LETTERATURA: STORIA: I MAESTRI: Eugenio Montale ricorda gli anni della Grande Guerra
17 Novembre 2008
di Corrado Stajano
[dal “Corriere della Sera”, giovedì 14 novembre 1968]Â
Montale ricorda la grande guerra con lo stesso animo di Fabrizio del Dongo che continuava a chiedersi se ciò cui aveva assistito era una battaglia e se quella battaglia era Waterloo. Solo che il protagoÂnista della Chartreuse di Stendhal ricordava la sua avventura con eccitazione, il poeta invece ne parla malvolentieri, quasi con indifferenza. Sottotenente del 158° fanteria sul fronte del Trentino, partecipò in Vallarsa, nel ’17, a numeroÂse azioni, fu di pattuglia, catÂturò prigionieri, ma la guerra, malgrado l’abbia fatta sul seÂrio, non è un tema che lo inÂcuriosisca particolarmente e che ecciti le sue qualità di conversatore. Se la seconda guerÂra mondiale fa da sfondo, ma di riflesso, alle liriche di Finisterre, la guerra ’15-’18 ispirò a Montale una sola poesia in Ossi di seppia, « Valmorbia », che non è né un grido di doÂlore né una testimonianza ribelle, ma l’evocazione di una veglia silenziosa rotta solo dai razzi che lacrimano fiochi nelÂl’aria: « Le notti chiare erano tutte un’alba / e portavano volÂpi alla mia grotta. / ValmorÂbia, un nome / e ora nella scialÂba / memoria, terra dove non annotta ».
«Non ho memoria di quella guerra », ripete oggi il poeta. «Ritengo che sia stato un erÂrore l’intervento. Quanto ai miei ricordi si confondono: io ho cercato di spiegare a Parise come è la guerra. SeconÂdo lui uno che va in guerra non deve sparare. Capita inveÂce che chi è dentro una batÂtaglia non abbia affatto il senÂso della violenza, che non se ne accorga, che non sappia inÂsomma che cosa sta facendo ».
Gli scrittori italiani, ai quaÂli ho chiesto memorie e giudiÂzi sulla grande guerra, sono d’accordo sul significato proÂfondo che il conflitto ha avuÂto nella loro formazione umaÂna, nel loro diventare adulti. Giovanissimi combattenti, di diversi orientamenti politici e culturali, ora considerano tutÂti la guerra ’15-’18 come un violento test che non si è esauÂrito in quei tre anni, ma che ha continuato a porre nel corÂso della vita tutta una serie di interrogativi e di esami di coÂscienza ai quali è stato indispensabile rispondere.
Mi racconta Giuseppe Raimondi che il significato più vero e più profondo della guerÂra cominciò a chiarirsi in lui da uomo fatto, anzi nel pieno della maturità . Classe 1898, arÂruolato nel genio zappatori nel febbraio ’17, dice che fra i diciassette e i vent’anni era difficile capire cosa fu quella guerra che poteva sembrare come uno stato di incerta traÂsformazione del carattere. TutÂto gli si chiarì dunque più tardi: le cose più importanti furono gli incontri umani. « Fu proprio allora – ricorda – che cominciai a conoscere gli uomini, i più semplici, i più comuni e veri, uomini impastati della mia medesima sostanÂza. Ero partito con un sentiÂmento di rifiuto verso l’impreÂsa della guerra, assimilato dalÂl’educazione socialista di mio padre. La comprensione, sia pure tardiva, di quella triste e sconvolgente esperienza umaÂna è rimasta nel mio caratteÂre ed è stata per me di parÂticolare valore ».
