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Lista Monticarlo, la paura fa 9,90: zero seggi alla Camera sotto il 10%

9 Gennaio 2013

di Roberto Scafuri
(da “il Giornale”, 9 gennaio 2013)

Roma – No, Sigmund Freud non era un fesso. «Sono sceso dal piedistallo – ammette Mario Monti nell’ennesima passerella su Tgcom 24 – mi sono messo dalla parte degli esclusi ».
È il nuovo profilo di comunicazione, ulteriore mutazione genetica del Prof, la cui eccessiva compostezza finora non ha bucato il video, né suscitato entusiasmi. Quel che invece rischia di trapelare dalla seconda parte dell’affermazione, è la paura che serpeggia tra supporter, amici veri e profittatori del trampolino montiano. Restare, dopo le urne, dalla parte degli «esclusi ». Dal Parlamento.

Paura registrata anche dal sensibile termometro di Dagospia, secondo il quale fa 9,9 per cento: è la quota che impedirebbe alla coalizione di superare lo sbarramento del 10 previsto alla Camera. Su quali presupposti si basa la fosca previsione? Anzitutto sul mancato sfondamento di SuperMario, la cui salita in campo – dopo una riuscita creazione dell’attesa (in pubblicità, un toccasana) – ancora ieri era rilevata dai sondaggi con un misero 5-6 per cento. Aggiunto al 5-6 storico di Casini, al 2-3 stimato per Fini fa appunto il totale di 12-15 per cento. Quota lontana da qualsiasi possibilità di vittoria, ma sufficiente a fare il Ghino di Tacco al Senato. Da qui la cocente delusione di Eugenio Scalfari (allergico a ogni ricordo craxiano) e la rabbiosa pretesa di Casini nei confronti di Bersani («Sarai premier solo se vinci al Senato »).

Bene, anzi male. Perché nel frattempo, Bersani da un lato e Berlusconi dall’altro hanno cominciato a stringere il Prof in una morsa: politica e mediatica. In particolare Berlusconi, sottovalutato ancora una volta dagli osservatori internazionali (erano convinti che bastasse mettere un Monti nel cannone per avere la pelle dell’orso), accordandosi con la Lega ha cambiato non poco lo scenario, soprattutto al Nord. Se la rinata compattezza del centrodestra riconquisterà elettori nelle regioni di tradizionale forza (Lombardia, Veneto, Campania e Sicilia), essa tornerebbe ben al di sopra del 30 per cento. Il centrosinistra di Bersani è accreditato quasi al 40, Grillo tiene tra il 13 e il 18, Ingroia tra il 3 e il 5. Si evince che spazio per un altro dieci per cento non c’è, come ha intuito bene Corrado Passera. E come stanno capendo anche alcuni sostenitori del Vaticano. Brusca la frenata degli ultimi giorni, con un ultimo tassello aggiunto ieri: l’imbarazzato annullamento del Forum di Todi, dal quale gli organizzatori avevano deciso di voler tenere fuori Monti. Anche per questo il Prof ha cominciato a usare il Pontefice persino in chiave di risalita elettorale: «Ha ragione il Papa, c’è troppa differenza tra ricchi e poveri », ha detto.

Lo scenario di débacle totale alla Camera inquieta molto Casini che, guarda caso, si farà candidare al Senato (qui nomi eccellenti ed ex parlamentari possono valere il superamento dell’8 per cento in più di una regione). Dopo uno sfibrante braccio di ferro con Monti e Fini per le liste, il capo Udc ieri ha fatto buon viso a cattivo gioco: «Siamo un po’ indietro, ma il clima è ottimo e va bene tutto quel che decide Monti ». Il rifiuto di quote per la quarantina di seggi a Palazzo Madama (Casini ne voleva 15, i montiani dieci in tutto per Udc e Fli) ha fruttato al Prof la mano libera. «Lasciamolo fare, dobbiamo fidarci di lui, altrimenti finisce che restiamo tutti fuori » è stata la bandiera bianca di udicini e finiani che, estromessi i «portatori di voti », non possono certo contare sul voto d’opinione. Così Monti ha potuto tirare fuori dal taschino i suoi primi fiori all’occhiello: il direttore del Tempo, Mario Sechi, la fiorettista olimpica Valentina Vezzali, Alberto Bombassei (patròn della Brembo), Luigi Marino (Confcooperative) e la presidente del Fai, Ilaria Borletti Buitoni. Nomi eccellenti per puntare allo «scudetto dei poveri », la salvezza.


