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Rivista d'arte Parliamone
La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

Marotta, Giuseppe

7 Novembre 2007

L’oro di Napoli    

“L’oro di Napoli”

Bur, pagg. 272. Euro 8,20

Nella prefazione scritta dall’autore è dichiarato l’intento di questo libro, che vuole essere un omaggio alla madre, morta lontana dalla sua Napoli e sepolta in un cimitero della periferia di Milano, dove d’inverno “bisogna rompere col temperino il ghiaccio nei portafiori, versarvi altra acqua che gelerà poi”. Dunque questi che leggeremo sono metaforicamente i fiori veri, raccolti in quel Sud amato e che, deposti sulla tomba, resisteranno alle rigidezze di ogni inverno. Alla madre riserverà parole d’amore. “io se vivo e lavoro non faccio che scrivere lettere d’amore a te, madre”. Tale tenero, appassionato ricordo impregna di sé il libro. La madre, con la sua triste sorte, con la dolorosa sopportazione delle sue sventure, diventa a poco a poco la stessa Napoli. La pazienza, la capacità di quel popolo “di rialzarsi dopo ogni caduta” sono l’oro di Napoli. Così è la madre; e non solo lei: don Ignazio Ziviello è un altro esempio, nato perfino gobbo non si è mai arreso alla sventura, come pure la nonna dell’autore, Teresa: “un odore di ingiustizie accettate o debiti rimessi o tentazioni respinte, un odore che significava: sia fatta la volontà di tutti”, o il vecchio Palombo: “non rifiutatevi alle disgrazie che Dio ha scelto per voi”. I ricordi (“Venite avanti”, in una specie di nuovo “Spoon River”), nel mentre riportano in vita persone e affetti, ne colorano lo stile, che si carica di sentimento e di rassegnata nostalgia. Lo scriverne non libera, infatti, l’autore da questa pania nella quale è imprigionata e patita la sua esistenza: “giornate simili stanno in noi senza mai consumarsi”. Forse un piccolo limite che accompagna l’avvio del libro, e che in qualche modo resta segnato anche in talune pagine successive, per un affetto troppo grande che il tempo trascorso non è riuscito a circoscrivere: “Rivolgo improvvisamente il discorso in dialetto napoletano a settentrionali di molto riguardo, imbarazzandoli e (spero) commovendoli un poco.” In ogni caso, non assistiamo al solito refrain di una città lordata dalla miseria, dalla crudeltà malavitosa, dalle ruberie (tratti che saranno dipinti da altri scrittori negli anni della Seconda guerra mondiale e dell’immediato dopoguerra; qui invece siamo intorno al ‘20), piuttosto all’affermazione di un convincimento che Napoli è così, e non la si cambia, giacché tutto il florilegio dell’esistenza è in lei, al punto che, si domanda l’autore: “Napoli è un modo di nascere di vivere di morire anche in Groenlandia?”. Nel momento in cui questo pensiero si afferma, l’autore prende le distanze dalla storia, diventa osservatore della scena, e i personaggi acquistano finalmente, a poco a poco, tutti i colori e le luci della loro densità, a partire dalla sapida vicenda di don Rosario Pugliese e dell’anello di diamanti perso dalla bella e infedele moglie Sofia. Si susseguono, da questo punto, ritratti di vita assai gustosi che cambiano radicalmente la fisionomia del narratore che, messi da parte i languori propri del ricordo nostalgico, si veste dei caratteri divertenti, ironici, lepidi e carezzevoli di chi vede nel mondo un grande palcoscenico, dove l’umanità esibisce tutto il repertorio della sua tragicomica esistenza. Don Corrado Alvaro, faceto inventore di piccole fesserie che riesce a vendere anche in Portogallo e fino in Nuova Zelanda, il cui doppio nome tramandato fino a lui deriva dalla opportunità per i suoi avi di non scontentare né la dinastia sveva né quella aragonese, può essere indicato tra i momenti di più arguta creazione di una maschera rappresentativa di una tale disinvolta, furbacchiona, resistente e pertinace umanità, che sa giocare