Il patto con Santander e Jp Morgan. Adesso spunta una lettera segreta28 Gennaio 2013 di Fiorenza Sarzanini ROMA – Un patto tra acquirente e venditore per truccare i conti e far salire il prezzo di Antonveneta. Un accordo non scritto tra gli spagnoli del Santander e gli italiani di Monte Paschi per dividersi la «plusvalenza » di quell’affare. Gli atti contabili, le comunicazioni interne, le relazioni trasmesse agli organi di vigilanza sequestrate otto mesi fa per ordine della magistratura di Siena e analizzate dagli specialisti della Guardia di Finanza, hanno consentito di trovare indizi concreti su questo intreccio illecito. E di aprire una nuova fase d’indagine che si concentrerà sui testimoni da ascoltare. Personaggi che potrebbero conoscere dettagli inediti di quanto accadde nel 2007 quando Santander acquistò la banca per 6,3 miliardi di euro e appena due mesi dopo riuscì a venderla a Mps per 9,3 miliardi di euro con un’aggiunta di oneri che fecero lievitare la cifra a 10,3 miliardi. Un ulteriore miliardo che potrebbe rappresentare la «stecca » aggiuntiva e coinvolge direttamente Jp Morgan. Il patto tra le banche – Sono gli ordini di perquisizione notificati il 9 maggio scorso a svelare quale sia il nocciolo dell’inchiesta. E per quale motivo siano finiti nel registro degli indagati l’ex direttore generale Antonio Vigni e gli ex sindaci Tommaso Di Tanno, Leonardo Pizzichi e Pietro Fabretti. Adesso l’indagine si è allargata coinvolgendo Mussari, il presidente della Fondazione Gabriello Mancini, l’ex direttore generale dell’ente Mario Parlangeli e l’attuale, Claudio Pieri. E con un faro acceso sull’attività di Gianluca Baldassarri, direttore dell’Area finanza fino allo scorso anno. Dopo l’esborso di oltre 10 miliardi e l’accollo dei debiti per ulteriori otto miliardi, bisogna ripianare il bilancio. Le ricapitalizzazioni e i prestiti del Tesoro non sono evidentemente sufficienti. E così i titoli Mps in portafoglio alla Fondazione finiscono in pegno a undici istituti di credito, una sorta di cordata guidata da Jp Morgan che coinvolgeva anche Mediobanca. I finanziamenti arrivano attraverso contratti di Total Rate of Return Swap (Tror) e per questo i magistrati chiedono ai finanzieri di sequestrare le «note propedeutiche agli accordi di stand still siglati con la Fondazione, la documentazione relativa alle contrattazioni che hanno determinato il rilascio di garanzie in favore delle banche o del “Term loan” da parte della Fondazione Mps, la loro novazione, documentazione concernente il ribilanciamento del debito contratto dalla Fondazione ». Le manovre speculative – L’esame dei documenti effettuato in questi otto mesi dimostra che per sanare la voragine nei conti aperta con l’acquisto di Antonveneta furono messe in piedi operazioni ad altissimo rischio come i bond fresh del 2008 e quelle sui derivati. Ma non solo. I magistrati sono convinti che il valore delle azioni sia stato gonfiato dai dirigenti di Mps e che queste manovre speculative siano andate avanti anche negli anni successivi, in particolare tra giugno 2011 e gennaio 2012. Il falso su Jp Morgan – Agli atti c’è una lettera trasmessa il 3 ottobre 2010 dal direttore generale di Mps Vigni a Bankitalia sull’aumento di capitale da un miliardo riservato a Jp Morgan. Dieci giorni prima Palazzo Koch aveva chiesto «delucidazioni circa la computabilità della complessiva operazione di rafforzamento patrimoniale da un miliardo di euro nel core capital ». Vigni risponde che «in ordine all’assorbimento delle perdite Jp Morgan ha acquistato le proprietà delle azioni senza ricevere alcuna protezione esplicita o implicita dalla Banca ». Affermazioni «non rispondenti al vero » secondo i pubblici ministeri che contestano al direttore generale di aver mentito «anche sulla flessibilità dei pagamenti riconosciuti alla stessa Jp Morgan ». E di aver provocato un’ulteriore, gravissima perdita finanziaria a Mps. Mps, distrutti così 15 miliardi dei soci e svenduti i tanti gioielli di famiglia SIENA – Oltre 15 miliardi di euro degli azionisti bruciati in sei anni. E poi la precipitosa svendita dei gioielli di famiglia per rincorrere i costi del gorgo