Micheli, Silvio7 Novembre 2007 Pane duro   “Pane duro”Einaudi, 1946, pagg. 636 Questo romanzo vinse, nello stesso anno della sua pubblicazione, il 1946, insieme con Umberto Saba (“Il canzoniere”), il Premio Viareggio, ma chi ricorda tanto il libro che il suo autore?  Silvio Micheli nacque a Viareggio il 6 gennaio 1911, e restò sempre legato alla sua terra, nella quale contribuì ad alimentare i fermenti di rinnovamento che spiravano un po’ dovunque nel Paese, soprattutto dopo la caduta del fascismo e la fine della guerra. Negli archivi della Casa editrice Einaudi si conserva questa lettera che Cesare Pavese gli indirizzò nel 1945: P/572 Torino, 11 giugno 1945 Caro Micheli, la Sua lettera mi fa un grande piacere. L’apprezzo e Le sono grato per tutto quello che scrive. È appunto nostro intendimento – di Einaudi e di noi collaboratori diretti – collaborare alla costruzione del nuovo assetto economico-sociale, verso quel benessere collettivo, frutto del lavoro collettivo. Anche noi odiamo la letteratura falsa e borghese, e se fin dal ’43 il Suo romanzo ci ha interessato fu perché ci sentimmo un polso e un respiro fraterni. Ora succede che a Roma non pare si trovi il Suo manoscritto. Probabilmente è andato buttato dalle S.S. al tempo delle perquisizioni e degli arresti (nov. ’43) che costarono la vita al più caro dei miei amici: Leone Ginzburg. Spero che Lei ne abbia copia e possa apportarvi tutti quei ritocchi che riterrà necessari. Mi auguro però che non tocchi l’ultima parte, già perfetta. Attendo con ansia il Falansterio. Indirizzi sempre qui a Torino. Quanto alle riviste a cui collaborare, per ora ci sono soltanto le due romane: Risorgimento (pubblicata da Einaudi stesso, di varietà politica e culturale e amena, con sede in Via Uffici del Vicario 49) e Aretusa (pubblicata da De Luigi, Via dei Sabini 7, diretta da Carlo Muscetta, nostro redattore). Io avvertirò subito Roma; Lei scriva appoggiandosi su di me. Combinerà certo qualcosa. Intanto stanno nascendo altre riviste in tutta Italia, e ci sarà certo da lavorare. Caro Micheli, voglio conoscerLa al più presto. Lei non viene su di qua? Cordialmente Pavese Anche Italo Calvino nutrì molto interesse per lo scrittore. “Pane duro” nasce ispirato da questa fervida atmosfera di denuncia e di speranza. La sua ambientazione è nel tempo che precede immediatamente la Seconda guerra mondiale: “La guerra bussava alle porte. La Germania era già in guerra con le nazioni vicine. Erano tempi duri e mio figlio piangeva sempre per il freddo.” fino ai mesi subito dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Una vita assai modesta frustra le ambizioni di un impiegatuccio di provincia, che ogni giorno, recandosi al lavoro, maledice il destino che gli impedisce una vita migliore per sé, la moglie e l’unico figlio. Ama i libri e, “malato di un’ansia indefinibile, con lo sguardo che cercava il mondo”, avrebbe voluto fare lo scrittore. Spesso si lamenta che ognuno non possa “fare quello che sente di fare” e immagina che un uomo grigio, “che ricordava sempre la miseria, che insegnava a stendere la mano, che cercava la verità per dire pane al pane e vino al vino.”, gli stia sempre accanto a dialogare con lui e a dargli la speranza che un giorno sarebbe tornato al suo paese: “O uomo grigio, o uomo grigio!” Come tutti i narratori versiliesi, anche Micheli si avvale di una scrittura spontanea, che attinge al parlare quotidiano e che ha i suoi maestri certamente in Pea e in Viani: “allora aveva dunque fiducia, fiducia in me, in quello che io sarei stato capace, ed io che credevo.”, oppure: “e non a noi che invece si rendevano indispensabili.” o : “Rondini pensai gremite nello spazio, i miei pensieri rondine.”, con l’uso frequente di parole