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MUSICA: LETTERATURA: Oriano De Ranieri: “La religiosità in Puccini”

15 Luglio 2019

di Bartolomeo Di Monaco

Se non ricordo male, nessuno finora aveva analizzato così a fondo l’aspetto religioso presente nelle opere del grande musicista, nato a Lucca nel 1858 (battezzato con tutti i nomi dei suoi antenati: “Giacomo, Antonio, Domenico, Michele con l’aggiunta di Secondo Maria”) e conosciuto in tutto il mondo, forse, come scrissi una volta a seguito di una mia esperienza, anche più dello stesso Dante Alighieri. Già questo, muove intorno all’opera del giornalista lucchese, che ha fatto della professione una felice scelta di vita, un interesse speciale.
Chi ama Puccini non può fare a meno di leggerla.

Era o no credente Giacomo Puccini? E nelle sue opere è presente il segno della sua religiosità? Nella introduzione l’autore precisa: “Nel nostro lavoro abbiamo cercato di rilevare, nella vita e in alcune opere di Puccini, i segni della fede.” Già in passato il tema era comparso tra gli studiosi del maestro. Michele Bianchi ne era convinto, traendo la sua conclusione dal fatto che Puccini aveva accettato in punto di morte l’Estrema Unzione. Il critico Michele Girardi la pensava diversamente, accusando il Bianchi di voler proseguire nel tentativo, già avviato da altri, “per guadagnare un’anima alla propaganda della fede.”.

De Ranieri condivide il convincimento di Bianchi poiché “ci sono alcune parole, nelle lettere del Maestro nella fase più acuta della malattia, in cui si invoca chiaramente l’aiuto di Dio.”. Del resto la storia della famiglia è stata sempre legata di volta in volta a quella della Chiesa. A partire dall’antenato Giacomo Puccini, nato a Lucca il 26 gennaio 1712 e giù giù: Antonio, Domenico, Michele e infine il nostro, tutti organisti della cattedrale e autori di testi sacri. Alla famiglia appartennero anche dei sacerdoti: Domenico, nato nel 1769; Michele, fratello di Giacomo senior, che “visse tra il 1714 e il 1782”; “Ma vanto della famiglia fu la serva di Dio suor Maria Luisa Biagini parente dei Puccini, nata nel 1770 e morta nel 1811 a 41 anni, in fama di santità.”; una sorella di Puccini, Iginia, fu monaca agostiniana presso il monastero di Vicopelago (“Purtroppo nel 1999 il luogo sacro fu abbandonato”  e ne è iniziato il degrado) con il nome di suor Giulia Enrichetta. Su questa consacrazione la sorella Ramelde, la preferita di Giacomo (“la più colta delle sorelle e la più sensibile”), pur religiosa, nel “Diario segreto” così si esprime: “Che cos’è dunque questa professione cristiana che mette in pregio la solitudine e il fuggir le cose del mondo per non peccare? Io dico che sarebbe lo stesso non vivere! La vita viene ad essere un male, come una colpa, come una cosa dannosa, di cui dobbiamo usare il meno possibile, compiangendo la necessità di usarne e desiderando di esserne liberati. Che la vita sia un male ce lo dimostra la ragione, ma che possa essere una colpa, questo la ragione non lo dice mai.”. Forse per placarne l’ira e consolarla, Puccini la inviterà, con una lettera del 29 aprile 1904, a leggere la Bibbia (“Leggo la Bibbia, leggila è una cosa straordinaria”); precisa l’autore: “Si sa che Giacomo amava leggere la Bibbia e anche la Divina Commedia. Questo fatto si ricollega a Minnie la protagonista de ‘La Fanciulla del West’ che insegna il libro sacro ai rozzi minatori e cercatori di oro.”.

La secolare vicinanza alla Chiesa, protrattasi per quattro generazioni, non poteva non lasciare qualche traccia in ciascuno dei suoi antenati e in Puccini stesso. Ma De Ranieri vuole approfondire di più, capire se quel sentimento religioso, testimoniato dalla vita reale, abbia nell’ultimo e più famoso discendente lasciato il segno nelle sue opere, così da consegnare quel sentimento all’immortalità. Una ricerca, dunque, di grande rilievo, visto che fino ad oggi Puccini è stato ritratto come uomo amante del bel mondo e delle belle donne.