Pisanu: “Stato-mafia, nessuna trattativa ma intesa con uomini di Stato privi di mandato”
di Redazione
(da “la Repubblica”, 9 gennaio 2013)

ROMA – Non ci fu una vera trattativa tra Stato e mafia. I vertici istituzionali non sapevano. Ma ci furono servitori dello Stato che, pur privi di un mandato, ebbero contatti con pezzi di cosa nostra per giungere a un’intesa per fermare le stragi. E’ quanto afferma Beppe Pisanu illustrando in Commissione antimafia le conclusioni dell’inchiesta sulla presunta trattativa Stato-mafia e le stragi del ’92-93. Evidenziate precise responsabilità nell’Arma dei carabinieri per convenienze strategiche, il sospetto che politici siciliani si siano attivati per favorire l’intesa spinti dalla paura di fare la fine di Salvo Lima. Ma si parla anche degli attentati a Falcone e Borsellino, tante ombre e una quasi certezza: cosa nostra non agì da sola.

“Sembra logico parlare, più che di una trattativa sul 41bis, di una tacita e parziale intesa tra parti in conflitto”, afferma il presidente della Commissione antimafia, “possiamo dire che ci fu almeno una trattativa tra uomini dello Stato privi di un mandato politico e uomini di Cosa nostra divisi tra loro, quindi privi anche loro di un mandato univoco e sovrano”. “Ci furono tra le due parti convergenze tattiche, ma strategie divergenti – spiega Pisanu – i carabinieri del Ros volevano far cessare le stragi, i mafiosi volevano svilupparle fino a piegare lo Stato”.

“I Carabinieri e Vito Ciancimino – prosegua Pisanu nella sua analisi – hanno cercato di imbastire una specie di trattativa; cosa nostra li ha incoraggiati, ma senza abbandonare la linea stragista; lo Stato, in quanto tale, ossia nei suoi organi decisionali, non ha interloquito e ha risposto energicamente all’offensiva terroristico-criminale. Inoltre va detto che nessuno dei vertici istituzionali del tempo ha mai pensato di apporre il segreto di Stato su quelle vicende”.

“I vertici istituzionali e politici del tempo, dal Presidente della Repubblica Scalfaro ai Presidenti del Consiglio Amato e Ciampi, hanno sempre affermato di non aver mai neppure sentito parlare di trattativa. Penso che non possiamo mettere in dubbio la loro parola e la loro fedeltà a Costituzione e a Stato di diritto”, aggiunge Pisanu.

Rimane tuttavia “il sospetto che, dopo l’uccisione dell’Onorevole Lima, uomini politici siciliani, minacciati di morte, si siano attivati per indurre ‘cosa nostra’ a desistere dai suoi propositi in cambio di concessioni da parte dello Stato”, aggiunge Pisanu nella sua relazione. In particolare Calogero Mannino, ministro per il Mezzogiorno nella prima fase della trattativa (lasciò l’incarico nel giugno del 1992), avrebbe preso contatti al tal fine col Comandante del ROS Generale Subranni.

Su Mannino “pende ora una richiesta di rinvio a giudizio per il reato aggravato di minaccia a un corpo politico, amministrativo e giudiziario. Analoga richiesta, ma per un periodo diverso, pende su Marcello Dell’Utri. Occorre anche ricordare che Nicola Mancino, ministro dell’Interno dal giugno 1992 all’aprile 1994 è stato indicato, per sentito dire, dal pentito Brusca e da Massimo Ciancimino come il terminale politico della trattativa. Il primo lo indica stranamente associandolo al suo predecessore Rognoni che, peraltro, aveva lasciato il Ministero dell’Interno nel 1983, nove anni prima dei fatti al nostro esame; il secondo è un mentitore abituale”.

Ascoltato dall’Antimafia, Mancino “è apparso a tratti esitante e perfino contraddittorio. La Procura di Palermo ne ha proposto il rinvio a giudizio per falsa testimonianza. Le posizioni degli ex ministri Mannino e Mancino sono ancora tutte da definire in sede giudiziaria: una semplice richiesta di rinvio a giudizio non può dare corpo alle ombre. E’ doveroso aggiungere che l’On. Mannino è uscito con l’assoluzione piena da un precedente processo per concorso esterno in associazione mafiosa. Formalmente la trattativa si concluse nel dicembre 1992 con l’arresto di Vito Ciancimino”.