gergali. E in più: una rapsodia (particolarmente insistita nel capitolo X, nella conclusione del capitolo XVIII e nell’avvio del successivo), una dolcezza e una musicalità che esploderanno nel coetaneo Mario Tobino (che è del 1910, di un anno più grande, dunque. Difficile che questi non abbia avuto presente il libro di Micheli quando scrisse “Il deserto della Libia”, pubblicato appena sei anni dopo, nel 1952). Scrive nel bel capitolo IV, allorché, in cerca di un “grònciolo” di pane per il figlio affamato, incontra il mendico “Manica a Vento”: “Una piccola figura rabberciata di stracci, curva dalla parte del braccio come se la mancanza dell’altro lo sbilanciasse.” Si potrebbe definire, questo romanzo, la storia, e meglio ancora, il coraggio di un sogno. Il protagonista, ossessionato dalle gravezze della vita, con la moglie che fatica ad arrivare alla fine del mese con i pochi soldi del marito, ha però un solo pensiero dominante: egli riuscirà a superare tutto questo e un giorno potrà tornare a casa e dire con orgoglio alla moglie: “Moglie mia, moglie mia che ti dicevo?”, hai visto? Ce l’ho fatta! L’essere tutto il giorno “strumento nelle mani di un padrone che ci sfruttava sino all’osso” ferisce il suo sentimento di uomo libero. È la sua condizione di sottoposto, che deve rinunciare ad una parte della propria libertà e del proprio io, che lo assilla: “Ora soltanto un grande romanzo ci avrebbe salvati.” La moglie permalosa e brontolona, sarà lei a regalargli per il suo compleanno un blocco di carta e una matita. Così si mette a scrivere il romanzo e quando lo ha finito si sente pieno di orgoglio e si meraviglia che nessuno per strada si accorga che è diventato uno scrittore. Dunque, gli stenti e le contrarietà quotidiane della vita e le fantasticherie di un sogno si trovano a vivere in simbiosi in questo personaggio, nel quale l’anelito alla libertà e alla indipendenza economica (“soprattutto io non farò più vita di ufficio. Mai più!”) si lega al forte desiderio del ritorno alla sua terra, da cui il bisogno lo ha allontanato: “Chi mai ci avrebbe dato la possibilità di ritornare al paese lontano? Non certo il mio lavoro d’ufficio.” Lo avrebbe riscattato il romanzo: “Lo so, so bene che soltanto un romanzo potrebbe salvarci.” Sono gli anni in cui ancora ferveva e resisteva la speranza di poter affidare ad un romanzo il proprio destino (ricordate Jo di “Piccole donne”, di Louisa May Alcott, del 1868?), contrariamente a quanto avviene oggi, almeno qui in Italia, dove non sono certo i romanzi – salvo rarissime eccezioni – a fare la fortuna di uno scrittore. Micheli ripercorre gli entusiasmi, le illusioni, le sconfitte di un esordiente, che non hanno perso nulla delle loro verità . Intanto, mentre è in attesa della risposta dell’editore, nel suo ufficio ha un compagno sfortunato, con una moglie e quattro figli a carico, che contribuisce ad accrescergli, con le sue confidenze, il disagio sociale che già è operante in lui: “Era una litania che durava a lungo e batteva sempre quel tasto: la situazione familiare, il dente impossibile, la malvagità dei padroni che succhiavano sino al centesimo il sangue dei poveri operai. L’aveva col fascismo, diceva che era tutto un bluff, che ci avrebbe portato alla guerra e alla rovina.” Quando la lettera dell’editore arriva, vi è scritto: “Caro ed egregio signore, abbiamo letto con viva attenzione “Aspra terra” e benché in esso appaiano dei pregi di buon augurio, tuttavia non ci appare sufficiente per accoglierlo nelle nostre pubblicazioni.”, che è un po’ la formula che viene usata anche ai nostri giorni, e nella quale il protagonista si getta a capo fitto per scovarvi il sentimento di una lode al suo romanzo: “Mi dava l’impressione