La sorella Ramelde ci offre un ritratto di Giacomo da bambino, sesto degli otto figli avuti da Albina Biagini, rimasta vedova di Michele a trentatré anni (Michele morì a cinquantuno anni, nel 1864) e trovatasi presto in gravi ristrettezze economiche: “Si camminava alla meglio per una via appena rischiarata da una speranza. Questa speranza per la buona mamma era Giacomo, fornito di svegliatissimo ingegno e di sensibilissimo cuore, ma il benedetto ragazzo, forse per la straordinaria vivacità ed irrequietezza di carattere, non si piegava ad alcun genere di studi.”. Rodolfo Del Beccaro, altro ottimo giornalista lucchese, ci ha lasciato questo ritratto nel suo articolo del 28 febbraio 1957, intitolato: “La Fanciullezza di Giacomo Puccini attraverso il ricordo di due suoi compagni”: “Puccini era un ragazzo sui quindici anni. Sua madre, durante le vacanze lo mandava a Mutigliano a titolo di correzione, giacché era un discolo e ne combinava di tutti i colori. Alloggiava nella canonica della vecchia chiesa, presso il parroco don Giacinto Cantoni che funzionava in tal caso anche da correttore.”. A Mutigliano aveva tre amici coi quali combinava le sue monellerie: Lino Micheloni, Giovanni Morotti e Eustachio Ricci. In una lettera del 1900 indirizzata da Londra all’amico Alfredo Caselli, si autodefinisce “Il guitto organista di Mutigliano”.

Fu iscritto a varie Congregazioni, quella “Minore della Neve” presso la chiesa di Santa Maria Nera e quella di Santa Cecilia presso la chiesa di San Romano, alla quale “appartenevano i rampolli delle più prestigiose casate di Lucca che avevano uno spiccato spirito religioso.”. De Ranieri scrive: “Si può dire che in tutta la sua vita fu attratto dal sacro e dal profano.”.

Le composizioni religiose costituiscono l’inizio della sua attività di autore musicale. Alcune di esse, fa notare De Ranieri, saranno riprese nelle opere della maturità, come il “Kyrie” e l’”Agnus Dei” “recuperati in ‘Edgar’ e in ‘Manon Lescaut’”; “Salve del ciel Regina” “utilizzata poi nell’opera ‘Le Villi’.”; “Crisantemi”, i cui “due temi principali saranno riutilizzati da Giacomo Puccini nell’ultimo atto di ‘Manon Lescaut’.”.

Già a questo punto siamo stati avvertiti dall’autore che vi sono molti presupposti per approfondire il tema della religiosità anche nelle opere più mature di Puccini.

Mi piace riferire una testimonianza riportata da De Ranieri lasciata da un comune amico, il dottore Dino La Selva il quale, medico del monastero di Vicopelago dove viveva la sorella di Puccini, la raccoglie da una delle suore, suor Paolina: “Finito di suonare, prendeva noi suore giovani e si faceva accompagnare per una passeggiatina sul vialetto fino in fondo all’orto. Gli piaceva scherzare e ci prendeva in giro, rideva volentieri. Quando tornavano si sedeva su una sedia nel chiostro, e vi rimaneva a lungo, le gambe accavallate e il sigaro in bocca e ci diceva: ‘Sorelle, che pace avete qui. Com’è lontano di qui il mondo! Come mi piacerebbe restare!’.” (Da Dino La Selva: “Il monastero di Suor Angelica”, in “Rassegna Lucchese”, Nn. 17 e 18, Autunno 1983 – Inverno 1984, pag.44).