senza fine provocato dall’affare Antonveneta. Così il Monte dei Paschi di Siena ha dilapidato l’investimento degli azionisti e dilapidato i propri beni. E’ il quadro che si ricava dall’esame di due studi. Il primo è opera di Gianfranco Antognoli, viareggino, una vita al lavoro nel gruppo Mps, dove è stato vice direttore generale di Banca Toscana dal 2002 al 2006 e infine direttore generale di Mps leasing e factoring dal 2006 al 2010 quando è andato in pensione. La seconda analisi si deve a Paolo Barrai, blogger fondatore di «Mercato libero », intervenuto all’assemblea di venerdì, tra i primi a mettere all’indice l’affare Antonveneta e impietoso nell’elencare online le tante «svendite di gioielli » Mps che «l’affare » ha imposto a partire dall’anno dopo. Mps, in 11 mesi bonifici per 17 miliardi Dalle casse del Monte dei Paschi di Siena sono usciti, in 11 mesi, otto bonifici per un totale di oltre 17 miliardi con destinazione Amsterdam, Madrid e Londra. L’elenco è agli atti dell’inchiesta della procura di Siena che indaga sull’acquisizione di Antonveneta da parte di Mps ed è uno degli elementi su cui si sta concentrando l’attenzione degli inquirenti. Mps, ecco il documento che svela il “buco” Clientele, soldi agli amici degli amici, finanziamenti alla politica. Ecco sganciata la bomba. «Per essere più espliciti, la Fondazione (Mps, ndr) nell’arco temporale dal 2001 al 2005 si stava comportando come una famiglia che spendeva più di quanto si fosse posto come obiettivo di guadagno nel medio-lungo termine, in altre parole stava erogando non guadagni bensì patrimonio, calcolato a valore contabile, e tali squilibri, se valutati a mercato sarebbero stati anche maggiori, ma la politica di valorizzazione delle partecipazioni della Fondazione stabilita dalla Direzione era di calcolarle a costo storico, e non a mercato data la loro valenza strategica. La voce contabile che distorceva in maniera netta tale calcolo di rendimento era rappresentata dalla partecipazione in Banca Mps che negli anni passati era contabilizzata a euro 1,08, livello molto inferiore ai corsi di mercato… ». Lo sfogo messo nero su bianco è di Nicola Scocca, direttore finanziario della Fondazione Mps fatto fuori all’indomani di una memoria di 8 pagine dove – di fatto – evidenziava un «sistema » anomalo quanto a erogazioni esagerate saccheggiando il patrimonio. Il documento è agli atti dei pm di Siena, che hanno interrogato l’ex direttore finanziario ripetutamente ottenendo informazioni straordinarie sul sistema Siena-Banca-Partito. In soldoni, per quel che ha scritto nel documento e per quanto riferito ai pm, anno dopo anno Scocca avrebbe segnalato ai vertici della Fondazione l’assurdità di spendere più di quanto si aveva in cassa. Propose invano di vendere azioni di Banca Intesa, per rientrare delle perdite. Niente. Quella denuncia, di fatto, lo portò a essere mandato via da Mps col risultato che – come ha ricordato Scocca agli inquirenti – dai 13 miliardi di patrimonio del 2005 si è arrivati al miliardo e mezzo di oggi. Una debacle. Anche su questo sta lavorando la Procura di Siena. Gli inquirenti avrebbero raccolto elementi significativi su condotte fraudolente messe in campo già dal 2007 dai manager Mps per reperire parte significativa dei dieci miliardi di euro versati per Antonveneta e per finanziamenti a favore della Fondazione. Di mezzo ci sarebbero anche interventi per alterare il valore del titolo Antonveneta, tali da configurare il reato di manipolazione del mercato. Caro Bersani, sbrana questi: i compagni padroni del Monte Fino a qualche giorno fa, Pier Luigi Bersani, sereno come un vincitore annunciato, smacchiava i giaguari. Ora il segretario del Pd affila le unghie: «Sbraneremo chi ci attacca ». Un’affermazione quantomeno azzardata perché i guai questa volta nascono in casa. Inutile aggredire chi lo contesta. Basta prendere le dichiarazioni di Massimo D’Alema per capire che il Pd da queste parti ha fatto e fa sul serio. Con la Stampa l’ex premier è stato netto: «Noi, e per noi intendo il Pd di Siena nella persona dell’ex sindaco Franco Ceccuzzi, Giuseppe Mussari lo abbiamo cambiato un anno fa ». Dunque, ancora