MUSICA: I MAESTRI: Rossini entra nell’era moderna
28 Maggio 2008
di Franco Abbiati
[dal “Corriere della Sera”, giovedì 29 febbraio 1968]
Siamo forse al punto di tira Âre le somme sul conto del gran Gioacchino Rossini, di cui ri Âcorre il centenario della morte senza che siano stati ancora fissati i caratteri e i limiti di quella che si qualificò la «ri Âforma » dovutagli nell’ambito del teatro in musica, restando sempre da chiedersi s’egli ab Âbia avuto la stoffa del rifor Âmatore o non piuttosto quella del rivoluzionario, se le sue pre Âpotenti facoltà creatrici abbia Âno interessato gli stampi o non piuttosto il contenuto dell’arte. E siamo probabilmente vicini a una risposta definitiva, che crediamo di poter anticipare come segue: Rossini ha co Âstretto le forme e sovvertito i principi del passato prossimo, ma non fu un dottrinario, nel senso che dell’involucro formale, preso dai padri classici com’essi lo coniarono e perfezio Ânarono ed egli adattò a quel Âl’avvenire ch’era nella sua ani Âma giovane; mai non si dette eccessivo pensiero; dunque Ros Âsini non ebbe quale meta pre Âcisa lo scardinamento e lo svuotamento degli schemi e formulari appresi dagli insegnamenti del canonico Malerbi e di pa Âdre Mattei a Lugo di Romagna e a Bologna, però avvertì il bisogno di un loro potenziamento anche e soprattutto spirituale, maturandosene sulle scene un periodo artistico al cui vertice sarebbero stati lui, per un verso, e indirettamente, poco più indietro ne Âgli anni, l’assimilatore e ri Âcreatore perfetto Mozart.
Talché ci sembra di dover tornare alla nostra vecchia idea che mentre Cherubini e Spontini stanno a cavallo di due secoli, partecipando insie Âme del Sette e dell’Ottocento e tingendo di venature romantiche i solidi stampi del classicismo, Rossini entra decisa Âmente nell’era moderna. Ci en Âtra con lo spirito. Ossia edifi Âca con la coscienza disanco Ârata dalle pastoie accademiche dell’enciclopedismo e orientata ben oltre gli splendori effimeri e le conquiste facili di una umanità che un movimento politicamente restauratore e mo Âralmente reazionario avviava sui binari di un’esistenza ope Ârosa ma tranquilla.
Rossini in realtà parve ri Âspondere e rispose in parte ai requisiti di fiduciosa naturalezza espansiva richiesti alla musica italiana dalle platee del tempo. La poetica apparentemente modesta, comunque amabile, di un teatro quale il suo, che la traduceva nell’onda di gaudio vivificante i ritmi scatenati e le melodie sublimi, sembrò misurata sull’esatto livello culturale del pubblico coevo, che vi sentì soltanto ciò che gli era caro, che non vi sospettò né veri né presunti tradimenti dei propri ideali edonistici e tanto meno vi avvertì l’ombra d’una nostal Âgia e il fondo di un’amarezza che pure si nascondevano sotto il riso aperto e confidenziale II pubblico d’allora, e di poi fi Âno a ieri l’altro, applaudì e ba Âsta. E applaudì, fatto salvo il passeggero infortunio della pre Âsentazione del Barbiere, in ra Âgione diretta del grado di co Âmicità per la quale sola Rossini era il più grande di tutti.
Ma siamo al centenario della morte, avvenuta in anno bise Âstile come la nascita, che addirittura cade il 29 febbraio, da tanto che le celebrazioni di Pesaro iniziano oggi. Ed è da cre Âdere che dal nerbo degli sto Âriografi e musicologi invitati per l’occasione nella città na Âtale di Rossini, e in parte già al lavoro per una serie di pub Âblicazioni che usciranno fra bre Âve, esca pienamente realizzato il programma già suggerito dal Bastianelli. Che avrebbe voluto isolare dai presunto «indifferentismo » rossiniano le zone di vero e reale espressionismo drammatico, e illuminare quel Âla luminosa, calda sensualità ariostesca che faceva scrivere a Schopenhauer essere Rossini la volontà stessa di vivere, e riav Âvicinare di lui la parte pretta Âmente musicale al fenomeno virtuosistico della prima fase del sinfonismo: «Virtuosismo da cui non va esente neppure Beethoven ». E altre cose avrebbe voluto chiarire, Bastianelli, che siamo convinti verranno sul tappeto nei prossimi convegni pesaresi siccome pigramente ripetute in passato sulla testimo Ânianza di lavori del maestro particolarmente ambigui, quan Âdo non delle «battute » di spi Ârito tra conviviali e beffarde di un artista che fu tra i più le Âpidi e ancora tra i più simulatori dell’epoca sua.
