagare una parte del debito accumulato per il fitto e rimediare qualche scodella di minestra calda ed un bicchiere di vino. Furono giorni terribili tanto che una sera d’inverno, infreddolito per la neve e prostrato dallo sconforto, tentò il suicidio. Stava con i gomiti appoggiati sul muretto di protezione che costeggiava il fiume della città. Si sentiva solo ed abbandonato. Voleva buttarsi nel Reno e farla finita. Ma sentì la voce di sua madre morta. E si salvò.”; “Infatti se la vita di Giovanni adulto, dipende ancora da sua madre, egli non può decidere della sua esistenza come crede. Non può suicidarsi, come non può neppure continuare a vivere senza di lei.”; “Le crisi angosciose del Pascoli, dunque, erano la conseguenza dei suoi sentimenti ancestrali di dipendenza verso sua madre. Nel suo cuore erano rimasti vivi più che mai.”.
Placido ci sta narrando anche il Pascoli anarchico-socialista, tenuto d’occhio dalla polizia. Il quale non mancava di scrivere sui giornali dei movimenti rivoluzionari, come il “Martello” e “La Plebe”, inneggiando alla rivoluzione proletaria.
Se richiamiamo alla mente la malinconia di cui è intrisa la poesia del Pascoli, ci domandiamo da dove egli seppe estrarre questo entusiasmo che mirava a distruggere la società del tempo per farne sorgere una nuova, ispirata ad altri valori: “Era considerato, insomma, un sovversivo pericoloso per le istituzioni dello Stato e per l’ordine sociale.”; “Furono anni di miseria per il giovane Pascoli, ma vissuti con l’orgoglio di chi nutriva un’intensa passione politica che lo animava sempre più e che condivideva con fierezza con gli altri compagni dell’Internazionale.”.
Finì anche in carcere per le sue idee.

È una parte, questa di natura politica, di forte interesse, poiché mette in luce aspetti poco noti ai lettori del Pascoli, che si soffermano in specie sulla sua poesia, dalla quale è sorta la sua fama. Placido, che della politica si è interessato ricoprendo cariche importanti, ne intuisce l’importanza per la formazione complessiva del poeta, il quale, anche nel vedere compromessi ed irraggiungibili gli obiettivi prefissati con i suoi compagni, ne trasferisce la dolorosa e triste esperienza nei suoi versi: “Ed accanto ai dubbi politici cominciarono a serpeggiare anche i rimpianti personali. Si rammaricava di aver abbandonato gli studi universitari e di non aver approfittato di alcune situazioni favorevoli per riprenderli; di non aver dato le minime garanzie al tutore per avere altri anticipi di denaro; di aver trascurato i rapporti con persone amiche che avrebbero potuto aiutarlo. Erano tanti i pensieri che lo assalivano durante le ore del giorno. Durante quelle insonni della notte gli accadeva di peggio. Era tormentato da un senso angoscioso della sua esistenza, compromessa dall’incertezza dei valori per cui si era speso e dal marchio del carcere. E si sentì solo.”.
Sono accadimenti che potrebbero apparire esterni al poeta Pascoli, e invece influenzarono, e non poco, la sua poesia. Da una visione straripante della vita, da una energia esasperata che non vuole lasciarsi sfuggire nulla, si addiviene ad una poesia intima, sussurrata nel dolore.
Non avremmo la poesia del Pascoli se non fossero stati vissuti, nel modo esaltato in cui egli li visse, quegli anni in cui si attendeva con fiducia in Italia una grande rivoluzione proletaria.
Le conseguenze, comunque, furono sempre pesanti. Era un giovane controllato dalla polizia, ormai marchiato a fuoco. Gli si impediva di muoversi liberamente: “Ogni tentativo di procurarsi un lavoro appariva sospetto ai tutori dell’ordine e, perciò, rischioso per chi avrebbe dovuto offrirglielo. L’attività giornalistica, nonostante la sua bravura, gli divenne problematica da svolgere. Ancora più difficile fu per lui ottenere supplenze o impartire ripetizioni. Era stato assolto ma era marchiato. Era libero, ma impossibilitato a scrivere decentemente e a pagarsi gli studi, mentre la necessità di laurearsi era per lui una priorità assoluta. Soltanto laureandosi, avrebbe potuto infatti guadagnarsi da vivere ed iniziare una nuova vita.”.