di questi tempi il Pd muove come pedine i dirigenti dell’istituto. E per D’Alema è normale un intervento del Pd ai piani alti di Rocca Salimbeni. Se poi qualcosa si guasta, è troppo tardi per prendersela con qualche figurante. Mps, Pansa: “Siena non sa più cos’è la democrazia” Ho abitato a Siena dal 2003 al 2005 e adesso vedo accadere il disastro che alcuni amici senesi avevano previsto per tempo. Devo premettere che vivere a Siena mi è piaciuto molto. Sono nato e cresciuto in una provincia assai diversa da quella toscana, eppure ho trovato nella città del Palio tante analogie con la mia patria piemontese. Questo mi ha spinto a conoscere meglio il posto dove avevo scelto di vivere. E oggi mi accorgo di aver imparato qualche verità che a mio parere spiega il dramma del Monte dei Paschi. Prima di tutto, Siena è una città troppo piccola per far fronte ai grandi centri di potere che contiene. Gli abitanti sono poco più di cinquantamila, un numero esiguo rispetto alla presenza di una serie di istituzioni che dovrebbero poter contare su un contesto assai più vasto. Dentro le mura trovi la terza banca italiana, la Fondazione che la possiede, il Policlinico, l’Università, l’Università per stranieri, il complesso delle Contrade, il Palio, la festa italiana più nota al mondo, la squadra di calcio e di basket. E infine un immenso patrimonio d’arte, simboleggiato dal Palazzo pubblico e dal Duomo. Questa straordinaria ricchezza economica e culturale viene gestita da una classe dirigente esigua, quella che può esprimere una città delle dimensioni di Siena, con il solo innesto di alcuni comuni della provincia. Non è colpa dei senesi, naturalmente, ma di secoli di storia. Tuttavia questo squilibrio mai attenuato colpisce un immigrato come in fondo mi sono sentito anch’io. Lo dice il bubbone del Monte. Un colossale istituto di credito gestito soltanto da senesi, i soliti noti, messi in sella dalla sinistra con l’aiuto del sindacato bancari della Cgil. Il vertice della banca è sempre stato roba loro. Sino a quando il rischio di un crac ha reso indispensabile ricorrere a un banchiere esterno come Alessandro Profumo, uno straniero nato a Genova e cresciuto a Milano. Una città piccola e anche chiusa in se stessa. Può sembrare paradossale per un territorio che attrae gente di tutto il mondo. Ma quando ho iniziato a vivere a Siena l’unico contatto con le istituzioni cittadine mi è stato offerto dai capi della contrada dove era situata la casa che abitavo. Mi hanno scritto una lettera che all’incirca diceva: abbiamo saputo del suo “insediamento” qui e ci congratuliamo. Poi indirettamente mi chiedevano di contribuire al finanziamento dell’attività contradaiola. Ho risposto che non intendevo diventare un senese a pieno titolo e tutto è finito lì. Dopo quell’approccio senza esito nessuno mi ha più cercato. È accaduto così anche ad altri immigrati eccellenti, uso l’aggettivo senza boria. Sotto questo aspetto Siena si è rivelata un rifugio felice. Il maso chiuso non si apriva per farti entrare. Ma in compenso ti lasciava in pace. Alla sola condizione che non pretendessi di impicciarmi dei grandi problemi della città, un affare riservato soltanto ai senesi. E neppure delle piccole questioni. Se protestavo per il troppo rumore di notte o per un’auto parcheggiata in divieto di sosta, incappavo in qualcuno che mi replicava: «Stai zitto, terrone! », oppure: «Stai zitto africano, ti manteniamo noi! ». Un altro lato debole di Siena è sempre stato il dominio di un solo partito: il Pci e i suoi eredi politici. La città è una delle più rosse in Italia. Lo è diventata subito dopo la seconda guerra mondiale. Caduto il fascismo, nelle campagne senesi è iniziata una lotta di classe molto dura tra i grandi agrari e i poveri che faticavano nei loro poderi: i mezzadri e i braccianti. Questa contesa diventata cattiva ha causato il trasferimento in città di un proletariato agricolo che ha saputo inurbarsi con intelligente tenacia. Molti sono diventati artigiani, negozianti, ristoratori. Hanno contribuito alla ricchezza di Siena, migliorando anche il loro tenore di vita. Ma la collocazione politica non è mutata. Erano di