Anche un altro scrittore, Paolo Monelli, che ha lasciato il segno nella letteratura di guerra con il suo diario – roÂmanzo Le scarpe al sole, una delle opere più vere e meno retoriche sul ’15-’18, e con le pagine di un altro bel libro, Sette battaglie, mette a fuoco il valore umano di quell’espeÂrienza. « I giovani d’oggi – diÂce Monelli – hanno idee chiaÂrissime sull’argomento. Una inutile strage, seicentomila caÂduti per adempiere ad un doÂvere loro ingiustamente impoÂsto, voluta da un’angusta eletÂta di intellettuali e di politici che credevano l’intervento neÂcessario per coronare l’opera del Risorgimento e dare alÂl’Italia la dignità di grande nazione. Posso concordare, in tutto o in parte, con questo giudizio. Ma io a quella guerra ho partecipato volontariaÂmente perché mi pareva un’avÂventura meravigliosa per un ragazzo di vent’anni, sopratÂtutto perché mi sarei vergognato di non essere con i miei coetanei esposti senza facoltà di scelta al rischio maggiore. Nel corso di quella guerra mi sono legato di affetto e di stiÂma a uomini che compivano il loro tremendo compito con semplicità ,   con virile coscienza, con lo stesso impegno che avevano portato fino allora nella loro dura vita di contaÂdini, di minatori, di boscaioli, di emigrati ».
I versi di Ungaretti ispirati alla grande guerra e raccolti nell’Allegria sono ormai consiÂderati classici. Pubblicati per la prima volta nel ’16 in un volumetto di ottanta esemplari stampato a Udine con il titolo di Porto sepolto, furon ripubblicati e fatti conoscer alla fine del ’18 da Prezzolini nella sua antologia Tutta la guerra.
Ho chiesto a Ungaretti qual è per lui, mezzo secolo dopo, il significato di quella guerra alla quale partecipò sul Carso da San Michele al Dosso Faiti, nel 19° fanteria: « La guerra è sempre riprovevole – ha risposto il poeta. – È il seÂgno della bestialità dell’uomo. La prima guerra mondiale è stata, per nostra ingenuità , fatta con entusiasmo. Le conÂseguenze sono quelle di ogni guerra, riparabili a furia di saÂcrifici ».
Gli ho anche domandato: «Quali memorie suscita in lei quella guerra?». « La memoria – ha risposto – di giovani che andavano incontro alla morte con speranza. Ma le umanità migliori lo abbiamo visto poi, non nascono dalle guerre».
Concludiamo con Giovanni Comisso questo panorama di testimonianze sugli scrittori e la grande guerra. Comisso, molto ammalato, ha festeggiaÂto l’anniversario della vittoria all’ospedale di Treviso dove è ricoverato dal mese di settembre. Scrittore fisico, pagano, ora deve fare i conti proprio con quella vecchiaia che non ha mai voluto neppure immaÂginare. Il suo Giorni di guerra, uscito nel ’30, non piacque ai fascisti: opera di grande freÂschezza poetica, racconta la guerra senza grandezza, come una scampagnata imprevedibiÂle e felice. È uno dei libri più cari allo scrittore: per lui la guerra rappresenta infatti solo la stagione della giovinezza, senza bandiere, senza squilli di tromba. Fino a qualche mese fa, nei giorni di festa, ComisÂso aveva l’abitudine di andare in gita sul Grappa e sul MonÂtello, vicini a casa, a ritrovare con gli amici, in allegria, i poÂsti dove avrebbe potuto morire.
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Commento by Gian Gabriele Benedetti — 17 Novembre 2008 @ 22:36
Anche a me pare che Montale abbia avuto un atteggiamento quasi asettico nei confronti della Grande Guerra, pur non condividendone l’intervento. Sembra far di tutto per non averne memoria. Ungaretti, invece, ce ne offre un quadro realistico e drammatico. Tutta la tragedia, nel poeta lucchese, emerge nella sua più cruda manifestazione in diverse liriche di grande spessore e di sicura efficacia. A mio avviso, tra queste, la più intensa, la più vera, la più disperante, la più espressiva, quella maggiormente evocativa, quella che rende l’idea della terribile precarietà è “Soldati”:
Si sta
come d’autunno
sugli alberi
le foglie.
Brevità e purezza di linguaggio, simbologia calzante, accorata emotività tracciano con forza la spietata veritÃ
Gian Gabriele Benedetti