LETTERATURA: Virgilio Brocchi: “Il posto nel mondo”, 192015 Giugno 2019 di Bartolomeo Di Monaco Il romanzo appartiene al ciclo narrativo “Figliuol d’uomo”, uno dei molti cicli di cui Brocchi fu autore. Finalmente Pietruccio si libera del padre e apre un’officina per conto suo, “ma quel lavoro troppo umile di fabbro (…) lo scorava e gli metteva nel cuore il disgusto del suo mestiere e l’inquieta aspirazione a salire. Verso qual segno non sapeva.”. Dunque, è confermato che questo è il percorso formativo del ragazzo. Quel lavoro è transitorio e lo esercita solo per alleviare le fatiche e le sofferenze della mamma e delle amate sorelle Nella e Rina. L’occasione per cominciare un po’ a studiare, gliela dà l’amico Scipione Manuzzi, il ragazzone che lavorava con lui ad Albano, dal fabbro Decio Battilasso, il quale è venuto a Roma per prendere lezioni di canto, poiché ha una bella voce, ma gli occorre anche dell’istruzione. Per il tempo necessario, lavorerà alla bottega di Pietruccio e dormirà con lui dalla sua mamma. Studieranno insieme, e la sorella Nella, ormai prossima a prendere il diploma, le farà da maestra. Più si va avanti nella storia, più ci si accorge che vi è un filo deamicisiano che non l’abbandona mai. La scrittura si sa controllare e il sentimento non ridonda, ma affiora con misura. Con il padre Stefano, gli altri della famiglia non riescono più a viverci insieme, così che si trasferiscono dal nonno materno Bastiano Maresi, che lavora le terre del padrone Filippaccio Frezzi, il quale li accoglie amorevolmente. Presso il nonno vive anche il fratello di Giulia, Giovanni Maresi, il pittore, con la moglie Teresa. Lì, l’atmosfera è del tutto diversa: affettuosa e calda. Vi troviamo brani di una prosa che sa pennellare ambiente e sentimenti. Questo è il bel ritratto di don Ambrogio Favotti, il curato di Santa Maria delle rondini: “aveva preferito per umiltà e indolenza invecchiare nella chiesola silenziosa tra le cascine sparse in mezzo alla campagna. Era alto e quasi esile nella veste nera abbottonata dalla gola ai piedi e serrata alla cintola da una larga fascia di seta. Non portava mai il cappello a falda; un nicchio leggero appena posava sui soffici capelli, fini e bianchi come il piumino del cigno, sotto cui si arrotondava un bel volto pacato di vegliardo.”. Si avvertono echi manzoniani. La stessa quiete stilistica, la stessa precisione nel dettaglio. È don Ambrogio che, quando Giulia, la madre di Pietruccio, andrà a trovarlo, ci farà capire che la donna non è sposata con Stefano Barra, ma è convivente; perciò, se Stefano si sposasse con l’amante, quello sarebbe il matrimonio legittimo: “E se sposasse quella disgraziata? Davanti a Dio, essa sarebbe la moglie legittima: e tu poverina…”. Una tragedia, che promette di impedire. Il peregrinare di Pietruccio trova un momento di approdo grazie a don Ambrogio, che si prende cura di farlo studiare. Come prima il ragazzo camminava con le proprie gambe girando di paese in paese, ora è la sua mente che naviga in mezzo ai marosi ogni volta che pensa allo sbocco dei suoi studi. Che farà? Il medico, il cantante, il musicista, il fabbro, il coltivatore, l’ingegnere, l’esploratore? Intanto ammira suo zio Giovanni che fa il pittore e ha dipinto un grosso quadro che spera di vendere per pagare i suoi debiti. Ma non ha successo e torna a casa sconsolato. Su Pietruccio, invece, cominciano ad indirizzarsi le attenzioni di don Ambrogio per persuaderlo ad entrare in seminario. Nasce tra lo zio Giovanni e Pietruccio una intensa affinità, proprio nel momento in cui le due vite paiono in antitesi. Il pittore deluso, divenuto anche vedovo per la morte di Teresa, e il ragazzo, a cui la vita si sta aprendo, si legano di una forza spirituale che li fa soffrire e sperare insieme: “Pietruccio s’era fatto lui il protettore del fanciullo desolato che era diventato Giovanni”. A proposito di Pietruccio: “Giovanni non lo sentiva estraneo alla propria desolazione, né fuori dell’insondabile abisso in cui egli viveva.”. Ma con il passare del tempo, questa affinità viene travolta, dura lo spazio di un mattino. Il dolore per la morte di Teresa è così forte che lo zio ne è piegato e si uccide. Tutto ciò si rivelerà come una specie di trapasso per Pietruccio, il quale, preso da un assalto di misticismo, entrerà così in seminario, dove subirà ogni sorta di dispetti da parte dei compagni, giacché, essendo pronipote del canonico e filosofo Agostino Maresi, in odore di apostasia, verrà considerato una specie di indiavolato. Qui incontriamo un’altra eccellente descrizione: quella della vita in seminario con le sue regole a volte eccessive e le conseguenti indiscipline degli allievi. Il nostro protagonista, però, non ha ancora trovato la sua strada. Frequenta il seminario per imparare musica, e a chi gli domanda se si farà prete cerca di non dare una risposta diretta. Alla sorella Nella dice: “Non ho mai promesso a nessuno di farmi prete.”