che, nella sua semplicità , si dovesse nasconder quel certo qualcosa che io non riuscivo bene ad afferrare.” È l’occasione per riflettere. Forse deve scrivere un romanzo che non si limiti a denunciare le angherie e lo sfruttamento dei padroni, ma quelli ben più saldi e onnipotenti del sistema: “su la condizione di tanta povera gente trascinata nel male, nel vizio e nella corruzione per colpa di un sistema.” Uomini come il protagonista che cosa chiedono in fondo alla vita? Mica di diventare ricchi, ma di poter “soddisfare le esigenze puramente necessarie.” La nascita di questo romanzo tanto desiderato, e voluto con ostinazione, assume così a poco a poco il significato di un riscatto possibile del protagonista, e non solo, ma anche “di tanta povera gente”. Scrivere, infatti, ha un senso solo se ci si rivolge alla verità , guardandosi intorno e rifuggendo dalle astrattezze, assumendo per proprio il mondo di “quella folla che riempiva le strade, gente che io non conoscevo, che non avevo mai visto, ma che sapevo di lei come di me: noi eravamo tutti legati a una stessa catena, tutti servi e niente più.” Lo sguardo di Micheli si allunga così sulla realtà della povera gente, una prostituta, un ladro, un giovane disadattato, colti nell’amarezza del bisogno. Quando l’Italia entra in guerra e su tutti i muri sono affissi i manifesti di chiamata alle armi, il protagonista riflette: “La guerra: perché la guerra, o uomo grigio? Per il sistema, per il sistema che non vuole morire.” E poco più avanti: “Ma il popolo, o uomo grigio, possibile che il popolo si lasci massacrare così? – Il popolo, figlio mio, che ne può il popolo contro la violenza e contro la forza armata dello Stato che vuole così?” Di contro alla prospettiva buia della guerra, che tutto scuote, trasforma e distrugge, Micheli disegna nel capitolo XI e in quelli immediatamente successivi il quadro di una vita elementare e semplice, godibile, pur nella sua povertà . Per risparmiare la spesa del treno, si reca in bicicletta (due ore di viaggio: “Salivo e discendevo dannati colli”) a trovare lavoro in un paese vicino: quel viaggio, a distanza di tanti anni, rivela al lettore di oggi il suo significato di condanna per l’uomo padrone e per il sistema che lo domina, i cui intenti restano distruttivi al pari della guerra. Non è un caso che proprio in questi capitoli ritorna con insistenza il ricordo di un personaggio e di un luogo immaginari narratigli dal mendicante Manica a vento, in cui si concentrano il sogno e l’illusione: la bella Karikara, “bianca come la neve e forte come l’orso” e le isole Ottoteo, dove la si può incontrare: “Io andrò da Karikara. Là nelle isole Ottoteo.” La scrittura di Micheli ci disegna un percorso mai noioso, vivido nei suoi lenti movimenti; gli stessi episodi minuti di vita quotidiana paiono spuntare come colorati germogli da uno spartito diretto sapientemente. Posare lo sguardo sulla scrittura di Micheli è come posare le dita sulla tastiera di un pianoforte. Si pensi, oltre al viaggio in bicicletta dei capitoli XI e XII, al trasloco del mobilio nel capitolo XIV, alla donna perduta del capitolo XVI, e ad altri episodi di vita spicciola che incontreremo più avanti, ai quali Micheli sa dare uno scintillio di rara bellezza. È l’amore di un popolo come quello toscano per la scrittura (“Nel mezzo della piazza c’era una fontana col gobbetto che pisciava.”; “Ero così stanco che mi lasciai andare di sfascio sopra una poltroncina di metallo accosto al muro, presso la porta.”; “il sole scoccava alto dal sereno profondo, pullulato di rondini primaticce.”; “Tramontava il sole sotto un fiato marcio di vento.”; “Ci puzza di cicche masticate. Ogni tanto uno scaracchio schiocca sul pavimento.”) ad ispirare questo