De Ranieri ci offre ancora alcune testimonianze di suor Paolina, che ricorda le visite di Puccini al monastero. È interessante quella che si riferisce alla visita del Maestro in occasione della morte della sorella, avvenuta nel 1922, la quale aveva lasciato per il fratello un biglietto scritto a lapis: “Carissimo fratello. Ti lascio, pensa che sei cristiano, hai un’anima da salvare. Spero che ci troveremo insieme in Paradiso. Puccini – continua suor Paolina – raggiunse il monastero al mattino presto. Entrò nella stanza della sorella e vide sul comodino la lettera a lui indirizzata, la lesse e scoppiò in lacrime. Allora noi cercavamo di consolarlo ma invano. Ancora con le lacrime agli occhi mi chiese di preparare una ghirlanda di fiori per la sorella e io con le altre novizie biancovestite esaudii il desiderio del Maestro.”.

Una prima esplicita dichiarazione sulla religiosità di Puccini ce la offre il pietrasantino don Pietro Panichelli, “il pretino”, letterato, “appassionato di musica e buon pianista”, nel suo libro del 1939 “Il pretino di Puccini” (di Puccini fu consulente in materia di religione e del sacro in genere): “Era in fondo un credente, ma non era praticante, essendo rimasta in lui quella che S. Paolo chiama una fede morta.” Quando Puccini morirà il 29 novembre del 1924 a Bruxelles, così si esprimerà nello stesso libro: “Il germe della fede atavica, unito alla tradizione religiosa dei suoi antenati, non era estinto nei taciti sentimenti e nell’anima buona di Giacomo Puccini. Questo germe si ridestò nella lotta formidabile tra la vita e la morte… In quella lotta tremenda nella quale nessuno saprà mai dire che cosa sia passato tra la sua anima e Dio; tra la sua coscienza e la parola del sacerdote cattolico che lo assisté fino agli ultimi istanti della sua vita. Ed è molto consolante per noi aver saputo che Giacomo Puccini spirò coi conforti del Cristiano e col simbolo redentore di quella Croce che rende più grande e più completa la gloria della sua tomba.”. A fronte di una dichiarazione dell’ambasciatore Orsini Baroni, secondo il quale “il nunzio apostolico monsignor Micara impartì i sacramenti, quando il Maestro era già incosciente.”, De Ranieri riporta alcune testimonianze di segno opposto. Scegliamo quella di Giuseppe Adami, scrittore e librettista di Puccini per le opere “La rondine” (1917), “Il tabarro” (1918) e “Turandot” (1924): il Tonio a cui si accenna è Antonio, il figlio di Puccini: “Monsignor Micara è in anticamera. L’ha chiamato Tonio che, ora, curvo sul padre, gli mormora: – C’è monsignore con Orsini Baroni. Faccio passare? – Il Maestro fa cenno che sì. Ma entra soltanto il prelato. S’avvicina al letto. Tonio scivola via. Restano soli Puccini, il sacerdote e Dio misericordioso. Poi entra la suora che l’ha sempre assistito e che egli accarezzava dolcemente e chiamava suor Angelica. Ogni mattina, essa deponeva in un vaso un mazzo di violette che un’ignota ammiratrice lasciava in portineria e la suora diceva che erano le violette che mandava ‘Mimì’. È quasi l’alba. Suor Angelica non reca tra le mani le viole, ma un piccolo crocifisso che accosta alle labbra del morente.”.

Non vi è dubbio, quindi, che “Giacomo Puccini muore cristianamente.”.

Come non vi è dubbio che il trascorrere del tempo, soprattutto dopo la tragica morte della domestica Doria Manfredi suicidatasi perché accusata da Elvira di essere l’amante del marito, aveva accresciuto la malinconia connaturata alla personalità del musicista, il quale all’amica inglese Sybil Seligman scrive, fra l’altro: “questa trasformazione del nostro vecchio mondo, è per me, che sono già avanti con gli anni, una avversità alla quale mi adatterò malamente.”. In una poesia scrive: “Quando la morte/verrà a trovarmi/sarò felice di riposarmi./Oh, com’è dura/la vita mia!/Eppure a molti/ sembro felice.”.