sinistra e sono rimasti a sinistra. Votavano per il Pci e hanno continuato a farlo, senza rifiutare le successive versioni del comunismo italiano, il Pds, i Ds, il Partito democratico. Ancora oggi Siena è una città che ha un unico colore politico, monocromatica direbbe un sociologo. Dove vige una sola norma: quello che va bene al Pd, deve andare bene anche ai senesi. Non è mai esistita un’alternativa alla sinistra. Negli anni trascorsi in una casa sotto la Torre del Mangia non ho mai incontrato un esponente democristiano, un liberale, un ex missino. Mi sono imbattuto una sola volta in un consigliere comunale che mi ha detto di appartenere ad Alleanza nazionale. Era un signore molto cortese, ma con l’aria per niente combattiva. Si è affrettato subito a spiegarmi che il centrodestra a Siena era impotente, anzi non contava nulla. Poi mi ha offerto un’immagine stupefacente: «Qui comanda ancora un signore con i baffoni, Giuseppe Stalin. Dopo la morte a Mosca, il suo spirito si è trasferito in piazza del Campo ». Di fatto ancora oggi a Siena non esiste una democrazia completa. A decidere quel che conta davvero è un solo partito, il Pd guidato da Pier Luigi Bersani e diretto in loco da oligarchi volitivi, ben decisi a non lasciare spazio a nessun altro. Qualcuno si è mai ribellato davvero a questo potere senza concorrenti? Nei miei anni senesi non ho conosciuto nessuno che avesse voglia di interpretare questo scomodo ruolo. Siena ha visto un solo ribelle. È un giovane intellettuale, Raffaele Ascheri. Poco dopo la metà del Duemila, ha pubblicato un libro che ha dato molto fastidio ai padroni politici della città: “La Casta di Siena. Una radiografia del potere nel territorio senese”. L’edizione che possiedo è del gennaio 2008 e sulla copertina c’è un distico che dice: “Il caso editoriale dell’anno a Siena”. Non si tratta di una vanteria. Il libro di Ascheri è stato un best seller. Non sarebbe mai accaduto se le storie e i tanti personaggi svelati da questa requisitoria avvincente, e molto documentata, riguardassero un’altra città. Un fantasma e un mistero agitano le notti di Siena. Il fantasma è quello del possibile crac del Monte dei Paschi. Il mistero nasconde il percorso che ha portato al disastro la terza banca italiana. Il frontespizio del libro di Ascheri elenca una serie di big, l’ultimo è Giuseppe Mussari, che oggi stanno su tutti i giornali. E la domanda inevitabile è quanti di loro riusciranno a rimanere in sella. Oppure diventeranno soltanto personaggi senza futuro, da narrare in altri libri sul passato della città. Nella Siena che ho conosciuto l’emergere di nuovi poteri non è mai stato possibile. Anche l’arrivo di Profumo e dell’amministratore delegato Fabrizio Viola ha incontrato molti ostacoli. Era vissuto come un trauma, un’insopportabile violenza alla senesità del Monte. Il cambio pare sia stato imposto dalla Banca d’Italia. Non so dire se questo sia vero. Ma è di certo vero che siamo soltanto all’inizio di una storia che può avere esiti terribili. Una conseguenza l’abbiamo già sotto gli occhi: la corsa di Bersani verso Palazzo Chigi si è fatta più difficile e incontrerà molti serpenti sotto le foglie, per usare una vecchia metafora di Bettino Craxi. Tanto che adesso il segretario del Pd dovrà adattarsi a comiziare in qualche grande città italiana con il suo avversario alle primarie, Matteo Renzi. Il sindaco di Firenze aveva battuto Bersani a Siena e in molti centri della provincia: 54,2 per cento contro il 36,9. Forse il giovane Renzi dovrebbe fare anche adesso un comizio in piazza del Campo, a un passo dal Monte dei Paschi. Sarebbe interessante conoscere come la pensa sui fantasmi e i misteri di un paradiso che rischia di diventare un inferno. Sul coivolgimento di Amato e Bassanini, qui. Anche qui. Letto 6170 volte. | ![]() | ||||||||||
Commento by Aristide — 31 Gennaio 2013 @ 11:40
e nessuno si è ancora accorto che nel 2007 tale Natale (vero nome di Oscar) Farinetti era nel CDA di Santander?
Commento by Bartolomeo Di Monaco — 31 Gennaio 2013 @ 11:59
Ne scopriremo delle belle, se qualcuno non riuscirà nel frattempo – come temo – a mettere la sordina al caso “esplosivo”.