autore ingiustamente dimenticato. Le parole gergali sono distribuite in modo da costruire una tessitura nella quale esse risaltano come gemme. Mentre in Viani e Pea, esse intridono di sé l’intero percorso, in Micheli si inseriscono nella scrittura allo stesso modo che un orafo incastona con perizia le sue pietre nel gioiello che sta preparando perché esso risulti, non sfarzoso, bensì armonioso ed elegante: “a quel modo che dalla bruma mattutina escono una alla volta le cose create.” In realtà , questo personaggio che ce l’ha con il sistema, che sfrutta la povera gente, come sempre è stato e forse sarà , è un uomo buono e pacifico, che si culla nel suo sogno e grazie ad esso riesce a sopportare le angustie della vita. Perso il lavoro, ne trova un altro in un paese più lontano; vi si trasferisce con la famiglia e, mentre la moglie, peraltro infaticabile donna di casa, non sa vincere quel suo carattere di indefettibile e risoluta scontentezza (“occhi chiari, occhi ficcati nel silenzio”), lui è sempre accomodante e non riesce a vedere se non un futuro migliore. “Pane duro” è, così, non solo il percorso di un sogno, ma la matrice escatologica di un ottimismo ostinato e prepotente che sta nascosto nel cuore di tutti. La folla, la povera gente, sono rappresentati qui da tutti i personaggi che vengono a contatto con il protagonista, i quali, per contrasto, ne fanno emergere l’aspetto fantasioso e dolorosamente sognante: “Oh, se ognuno potesse fare quello che sente di fare!”, e intriso di speranza: “Io non ho mai rinnegato l’attesa.” La natura contribuisce ad adagiarlo nell’incanto, e allorché, trasferitosi a Castello sul Poggio, in aperta campagna, contempla dalla finestra il paesaggio, egli trova finalmente consolazione e ristoro alla sua anima. La natura è contrapposta, quindi, alla società degli uomini: “Se anche mia moglie mi avesse chiamato, io non sarei accorso. Avrei continuato a respirare i punti lontani del creato, le linee estreme che limitavano un nuovo universo; ero stanco sfinito, ero dimagrato, mi dolevano le congiunture, eppure provavo cose mai provate: cose che ridirle è difficile.” Micheli trasferisce nella dura realtà della vita, la bellezza e la gioia di un sogno e di una emozione, che ne divengono la vera chiave di lettura. La sua diventa “cedevolezza di un essere incantato, pronto a qualsiasi dedizione.” L’anelito della giustizia non cede mai in lui; la giustizia, quella sociale particolarmente, è la sola che potrebbe recare serenità a tutti. La moglie, da quando le sue condizioni economiche sono andate migliorando, sembra più mansueta e felice. Ora sa trovare il tempo per una passeggiata in mezzo alla natura. Perché, domanda allora, all’uomo grigio, “non si deve pensare a migliorare le condizioni di chi lavora?” Gli risponde l’uomo grigio: “perché per stabilire un equilibrio bisogna togliere da un piatto per mettere in un altro.” “Allora la colpa, o uomo grigio, sta sempre lì, sempre nel sistema.” Il suo imbambolamento, il suo ottimismo, la sua intrinseca serenità , non lo allontanano mai dal suo desiderio di vedere un mondo più giusto. Quando respinge la “donna perduta” che gli si offre in una squallida camera, “lei si offese e abbassò il capo senza dir nulla.”; “lei piangeva in silenzio.”; “Pensai alla pena nascosta in quell’essere offeso, vi pensai come non vi avevo mai pensato ed ebbi pietà . […] Allora mi misi a sedere accanto a lei senza pensare più a mia moglie, a KariKara; le presi la mano e la serrai forte nella mia. Mi guardò e sorrise.” Gli occhi di Micheli penetrano negli individui, soprattutto i disgraziati, gli sfortunati, gli oppressi, fino a cercarne e carpirne la bontà . È il motivo che alimenta nel protagonista l’ansia e il desiderio