Chi poteva immaginare tra i suoi contemporanei che dietro la sua poesia ci fossero, congiunte e mai distinte, queste due vite: una esaltata dagli ideali e l’altra funestata dagli insuccessi, da una feroce delusione e dalla miseria!: “A dargli lo slancio necessario per ricominciare gli studi e terminarli con lusinghieri risultati fu proprio quindi l’impellenza economica, non disgiunta da un notevole scatto di orgoglio, sopravvenuto dopo le sue drammatiche e fallimentari esperienze di vita vissute.”.
Sarà il successo negli studi, dove apparve sempre eccellente (“Egli, infatti, sin dai primi mesi di scuola, si rivelò un piccolo genio.”), ad aprirgli le porte della libertà e a dargli sicurezza per l’avvenire.
Finalmente poteva pensare anche alle sorelle, Ida e Mariù, a cui non aveva più scritto e che si trovavano chiuse in collegio. Ricevette una lettera da loro; uscivano per andare a vivere con la zia Rita. Giovanni sarebbe andato a trovarle: “Quando Giovanni rivide le sorelle, stentava a riconoscerle. Non erano più le bambine d’un tempo, erano diventate due signorine, due belle signorine dall’aspetto grazioso e gentile. Mentre gli venivano incontro, restò stupito e quasi a disagio nel vederle così cambiate e già donne. Non riusciva a sciogliere l’imbarazzo che provava. Furono loro a trovare il coraggio di abbracciarlo con gioia. e lui, ancora più stupito di quel duplice abbraccio, ebbe ancora un attimo di turbamento. Poi si commosse e le riabbraccio a sé, più forte di loro.”.
L’autore ci fa capire che rari furono i momenti di sicura felicità del poeta. Anche nei giorni successivi all’ottenimento della cattedra a Matera, egli era angustiato dal pensiero di non poter prendere con sé le sorelle, onde formare insieme quel ‘Nido’, che si erano ripromesso. Andava soggetto a frequenti crisi di malinconia: “Con il passare del tempo imparerà a conviverci e a trasferirle sul piano della sublimazione artistica. Ed è così che nacque la sua vera arte.”.
Placido valorizza anche, a questo proposito, l’amicizia del Pascoli con Severino Ferrari, che durò fino alla fine, e grazie alla quale si accrebbe la qualità artistica di entrambi: “Il Ferrari inviava al Pascoli le sue poesie affinché le leggesse, ne esprimesse il suo parere ed apportasse eventuali ritocchi o modifiche. il Pascoli dedicava ad esse gran parte del suo prezioso tempo e sosteneva che l’ausilio dato all’amico era utile è necessario a se stesso più che all’altro.”.
Severino, afflitto dalla sifilide, finirà in manicomio: “Morì a Pistoia a soli 49 anni, nella casa di salute per pazzi di Collegigliato.”.
Fu un editore lucchese, Raffaele Giusti, a capire la portata rivoluzionaria della poesia pascoliana. Fece uscire “Myricae” e, con ciò, dava inizio al percorso letterario del grande poeta e al suo successo: “Raffaele Giusti, con il suo fiuto aveva capito alcune cose. Si era reso conto che la poesia di quel professore romagnolo composta da paesaggi dimessi e familiari, raffigurati con una semplicità di modulazioni espressive, sarebbe risultata gradita e piacevole al lettore comune. Non solo. Occultava qualcosa. A un navigato uomo di mondo quale lui era, non era sfuggito che nell’anima dell’uomo Pascoli il presente s’imbrigliava nel suo passato. Una contraddizione che, ancora latente, prima o poi sarebbe esplosa.”.

Placido ci fa seguire la vita reale del poeta, annotando le difficoltà che incontrava, le tristezze che lo aggredivano all’improvviso, il culto della madre, vero e proprio anello di congiunzione tra la sua umanità e la sua arte, le preoccupazioni per le sorelle Ida e Mariù con le quali aveva costruito il suo Nido, una specie di fortino dei sentimenti. La poesia che sgorga dall’artista appare, in questo modo, palesemente legata alla vita reale, sì che il poeta non traccerà mai un segno separativo e mescolerà la sua condizione di uomo con quella dell’artista.
Una scelta felice, questa di Placido, che rende il libro prezioso per gli interstizi che rivela, nei quali sono nascosti i palpiti e i segreti frutto della vita reale e quelli che, da essi generati, sono diventati un’opera poetica: “Le perdite e le pene sofferte non ebbero, comunque, in lui immediate conseguenze. Dopo i lutti, si collocarono in posizione di attesa per esplodere successivamente.”.
