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La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

MUSICA: LETTERATURA: I MAESTRI: Cronaca bizantinissima

25 Aprile 2012

di Alberto Arbasino
[da “Quindici”, numero 9, 15 marzo – 15 aprile 1968]

M’apparì â— se non « tutto amor » â— alme ­no tempestivo, segnalare una svolta abbastanza precisa nella sensibilità… Quanti « operatici » rimanevano sbalorditi, « quella notte a Santa Maria degli Angeli » (la notte del Mosé di Ros ­sini diretto da Sawallisch), sentendo arrivare â— sinuosa (finora) come una sensiblerie â— un’ondata di gusto rossiniano passionale, trion ­fante anche tra i verdiani dell’ultimo giorno…

Solo, impressionante, finalmente liberato, il capolavoro di Rossini si espandeva inquie ­tante e immenso fra le vaste arcate dioclezianee della Basilica, monumentale come un Raffaello, e isolato nel semibuio: solo con un fondo grigio leggero, pochi tòcchi di giallo, e tanta, tanta aria intorno.

Oltre l’impressione della riscoperta, però, ancora più decisivo, The Shock of Recognition! Ci si accorgeva che â— ormai â— il disturbo della cattiva acustica è un nemico della mu ­sica assai meno fastidioso e inconveniente dell’irritazione derivante, irrefrenabile, dagli allestimenti pacchiani.

Certo, lo si era già sentito, il Mosé: ma in teatro. Cioè, non lo si era sentito affatto, soffocato da specchi e porporine e altri addob ­bi nel più esemplare San Pietro all’Orto… Un Mosé in casino, insomma. Così come il Na ­bucco: finché viene riproposto sotto forma di padiglione degli orrori, tanto varrebbe (a fin di successo) farlo cantare al pugile Benve ­nuti… Però, criticamente, potrà sollecitare, al massimo, riflessioni come questa: a cosa ser ­ve, a chi, un simile étalage di faraonismo neo-milanese, una volta che siano morti gli abbonati di settant’anni, e siano passati di moda i parrucchieri Vergottini e la sarta Mila Schön?… Intanto, però, il Nabucco, continua a restare un’opera « da scoprire ».

La musica moderna potrà anche invecchiare moltissimo, e prestissimo; o per lo meno, affa ­ticarsi vivamente, lungo tutta la strada fatta per allontanarsi ostinatamente dalle sedi tra ­dizionali e pubbliche della Musica, e poi tor ­narvi a tratti carica di presupposti e di pre ­giudizi… Però, gran parte del repertorio melo- drammatico sta diventando drammaticamente inascoltabile. Le esecuzioni saranno (organiz ­zativamente, sindacalmente, burocraticamente) più serie che non nelle epoche « eroiche »: epoche, probabilmente, sovente vergognose, abbandonate come ci appaiono al « sacro »(?) principio de « l’opera deve andare avanti ad ogni costo »: malinteso fòmite d’orchestrine ridotte e di direttori alcoolici, di cavernosi baritoni e di soprano bronchiali (v., ancora nel ” Giorno ” del 6-3-68, un titolo: « Salvò1′ “ Aida ” sostituendo il maestro ubriaco », come se il Maestro Luigi Mancinelli fosse un precursore del Dottor Bamard…). Infatti, la ripugnanza per le mostruosità in scena riesce ad annullare qualunque ricettività musicale, distruggendo l’attenzione molto più molesta ­mente di un mucchio di ciacoloni spettegolanti nel retropalco.

Numerose opere, si sa, sono nate con una funzione di entertainment socialmente spe ­cifico: provvedere un’abile ripartizione fra recitativi durante i quali si cucina nel palco.

Il risotto e si gioca a tric-trac nel ridotto, e arie che richiamano banchettanti e giocatori alla balaustra, e concertati che sollecitano il moto fisico: mani addosso o tambureggiar di ventagli… Però, senza essere né francescano, né puritano, né bayreuthiano, mi auguro d’av ­vicinare, per qualche tempo, sempre più opere sotto forma d’oratorio, per intenderle meglio, che non sepolte in scena sotto cumuli d’ad ­dobbi triviali e repellenti.