di scrivere un romanzo, a causa dei quali ogni altra cosa, perfino il nuovo lavoro meglio retribuito, gli genera inquietudine e insoddisfazione. Avverte che il romanzo è il suo modo di penetrare dentro se stesso e gli altri: ossia il personale strumento con il quale egli potrà conoscere e comprendere la vera natura degli uomini: “Ogni sera io mi accostavo alla finestra e guardavo lontano, a volte chiudevo gli occhi e scrivevo pagine e pagine.” Mossa dalle piccole, minutissime azioni e angustie quotidiane, l’opera di Micheli si trasforma a poco a poco (“qualcosa come folle silenzio si rimuginava in me, nella mia deplorevole scontentezza.”) in una sottile e profonda analisi dello spirito, con una scrittura e un linguaggio che ne fanno un narratore di indiscutibile qualità . Leggete questa frase: “Si guardava astratti il mare, il cielo: mare e cielo cuciti dal volo dei gabbiani.” La guerra, che si affaccia gradualmente nel romanzo, fa parte di questa analisi, al punto che ne diventa presto dominatrice: “La guerra, figlio mio, la guerra. La distruzione di tutto e di tutti. Che colpa ne abbiamo noi se gli altri si vogliono ammazzare? Invece no. Invece ora ci manderanno tutti al macello.” E appena più avanti: “Pareva impossibile parlare di guerra in quel mese di giugno che caricava di colori i cespi di biancospino, i cespi di rose selvatiche che si arrampicavano su per i porticati sino alle finestre.” Ma la guerra arriva con il suo carico di dolore e di morte. Dalle sofferenze sparse nella minuta vita quotidiana degli individui, si passa così alla tragedia di una collettività , che gli impulsi di dominio e di dissennatezza di pochi trascinano alla distruzione materiale e morale: “gli uomini s’incolonnavano ogni giorno consapevoli solo del pericolo cui andavano incontro, coscienti della causa che dovevano servire, ignari della cagione reale che aveva creato la causa.” La guerra penetra con la sua desolazione e la sua angoscia all’interno delle famiglie. Le madri tremano nel timore che il postino rechi la “cartolina rosa” del richiamo alle armi. Le mogli altrettanto trepidano. Quella del protagonista: “Era ritornata arcigna e raggelante come un tempo, con quel silenzio che escludeva ogni proponimento, che devastava anche certi momenti durante i quali ci si dimenticava di aspettare la cartolina rosa.” Che arriva, implacabile. Il protagonista parte e viene inviato con altri quaranta soldati in un’isola; barba lunga, solitudine, “gli occhi cerchiati di nero silenzio”: “Arrivava due volte al mese il vaporetto cisterna da un porto dell’Albania, a portare acqua e viveri, giornali quando ce n’era.” Micheli affronta la tragedia della guerra attraverso la solitudine (“male primordiale”) e la malinconia generate dalla lontananza: gli uomini non capiscono il perché della guerra, e perché si sia costretti a lasciare la propria casa. La guerra, la faccia chi la vuole, dice il protagonista. La fantasia li aiuta a sopportare quella condizione aborrita, e il protagonista comincia a raccontare – come faceva sua nonna con lui – delle storie inventate, grazie alle quali ridesta in loro il miraggio del sogno. La fantasia, il sogno, (che altro è, infatti, il romanzo desiderato dal protagonista?) restano, dunque, in ogni circostanza, le chiavi preziose che aprono le porte segrete e affascinanti della vita, quelle invisibili, nascoste alla guerra, che nemmeno ci si immagina che esistano. I quaranta soldati “nudi e bruciati dal sole torrido, con gli occhi infossati, cerchiati di nero silenzio”, che, barba lunga fin sulla pancia, sono in attesa (“noi si viveva di silenzio e di attese”) di qualcosa sull’isola (“un comando ignoto, un colpo, un grido disperato.”) sono “Uomini nudi che camminavano