Cominciando da quella, pure paradossale, che forse porterà a considerare il Barbiere, capo Âlavoro di commedia lirica che apriva un secolo poi chiuso con l’altra svettante commedia liri Âca del Falstaff, come la fotografica «negativa » della tragedia che stava in cuore al figlio del «Vivazza » repubblicano e man Âgiapreti, nonché al semifallito o fallitissimo compositore «se Ârio » del Ciro in Babilonia, del Tancredi, del Sigismondo. Il quale non tarda a prendersi la rivincita nella dozzina d’anni successivi all’ultima opera buffa del 1817, La Cenerentola, al Âlorché le «positive » severe del Âl’estro suo bifronte si accumu Âlano a Napoli e a Parigi con la stesura di melodrammi pseu Âdostorici o mitologici o leggendari che si rifanno alla recente Elisabetta, ma le cui esigenze stilistiche si evidenziano di gra Âdino in gradino salendo da Otello all’Armida, da Adelaide al Mosè, dalla Donna del lago a Bianca Faliero, a Maomet Âto II, Matilde di Shabran e Semiramide. Per attingere, sappiamo, la sommità dello schilleriano Guglielmo Tell.
Le cui forme e proporzioni, che sono quelle dilatate del grand-opéra francese, non impediscono alla personalità del più acclamato operista del pri Âmo trentennio dell’Ottocento di affermarsi con la potenza e l’originalità che fanno del suo terminale monumento « se Ârio » un modello italiano spes Âse volte imitato, non mai su Âperato da alcuno. Vero che il Tell precorre con i suoi con Âcertati l’imminente Norma belliniana, con le sue preghiere corali gli accenti poderosi e commossi del Nabucco di Ver Âdi. Verissimo che nessuno più nella operistica teatrale ottocentesca sorpasserà l’espressio Âne drammatica, però fatta ger Âminare da una cellula lirica conservante il proprio valore musicale assoluto, come ha saputo Rossini, per citare un so Âlo esempio, nel terzetto telliano del secondo atto sull’esplosione di Arnoldo: «II padre, ohimè! mi malediva ». Qui Rossini trasforma radicalmen Âte la parlata, incide e intreccia disegni che hanno del miche Âlangiolesco e che rifiutano i vocalizzi già famosi nel suo canto, così come egli aveva abolito da tempo nelle partitu Âre l’uso dei recitativi secchi. Tutta la parte pittoresca della tavolozza orchestrale, poi, già « rivoluzionaria » nel primo atto ingemmato dalla ouverture folclorico-romantica e tim Âbricamente infuturata, si caratterizza ancor meglio nell’at Âto seguente.
Tavolozza, a non dire delle danze d’una freschezza scin Âtillante e d’un dinamismo ritmico trascinatore, che nel fi Ânale vittorioso sembra antici Âpare gli echi a venire delle perorazioni lohengriniane. Come un arco solare che si configu Âra dall’orchestra incurvandosi nell’atmosfera di serenità estatica e nell’alone di iridate lu Âminosità . Come un suggello di inclinazioni e predisposizioni epico-pittoriche così risolutivo che consiglia a rileggersi con affetto smisurato, ma ancora con un tantino di indulgente incredulità , le troppo umili pa Ârole della lettera da Rossini indirizzata al «buon Dio » do Âpo compiuta nel 1863 la Petite messe solemnelle: « Bon Dieu, la voilà terminée cette pauvre petite Messe. Est-ce bien de la musique sacrée que ie viens de faire, ou bien de la sacrée musique? J’étais né pour l’opera buffa, tu le sais bien! Peu de science, un peu de coeur, tout est là . Sois donc bénj et accorde-moi le Paradis ».
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