pure con la morte. Ma sul palcoscenico di questa commedia salgono protagonisti di tutto rispetto e altrettanto emblematici di una napoletanità sparsa in ogni dove, fuori dei confini della stessa città, e che trova in Napoli il centro della sua più perentoria, matura, divertita, e anche tragica espressione. Napoli se stessa, dunque, ma anche simbolo di tutti noi, ancora una volta: “quando cominciamo ad abituarci alla città di Napoli è già venuto il nostro tempo di morire.” Il capitolo “San Gennaro dei Poveri”, confermerà una tale interpretazione. E quando, più avanti, incontriamo i carrettini rudimentali coi i quali i ragazzi fanno le corse per i saliscendi della città, non ci diciamo che sono stati anche i nostri? E le madonne che piangono o si risentono per l’abbandono dei loro fedeli, non hanno riempito e riempiono il mondo? Il romanzo ha un altro passo ora, e ci ritroviamo a leggere noi stessi con la stessa ilarità o lo stesso dolore con i quali l’autore ci ha a lungo osservati: un po’ come le novelle del Boccaccio, lustrate di toscanità, sono il ritratto dell’agire nostro sotto ogni latitudine. Lo scugnizzo Guarracino, o Nicolino Giraci, a cui la vita riserverà poi un triste destino, che quando lo scolaro Marotta fu nominato capoclasse, lo fermò all’uscita della scuola e gli disse: “Non sono in collera con te. Anzi. Ma ho deciso che quando fanno un capoclasse io lo picchio finché non si dimette.”, il conte Prospero – personaggio di cui il cinema si è impossessato con uno strepitoso Vittorio De Sica – il quale, incallito giocatore, passa le sue giornate a perdere con un ragazzino di sette anni, Antonio Criscuolo, e ci si arrabbia, non riuscendo nemmeno a imbrogliarlo (notevole l’incipit della partita), o il vecchio bagnino don Annunziato Scarlone che, forte della sua fama di numerosi salvataggi portati a buon fine, se ne sta sonnecchiando sulla terrazza, disposto a muoversi da lì soltanto se “capitano bufere e pericolanti che mi valgano”, o il guappo don Ciccio Sgambati, uno dei tanti padrini – antichi e moderni – sparsi ad ogni latitudine: “dirimeva vertenze; fissava il prezzo di certe derrate; puniva e premiava”, sono testimoni di quella parte di noi che Napoli ha saputo estrarre dagli anfratti della nostra coscienza. E così via, fino al “pazzariello” don Peppino Cammarota, o “l’avvocatuccio” don Gennaro Siviero, detto “il paglietta”, o don Raffaele Caserta, disegnatore di quadretti votivi che, tradito dalla bella moglie, l’accompagna al taxi e, nel lasciarla, all’autista dice: “Dove la signora desidera”. E il guantaio don Luigino Gargiulo, detto “lo squarcione”? E il fabbricatore di fruste don Pasquale Esposito, espertissimo nel “pernacchio”? Lo jettatore Nicola Angarella – al quale nel cinema ha dato il suo volto il grande Totò, come del resto al “pazzariello” – non è da meno: “aveva appena detto a un argentiere di San Biagio dei Librai ‘C’è qualcosa che non mi piace nel giornale di oggi’ quando scoppiò la guerra del 1915”. Incontriamo, ossia, gli uomini che hanno fatto e fanno la Napoli che Marotta ci descrive e ci tramanda – non tralasciando, quando è il caso, di sorriderci su – come hanno formato e formano il mondo intero: una napoletanità universale, dunque, che – punto equidistante essa stessa dell’universo, – trova la sua propria centralità nell’uomo, che è, infatti, il vero protagonista di ogni storia, e al cui volto e al cui carattere anche le tradizioni e le usanze più disparate sono asservite: città eretta a capitale del genere umano, perciò, il quale, aiutato dalla sua bellezza e dal suo sole, in lei raggiunge la più compiuta e multiforme espressione grazie, qui, ad una galleria di ritratti, alcuni dei quali impareggiabili, da cui trae forza il libro, dalla struttura assai semplice e, forse per questo, discreta, misurata e piacevole.


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Bart