adagio, in fila indiana senza sollevare il mento dal petto, in silenzio come dietro un funerale.” Uno di essi è chiamato Pelecche, dal “volto butterato”, un sempliciotto pieno di malinconia: “Quando rideva si sarebbe detto che piangesse, pianto che invece mai voleva sgorgare.” Ma non cessa la speranza, non si allenta il sogno: “Eppure c’è anche un sistema che fa per noi. E allora ognuno potrà fare quello che sente di fare.” Il protagonista lo dice a Pelecche (“il suo corpo di strano animale”), una figura intensamente dolorosa nella quale la guerra non riesce a cancellare del tutto la spontanea fragranza della vita. Come succederà con l’altro soldato, Pelo Rosso (“Notai in quegli occhi l’immensa solitudine e la lotta delle passioni contrastanti. Lui non aveva, come me, da sfogarsi scrivendo.”), al quale il protagonista narra una storia di donne. Sono ritratti nitidi come sculture (“statue, gli uomini”), mossi dal fiato della vita, intarsiati di bellezza (“a volte tutte le barbe si piegavano dalla parte del vento”) e di poesia che, come è stata sempre quella degli scrittori versiliesi, non è mai rassegnata e intristita, ma ruvida e forte. I racconti che il protagonista inventa e scrive per i commilitoni (“Ce lo leggerai poi?”) sono il contraltare alla guerra e la migliore risposta di una vocazione letteraria (“Sai che io sto lavorando per loro?) alla follia: “Ogni tanto entrava uno degli uomini in punta di piedi, sino a me. Senza parlare lasciava sulla mia brandina un foglio qualsiasi, carta gialla, moduli vecchi, bordi di giornale gialli di fango e di sole.” E ancora: “Nella baracca non stava nessuno quando io scrivevo.” Scrivere: per i soldati analfabeti il saper scrivere è un dono, una magia, un incantesimo. Chi ne è investito possiede la chiave per entrare nel cuore della gente. Vanno da lui per farsi scrivere lettere, quasi sempre d’amore. Dalla guerra fuggono così, dunque, aprendosi ai segreti del proprio cuore: “Pensavo ai soldati, alle loro donne, alle avventure, alle speranze. Io dovevo scrivere lettere per i soldati. Frutto dei miei racconti.” Sono rari i romanzi in cui la letteratura raggiunge una così elevata intima missione e penetra nella vita tanto intensamente, frapponendo una barriera alle asprezze dell’esistenza e dischiudendo i forzieri delle gioie, delle passioni, delle speranze che sono racchiuse in noi: “O uomo, perché sei uguale a me?”. E ancora: “Non vi sarebbero più stati sentimenti latenti negli occhi degli uomini da me conosciuti.” Quando il protagonista, partiti tutti dall’isola, si ritrova in mezzo alla guerra, non sono tanto il fuoco e il rumore delle bombe che troviamo intorno a noi, ma il grido martoriato e confuso di un uomo solo, che cammina nel fango, abbrutito e incredulo. Sono i giorni che seguono l’armistizio dell’8 settembre 1943. Micheli sceglie ancora una volta il dolore, la delusione e il delirio intimi, come il risultato negativo più devastante e profondo provocato dalla guerra. Tutto è confuso, tutto è fango: “Sei fango, sei sterco, apri bene gli occhi, omo! […] Era novembre, martedì, 1943, grigio e diaccio, con le nuvole basse pigiate dal vento. […] Camminerò, camminerò come diceva mia nonna nelle fole più belle: cammina, cammina, via e via, monti e valli, mari e monti, via e via. Io ritroverò un giorno mia moglie, ritroverò mio figlio.” Teme anche per se stesso: “Hai tu ancora una matita, un blocco di carta, delle idee con cui farti preziosa la vita?” È un percorso analogo a quello che intraprenderà il lucchese Guglielmo Petroni ne “Il mondo è una prigione”, che è di due anni più tardi, il 1948. Come in Petroni la meta sarà il ritorno a Lucca, in Micheli il ritorno a Viareggio, il ritorno a casa, diventa, dunque, ancora