Con il matrimonio della sorella Ida con Salvatore Berti, il tanto amato Nido riceve un colpo fatale: “ormai ritenuto distrutto.”. Pascoli non gradisce quel matrimonio, vorrebbe trattenere ancora Ida nel Nido. Deve cedere, ma il suo risentimento è grande: “Egli si era preoccupato fino all’eccesso, indebitandosi a più non posso, che tutto fosse predisposto secondo la prassi cerimoniale dei matrimoni dell’epoca. Compì scrupolosamente i doveri di sua spettanza come fratello maggiore e capofamiglia. Nulla era venuto a mancare quel giorno, né agli sposi né agli invitati. Tranne la sua presenza. Nonostante le insistenze di amici e parenti, egli, inspiegabilmente, non volle partecipare né alla cerimonia religiosa, né al ricevimento. Se ne stette tutto il giorno rinchiuso nel suo studio. Arrivata, poi, l’ora della partenza, si presentò agli sposi. Come se la sua assenza non si fosse né notata, né fatta sentire. Quindi li accompagnò alla carrozza per un affettuoso ‘Addio’.”. Quella notte stessa tornò a pensare al suicidio: “dormì con la pistola sul comodino.”; “Seguì, nei giorni successivi, una crisi di nervi durata più di una settimana, e quindi la decisione, improvvisa, di trasferirsi da Livorno a Castelvecchio di Barga.”.
Alcune pagine sono dedicate alle donne amate dal Pascoli (Lia, Emma, Imelde, e soprattutto Erminia, conosciuta sin dall’infanzia) ed al difficile rapporto avuto con esse, in quanto percepite come estranee all’idea di Nido che ha sempre occupato la mente del poeta.
Quella di Placido è una bella prosa, e rivela, accanto alla capacità di analisi dei testi, la qualità di narratore. Un narratore dalla scrittura fluida, dal linguaggio semplice e comprensibile. Scrivendo di Erminia, essa si manifesta in tutta la sua luminosità. Fu un delicato amore quello tra la bella tessitrice Erminia e Giovanni, un amore riservato, intimo. Ma un giorno apprende che Erminia non è più a San Mauro ma è stata portata a Rimini, poiché gravemente ammalata. Prima che morisse rinunciò a vederla per conservarne l’immagine da viva: “Non attese la sua agonia finale. Così non la vide da morta. Né partecipò al suo funerale. Se ne tornò quel giorno stesso a Bologna.”.
Tutto ciò ebbe ripercussioni sul suo carattere e ne accentuò malinconia e pessimismo. Ebbe qualche altra infatuazione: “Ma il legame che stabiliva di volta in volta con ciascuna di esse non suscitava emozioni di amore. Anzi, lo slancio iniziale del suo desiderio verso la donna di turno si affievoliva man mano che cominciava ad avere la certezza di essere amato, fino a quando non cessava del tutto. Insomma, allorché allo stato di tensione che lo aveva spinto a cercare l’amore per un’altra donna subentrava il momento di amarla veramente, la sua sensibilità si attutiva, si smorzava per poi svanire.”; “Il mio ‘Per sempre’, io lo avevo promesso ad Erminia, che è morta.”.
Pascoli ebbe sempre paura della morte, la temeva ma il momento arrivò anche per lui. I forti dolori addominali che lo perseguitavano da anni e che si erano intensificati, rivelarono che egli era affetto da cirrosi epatica, causata dal troppo bere: “Egli, come è noto, era stato un gran bevitore. Beveva di tutto ed in tutte le occasioni sin da giovane. Quando era studente si trattava di bicchieri strappati agli spiccioli che aveva, agli amici più abbienti, o agli osti, a volte in cambio di sconosciuti e non sempre graditi versi. Brindava alla rivoluzione o per allontanare la malasorte e la miseria che lo tallonava. Non erano bevute che poteva permettersi di frequente, ma quando poteva erano abbondanti. Dopo, da professore, quando ebbe un salario mensile e un reddito cospicuo per i suoi successi letterari, le bevute aumentarono notevolmente di numero. Nei momenti di sconforto, e non erano pochi, faceva addirittura ricorso al laudano o all’assenzio, che avevano un notevole effetto tossico.”.
Si arriva al giorno della morte: “Pascoli il Sabato Santo del 1912, il 6 aprile, non si svegliò dal dolce sonno se non per una breve agonia. Poi gridò ‘mamma’, emise il rantolo della morte e tornò da lei.”.


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Bart