. È in seminario che per la prima volta, dalla voce di due sacerdoti, sente parlare di proletariato e di socialismo. Si stanno formando i primi circoli cattolici in antagonismo con quelli socialisti. Pietruccio vuole prendervi parte. È uno spaccato che poi non troverà uno sviluppo più approfondito e più articolato nella storia, come non troveranno sviluppo altri filoni tra cui quello dell’amore di Scipione per Nella. Uno dei migliori seminaristi, Nino Beroldi, gli pone la questione dell’esistenza di Dio, poiché ne invoca un segno, che non viene. Pietruccio è assalito, così, da problematiche spirituali e sociali di grande spessore per la sua età. Questa parte del romanzo rappresenta con una nostalgica bellezza un mondo che non c’è più. I primi movimenti operai, le prime richieste di giustizia sociale, le ribellioni, i seminari pieni di novizi (a cui erano vietate amicizie troppo strette, come a Pietruccio con l’amico Lino Roccelli), i sacerdoti quali maestri di formazione di molti giovani, sono sezioni di un grande quadro che ebbe in quegli anni i suoi vividi colori. L’autore riesce mantenere un tono narrativo di costante robustezza, dimostrando di sapersi esprimere con proprietà e garbo in ogni situazione: “per riscaldarsi i seminaristi pestavano i piedi, saltavano, lottavano, si battevano forte il torso incrociando le braccia a manate.”. Difficile immaginare come sia stato possibile che questo romanzo, che può stare alla pari, ad esempio, con quelli di un De Amicis, sia scomparso del tutto dalla nostra nomenclatura letteraria. Anche l’esperienza del seminario fallisce. Pietruccio viene cacciato giacché i suoi pensieri si discostano da quelli della Chiesa. Ne parlano per una settimana i giornali. In famiglia si è tristi. Tranne la sorella Nella che lo accoglie sorridendo e gli dice che è meglio tornare a fare il fabbro piuttosto che farsi prete. Legge le opere dell’ex canonico in odore di eresia Agostino Marresi, il quale, lo ricordiamo, è suo parente per parte di madre. Ne è invaghito. La sua fede è ormai vacillante e per lui comincia un cammino tutto speciale, che non è più quello alla ricerca del mestiere da esercitare nel suo futuro, che pure resta, ma il cammino della sua fede la quale a poco a poco, con strappi dolorosi, si sta sradicando dalla sua mente e dal suo cuore. Avrà un incontro importante con lo zio Agostino Marresi (cugino del nonno Bastiano), un vecchio di ottantacinque anni, che si mostra affettuoso e intenzionato a consigliarlo, e da questo incontro trarrà la forza per tornare dalla madre e dirle che è cambiato e non andrà più alla messa domenicale (ma più avanti troveremo: “alle undici usciva di casa per correre in Duomo ad ascoltare la messa cantata.”). Tanto questo incontro quanto altre scene che si aprono all’improvviso a siparietto rivelano una straordinaria capacità narrativa dell’autore, il quale sa tenere e variare con leggerezza i fili della sua storia. Si pensi, ad esempio, alla cena in una povera trattoria di Milano, dove Pietruccio si reca con il padrone di suo nonno, Filippaccio Frezzi, simpatica e vivida: lo spilorcio Filippaccio dirà all’ostessa: “Al ragazzo il formaggio non piace: datene una porzione a me; ma tenero, perché ho tre denti soli, lunghi ma non troppo sicuri.”. O alla parentesi di vita trascorsa con il giovane povero e malaticcio Andrea Vietti. Non dobbiamo dimenticare che il percorso formativo di Pietruccio, che è in cerca del proprio destino, resta sempre legato all’amore verso la sua famiglia, in specie il nonno, la madre e le due sorelle, così che esso non è mai dipendente da una ambizione personale, bensì da un sentimento nobile di attaccamento alle proprie radici: “quel buon preside che vedeva già in lui un grande uomo, mentre egli si accontentava di diventare un uomo, ma al più presto possibile, per sollevare il nonno, per aiutare la mamma ed allietare la vita delle sorelle.”; “Nonno, ti giuro che non ti dovrai mai vergognare di me.”. Entrato in una manifattura tessile, viene notato per la sua bravura e vi fa presto carriera. Ciò che seguirà è un intreccio di sventure e di avventure, ma ciò che conta è che finalmente, con il lavoro assicuratogli dall’amministratore della fabbrica Franco Varzi, Pietruccio ritroverà la sua serenità e il piacere del vivere.
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