una volta, il solo viaggio possibile per ritrovarsi, riconoscersi e di nuovo ricominciare. La Resistenza, che sta meglio organizzandosi, è anch’essa un nuovo inizio e non è un caso che essa incontri il nostro personaggio sulla via del ritorno a casa. Accadrà a Petroni e accadrà anche all’altro lucchese, Arrigo Benedetti, nel suo “Il passo dei Longobardi”, che è del 1964. In questo incontro la rinascita individuale e quella collettiva vengono significativamente a coincidere. In modo ancora clandestino si auspica con la rinascita un mutamento del sistema sociale, che rechi più uguaglianza e giustizia, e si guarda alla Russia come esempio. L’uomo grigio ricompare sotto le vesti dell’uomo ombra che lamenta la sua miseria provocata dalla guerra e la sua voce si trasforma ancora di più nella voce della coscienza del protagonista. Il sogno che rispondeva attraverso la scrittura e il racconto alla crudezza della realtà e manteneva saldo e libero lo spirito degli uomini, ora si materializza, dunque, in quella necessità di rinascita in cui dovrà avere un ruolo fondamentale proprio lo spirito di libertà che si è mantenuto desto in ciascun uomo: “Uomo ombra, che vuoi da me? Uomo ombra dove sono i poveri che in serate come questa non hanno tetto, non hanno pane, né un sorso di vino per scaldarsi le ossa fredde?” Si formano le prime cellule operaie clandestine, si stampano e diffondono manifesti che proclamano la necessità di un cambiamento. Si avviano i primi scioperi nelle fabbriche di Milano, Torino, Brescia. Il romanzo ha fuso dunque insieme coscienza individuale e collettiva trasformandola in coscienza civile. Il protagonista si trova per caso ad entrare dentro una di queste cellule e osserva il lavoro che vi viene svolto. Si propone per aiutare: “Tutti lavoriamo per una stessa causa, che io non so quale sia, che non riesco a capire ancora. So dallo scritto di Giuseppe che si lavora per il bene dei lavoratori, per una verità che non conosco ancora. Ma una verità ci doveva pur essere. Dovevo dunque sapere, capire anch’io.” Da questo momento cambia lo sguardo del protagonista, o meglio esso acquista una consapevolezza più profonda per ogni ingiustizia che gli ruota attorno, per ogni segno di violenza e di sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Il romanzo di Micheli conserva intatti, a distanza di così tanto tempo, l’anelito e la fede nella giustizia sociale che contraddistinsero i duri anni della guerra. Gli empiti che intercalano l’avvio della parte conclusiva restano tracce preziose, documento, del sogno e della speranza che furono racchiusi prima nella coscienza dei singoli e infine nel sommovimento che sfocerà nella Resistenza, e che si tramuterà presto nella certezza che tutto non sarà più come prima. Lo stile si fa rapido, telegrafico, di attesa. Micheli ha nella novità della sua scrittura, che si è mantenuta originale e fresca a distanza di tanti anni, uno dei suoi punti di forza. Sa variarla, al modo di uno spartito musicale, per scandire i moti dell’anima e i passaggi più delicati della esperienza che va narrando, la quale si sta mutando in carne e sangue, come quando, al termine del capitolo XXVIII, vede gli operai mangiare e bere nell’intervallo del lavoro, mentre lui è ottenebrato e delirante per la fame. Inizia il caos del dopo armistizio. La gente affolla le stazioni ferroviarie, i treni sono stipati fino all’inverosimile. Si cerca di raggiungere casa o luoghi più tranquilli. I tedeschi infuriati intensificano i rastrellamenti, spesso si riesce a scamparla appena in tempo. Ogni tanto dagli aerei alleati piovono le bombe, che riducono cose e persone in un ammasso di macerie e di morti. Nei ritrovi girano travestite spie repubblichine e bisogna stare