De Ranieri si sofferma su alcune delle sue opere, cominciando da “Turandot”, rimasta incompiuta (“Vicino al suo letto di morte rimasero le ultime trentasei pagine di appunti della partitura di Turandot”) e che, secondo alcuni critici, tra i quali Claudio Sartori, “uccise il Maestro”, presentandoci alcuni versi che, accompagnati dalla sua musica, danno riscontro alla sua inquietudine spirituale; e, a seguire, il “Requiem”, “composto nel gennaio 1905 per il quarto anniversario della morte di Verdi.”, la cui prima esecuzione in pubblico “avvenne a Lucca il 28 gennaio 1973 nella basilica di S. Frediano.”. L’analisi continua poi con “Manon Lescaut”, “La Bohème”, “Tosca”, “Madama Butterfly”, “La Fanciulla del West”, “La Rondine”, “Il Tabarro”, “Gianni Schicchi”, “Suor Angelica”, e di ciascuna ci rammemora la fonte ispiratrice e la trama e ci segnala i momenti di forte spiritualità. Una particolare attenzione si deve riservare all’inquieto personaggio di Tosca che, dopo aver ucciso Scarpia, si getta dall’alto di Castel S. Angelo e “grida: “O Scarpia, avanti a Dio! Si getta nel vuoto fiduciosa di ottenere comprensione da chi la deve giudicare.”. Nonché alla selvaggia Minnie della “Fanciulla del West”: “Ciò vuol dire, ragazzi, che non v’è,/al mondo, peccatore/cui non s’apra una via di redenzione…”. Quest’opera fu molto criticata poiché vi si intravvedeva un sentimento di redenzione forzato e falso, ma De Ranieri riporta un brano della lettera che Puccini scrisse all’amica Sybil Seligman nel gennaio 1910, “quando l’opera era quasi terminata”: “Soffrire è tutto il nostro destino e Minnie è l’unico piacere che mi è rimasto.”. Aggiunge De Ranieri: “Nella ‘Fanciulla’ ci sono personaggi autentici, non certo falsi, personaggi in cui Puccini credeva con tenacia nella speranza di un mondo che andasse oltre le miserie della vita quotidiana.
Un mondo in cui vi era la possibilità di riscatto e redenzione.”. E nella parte conclusiva ribadisce: “Per Minnie, Dio non ricompensa secondo i meriti, ma salva l’uomo peccatore col suo immenso amore.”.

L’esaltazione mistica trova, infine, nell’opera “Suor Angelica”, la sua più alta espressione, con il finale “di Grazia e di Misericordia.”. Ad alcuni critici, come Michele Girardi e Dieter Schickling, il finale appare non convincente; il Girardi, anziché di apparizione, parla di allucinazione che s’impossessa della suora morente; Schickling, se la sbriga sostenendo che quello monacale non è il mondo di Puccini. De Ranieri li castiga ricordando quanto scrive l’amico Carlo Paladini (non dimentichiamo che il Maestro frequentava spesso il monastero di Vicopelago dove si trovava la sorella badessa): “Fu lì proprio nel convento di Vicopelago che Puccini fece udire per la prima volta in pubblico (fosse pure il pubblico delle monache) ‘Suor Angelica’: – Raccontai loro, con incerta trepidazione e con tutte le precauzioni e le delicate sfumature inspirate dall’ambiente e dall’uditorio, l’intreccio scabroso del libretto. Erano tutte attente, tutte commosse e con qualche lacrimuccia esclamavano, compunte e timide ma sincere: – Poverina, poverina! Come fu disgraziata! Dio misericordioso certo l’ha accolta in cielo e l’ha perdonata.”. Puccini continua dicendo che si aspettava “un qualche cosa che sapesse di rimprovero, di riprovazione per il troppo ardimento dell’intreccio… Invece trovai soltanto della pietà, della generosa simpatia cristiana aulente di verace ed edificante sentimento religioso.”. Chiosa De Ranieri: “Le monache agostiniane di Vicopelago erano consapevoli della Misericordia di Dio, come ne era consapevole Puccini. Probabilmente il musicista riconosceva di essere peccatore, ma credeva nel perdono di Dio.”. E afferma: “Con la sua arte Puccini, sommo musicista, si è avvicinato più di altri a Dio.”.

Il libro si rivela, dunque, uno strumento di conoscenza sul Puccini più intimo e nello stesso tempo ci conferma l’amore di De Ranieri per questo grande artista lucchese.

 


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Bart