(Forse, infatti, càpita in realtà all’Opera ciò che secondo Pasolini sarebbe accaduto in let ­teratura: « la bomba di carta fatta esplodere dagli avanguardisti sotto il fortino codificato dei valori letterari, vi ha fatto sciamare den ­tro attraverso la breccia un bel gruppetto di letterati di second’ordine: sicché la lettera ­tura italiana è retrocessa in serie B ». Ma le cose non stanno davvero così; e Pasolini lo sa. Un decennio d’attività critica generalmente rigorosa e spregiudicata avrà avuto almeno un effetto: risistemare i valori. Certi equivoci si sono dissipati, e non si scambia più per Arte ciò che era soltanto midcult: tanto vero che oggi lui stesso può parlare con natura ­lezza di « serie B », e venire istantaneamente capito da qualunque pubblico, senza bisogno di aggiungere chiose, né di far nomi. Impre ­cisa sulla letteratura, la sua diagnosi conserva invece tutto il suo peso, come s’è detto, appli ­cata al teatro).

Forse, in fondo, si potrebbero chiudere tutti, per qualche anno, i teatri: come le università in Cina. Ne ricaverebbero solo vantaggi, non è una novità: è un’esperienza già verificatasi (come sempre) in Inghilterra, molti e molti anni fa; e in seguito, le cose sono poi andate benissimo, come ognun sa.

Il Maestro Gavazzeni non deve sentirsi troppo d’accordo con queste osservazioni. Mi invia infatti, con un cortese bigliettino (non so se agrodolce), il suo saggio « La possibilità di un discorso critico su Giordano »; ma fin dalle prime righe m’impunto su un raffronto polemico.

(Esiste, infatti, in qualche misura, una ver ­tigine del mediocre? Me lo domando, con qualche angoscia, innanzitutto per cercar d’in ­tendere le radici della mia costante repulsione per tanti aspetti della cultura italiana « fra i due secoli ». Sarà una revulsione psicologica, una barriera del gusto, una disperazione in ­dotta dai paragoni con le culture che stavano dando Yeats e Pound e gl’impressionisti e i viennesi? Oppure, più semplicemente, non già una stizza, ma un mero disinteresse per la rigatteria dei « minori »?… Non che non tenti: leggo ogni riga dei racconti-saggi di Giulio Cattaneo, li ammiro anche vivamente, ma non posso riconoscermi neanche per un momento nelle famiglie di quei personaggi lì, e torno immediatamente a letture magari inat ­tuali, ma « familiari », come gli epistolari di Joyce o di Strachey).

Gavazzeni dice: si allestiscono mostre di Boldini, e nessuno dileggia Enrico Piceni. Carlo Dossi non è Proust, né Gide, neanche Larbaud… Perché mai si ignorano invece Gior ­dano, Catalani, Cilea, e se ne svillaneggiano gli affettuosi esegeti?

Proporrei a mia volta altri esempi, tentando di ricacciare nel subconscio quello della Chi ­nina Nligone, dopo tutto non spregevole ri ­spetto a Beardsley… Ma un esempio, per avventura, sarà lo stesso: il caso Boldini. Sol ­tanto, qui preferirei rinviare al saggio di Eco, « Il kitsch come boldinismo » (appunto, ap ­punto) in Apocalittici e integrati. In quanto a Dossi, si tratta di statura: a me è sempre parso un eccellente scrittore, molto più im ­portante e inquietante di quei mediocri musi ­cisti « liberty » che m’hanno sempre fatto schifo anche durante i più accesi ed erratici (e per fortuna, presto estinti) trasporti per il Liberty medesimo. E in quanto alla filologia, preferirei spostare il discorso alla saggistica:

il libro di Sanguineti su Gozzano può risultare un godimento anche per chi non si cura affatto di Gozzano. Così come si può restare affasci ­nati dal saggio di Starobinski sull‘Anatomia della Melanconia senza averla mai letta. Ma eseguire il Ratcliff o i Rantzau, come del resto « ripristinare » Faldella o Cagna, temo forte ­mente che equivalga â— neanche alle indagini (del resto eccellenti) di Renato de Fusco sul « Floreale a Napoli » â— ma proprio all’attività di quelle buone signore degli anni scorsi, tanto brave nel raccogliere nei loro negozietti dei falsi vasetti Galle che ormai nessuno com ­prerà più â— dal momento che (così come c’è una Giustizia al mondo) esiste anche una Porta Portese, oltre che del soprammobile, anche della letteratura e della musica… anzi, una Fiera di Sinigaglia delle più tetre… e del resto la vita umana non è poi troppo lunga: si è già perso tanto tempo, a fare gli spiritosi (e io, per esempio, non ho ancora fatto in tempo a leggere né tutto Tolstoj né tutto Sten ­dhal, e vedo l’al di là come un immenso Novissimo Melzi che mi rimprovera d’aver fatto troppe collezioni di scatole di fiammiferi e di etichette d’acqua minerale…).


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