attenti e parlare sottovoce. Una libertà e una rinascita ancora tutta da conquistare, perciò, e consolidare. Gli ostacoli sono enormi ed innumerevoli. Il pensiero della moglie e del figlio lasciati soli in mezzo alle difficoltà non ha mai cessato di tormentare il protagonista e solo quando li avrà ritrovati per lui la guerra finirà veramente. Il timore dei pericoli a cui immagina che stiano andando incontro, costretti dalla fame a cercare aiuto presso sconosciuti e profittatori, inasprisce in lui il disprezzo per la guerra e per chi l’ha voluta. Ancora una volta, l’uomo è un minuscolo ed insignificante ingranaggio schiacciato da un potere più grande, che non è facile annientare. Nel momento della disperazione è nel ricordo dei giorni lontani, e nella speranza, mai abbandonata, di poter ritornare al suo paese, che la mente corre a rifugiarsi, e di nuovo la fantasia e il sogno sono presenti alla memoria ed impediscono l’abbrutimento e la resa. L’arrivo al suo paese natale, Viareggio, che dà vita al capitolo XXXI, di grande bellezza, s’innesta, dunque, nel tronco della guerra (la città è continuamente bombardata ed è occupata dai tedeschi) come un germoglio di primavera e una liberazione dell’anima. Per tutto il corso del romanzo si è sentito parlare di guerra, ma è qui che la incontriamo densa del suo carico di annientamento e di dolore (“Io mi butto per terra. Le bombe cadono e cadono. Non si ode altro che un fracasso interminabile e il cielo s’incendia come se fosse di celluloide.”), nel momento in cui, cioè, il protagonista arriva al suo paese e ha nel cuore la speranza di incontrarvi finalmente, colà sfollati, la moglie e il figlio. Che è una sapiente contrapposizione tra il dolore e la speranza, tra la morte e la vita; tra una fine: “Il mio paese era quello ed io ero tornato in tempo per vederlo accasciarsi simile a un vecchio finito.”, ed una rinascita: “Ma un giorno io scriverò certamente Diario mio e di tutti.” La scrittura, ancora una volta, fa il miracolo di un mutamento e di una resa ammirevoli, per non dire stupefacenti: “Mi trovai solo sul far della sera nella pianura versiliese che nasce dal mare e si spinge al calcio delle Alpi Apuane. Quindici anni non sono un giorno! Io ricordo d’esserci stato ancora, d’esserci nato e vissuto, in questa verde terra. Qui ragazzi, qui io. Oggi qui ancora, solo solo, lungo l’argine di un fiume come un fantasma. Là c’è il mio paese, la pineta, il mare. Piccole case disseminate tra i campi induriti dal gelo e dalla guerra. L’acqua del fiume gorgoglia tra il falasco, gialla e terrosa. Fa freddo, col sole che barcolla sul filo del mare. Io arriverò al mio paese in silenzio e nessuno mi dirà : – Perdio, sei qua?” La piccola adolescente che compare in mezzo alle macerie provocate dai bombardamenti, “che vuole dimenticare la sua ferita.”, lo sguardo che incontra in quegli occhi fattisi “grandi e profondi” a causa della guerra, quella mano magra che stringe la sua, il denaro che mette in quelle mani perché possa tornare a suonare la pianola e non più prostituirsi, che cosa sono se non la speranza che sorge dal dolore?: “È un carretto tirato da una piccola figura faticosa. Quando mi passa davanti io riconosco la ragazza che trasporta sopra un carretto il suo piano meccanico. Io alzo la mano per chiamarla, ma la mia mano resta in aria finché la forma traballante non scompare nell’ombra della notte.” Federico Fellini farà tredici anni dopo, nel 1959, qualcosa di simile ne “La dolce vita”, allorché deciderà di chiudere un’esperienza di frustrazione e di vuoto con l’immagine di una giovinetta che saluta e sorride all’inquieto e insoddisfatto Marcello Rubini. Letto 2976 volte.  Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||