Un mese dopo, il 15 gennaio 1993, fu arrestato il “capo dei capi” Totò Riina. “Se i due arresti fossero riconducibili in qualche modo alla trattativa, quale sarebbe stata la contropartita di cosa nostra? La mancata perquisizione del covo di Riina e la garanzia di una tranquilla latitanza di Provenzano che, proprio per questo e per prenderne il posto, avrebbe venduto il suo capo? E alla fin fine, quale sarebbe stato il guadagno dell’astuto mediatore Vito Ciancimino? Allo stato attuale della nostra inchiesta, non abbiamo elementi per dare risposte plausibili”, conclude Pisanu.

Il presidente della Commissione antimafia si concentra poi sull’attentato di Capaci che costò la vita a Giovanni Falcone, sollevando ulteriori interrogativi. In quell’azione fu necessaria una “speciale competenza tecnica per realizzare un innesco che evitasse l’uscita laterale dell’onda d’urto dell’esplosione e la concentrasse invece sotto la macchina di Falcone. Mi chiedo: ‘cosa nostra’ ebbe consulenze tecnologiche dall’esterno?”.

Nella sua relazione finale Pisanu un aspetto finora inedito o dimenticato della uccisione di Giovanni Falcone a Capaci.”Sulle scene degli attentati e delle stragi, abbiamo visto comparire, qua e là, figure rimaste sconosciute, presenze esterne: da dove venivano? Gruppi politico-terroristici come Falange Armata rivendicarono tempestivamente degli attentati di cosa nostra: come si spiega?”, si chiede il Presidente.

Quanto all’attentato che uccide Paolo Borsellino, “solo negli ultimi anni è stato scoperto il gigantesco depistaggio delle indagini su Via d’Amelio, depistaggio che ha lungamente resistito al tempo e a ben due processi: chi lo organizzò e perché furono lasciati cadere i sospetti che pure emersero fin dagli inizi?”.

“Potrei continuare con domande analoghe – osserva Pisanu -. Ma queste mi bastano per dire che, a conclusione della nostra inchiesta, non si sono ancora dissipate molte delle ombre che avevo già intravisto nelle mie comunicazioni alla Commissione del 30 giugno 2010. Noi conosciamo – conclude Pisanu- le ragioni e le rivendicazioni che spinsero cosa nostra a progettare e a eseguire le stragi, ma è logico dubitare che agì e pensò da sola”.

Le stragi di mafia contribuirono ad avere “effetti destabilizzanti dell’ordine democratico: se nel ’92-93, come in altre fasi di transizione, si mise in opera una strategia della tensione, cosa nostra ne fece parte” afferma Pisanu. In quegli anni cosa nostra “fu parte, per istinto e per consapevole scelta, del torbido intreccio di forze illegali e illiberali che cercarono di orientare i fatti a loro specifico vantaggio”. Perché “indebolire lo Stato significava renderlo più duttile e più disponibile a scendere a patti”.

Oggi cosa nostra “è ancora forte e temibile”, rileva in presidente dell’antimafia, “le sue armi tacciono, ma essa è presente nelle fibre della realtà siciliana e lì continua ad agire in profondità, distorcendo le regole dell’economia, le relazioni sociali e le decisioni politiche”. Ma, aggiunge Pisanu, “dobbiamo riconoscere che dagli anni ’80 a oggi ha perso nettamente la sua sfida temeraria allo stato, perdendo inoltre prestigio nei confronti della ‘ndrangheta e delle altre organizzazioni criminali internazionali, anche grazie al salasso continuo dei sequestri e delle confische dei beni”.


Qui la reazione di Ingroia.

Qui Antonio Di Pietro. Estraggo:

“Poi c’è la parte dello scambio meno evidente, anzi ovviamente sotterranea: la convivenza, i segreti, l’omertà di Stato, le telefonate intercettate da distruggere ad ogni costo, la protezione richiesta dal ministro dell’Interno dell’epoca Nicola Mancino (che disse, in una delle telefonate note, di non voler rimanere con il cerino in mano).”


Sulla relazione di Pisanu, anche qui.


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Bart