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Rivista d'arte Parliamone
La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

Ottieri, Ottiero

7 Novembre 2007

Donnarumma all’assalto

“Donnarumma all’assalto”

Tea, pagg. 256. Euro 7,75

Il protagonista è un funzionario che dal nord scende al sud per selezionare del personale da assumere in una moderna fabbrica di calcolatrici lì costruita (le calcolatrici di quegli anni ‘50, ovviamente, ormai diventate un reperto industriale). Questa esperienza, la prima nel meridione, lo porta a scoprire una realtà sconosciuta, da osservare e valutare con occhi diversi, facendo anche delle eccezioni al proprio modo consolidato di giudicare gli altri.  Il romanzo è strutturato come un diario, e ogni capitolo rappresenta, all’incirca e non sempre, una settimana trascorsa in quel contatto nuovo, in cui si respira “il tempo della fatalità meridionale”: “Sono nato nel centro Italia e la giovinezza l’ho tutta trascorsa in paese di sole, diventando meridionale. Ma l’industria l’ho conosciuta nel nord e la caratteristica di essa rimane sempre quella d’essere grigia, se è un’industria vera.” Romano di nascita, l’autore, in realtà, si trova per la prima volta a confronto con il sud del lavoro che manca da sempre e della rassegnazione: “Come si comportano gli operai meridionali?”. Perché già si sa che anche qui “il macchinismo industriale […] scompone, frammenta la personalità umana nello stesso momento che pone il proletariato nella condizione del suo più alto impegno morale.” Il lavoro è necessario, nobile, ma lacera, frammenta, e forse distrugge. I candidati che via via gli si presentano innanzi, gli permettono di leggere nelle loro risposte, nelle loro mimiche, nei loro tic, l’atavico marchio di coloro che “Da una parte hanno una smania di lavorare che li sprona e acceca e una abitudine fissa, antica, di cercare lavoro più che di lavorare; dall’altra parte una abitudine alla disoccupazione così profonda che ha generato i suoi vizi e le sue difese naturali.” Il sud cercato e scoperto così come si è solidificato nell’animo del meridionale appare l’indagine chirurgica di questo autore che usa le frasi come un bisturi e uno scandaglio della coscienza. Si rende conto di essere come un Dio nei loro confronti, di cui – forte dello squilibrio tra domanda e offerta che gli consente di avere a disposizione molte richieste di lavoro – deciderà il destino. Si è corazzato contro le loro querimonie, i loro lamenti, le loro sfacciate pretese di essere scelti, e l’occhio asettico, l’esperienza frigida che hanno essiccato il sentimento della pietà e della consolazione nei confronti di questi sventurati, apre la via ad un rapporto disumano, cinico, tra uomini che stanno su due sponde distinte e lontane, e il cui non-incontro genera una spietata solitudine: “Il selezionatore calma il suo rimorso per il giudizio dell’uomo sull’uomo con questa fiducia di poter sbagliare nella contrattazione psicologica sempre meno; e con la coscienza che la selezione sia necessaria”. Questo modo di selezionare ha un nome: psicotecnica; è spietato ma necessario; cerca di valutare l’individuo, di conoscerlo limitatamente al suo eventuale ruolo di lavoratore asservito ad un processo produttivo. Di tutto il resto poco importa e “Gli scartati nessuno li giudica più”. Verrebbe voglia di trovarsi tra questi, ancora liberi e suscettibili di uno sviluppo imprevisto, che agli altri sarà negato: il selezionatore che impiomba ed imprigiona per sempre, e il candidato che non ha altra alternativa che sottoporsi al rischio di questa irrevocabile condanna. Sono gli scartati quelli che si salvano, dunque? Qual è il costo più profondo di un lavoro che manca per tutti e che toccherà solo ad alcuni?: “se dicessimo loro di stare otto ore sulle mani, dentro la fabbrica, accetterebbero.” Il protagonista selezionatore (“il pizzicologo”) è consapevole della spietatezza del suo lavoro, che fa della fabbrica l’unico mondo reale, accettato e possibile, “un tunnel trasparente, oltre cui corrano soltanto aria, vento di mare e sole.”: “Gli analfabeti non sanno che la loro umiliazione è anche la nostra.”

Si mescola tra gli operai, anche lui lavora, fa esperienza, vuol rendersi conto: “peccato che quando si ripete trecento volte al giorno, questa soddisfazione del lavoro si perde.” Vive tra gli operai che sanno chi è, qualche disoccupato ogni tanto si fa trovare fuori della fabbrica e mette in piazza le sue disgrazie, ha bisogno di lavorare. Il protagonista mostra di avere uno scudo in grado di difenderlo contro tutte le miserie della vita che si presentano in fabbrica e fuori. Osserva, però, non trascura niente; ha davanti a sé la novità di un mondo che non conosceva, abituato alle misurate frequentazioni di un nord più opulento e riservato: “Dal gruppo dei postulanti che ogni mattina sta fisso in portineria, oggi verso le due, quando tutti eravamo a mangiare, uno si è gettato sotto l’automobile del direttore.” Il romanzo, pubblicato nel 1959, e che porta in calce le date di stesura 1955 – 1957, non sembra invecchiato, se non nei piccoli dettagli. Si descrivono i personaggi, e il primo che porta i segni della tragedia del sud è Accettura Vincenzo, invalido, colui che si era gettato (e non sarà l’unico) sotto l’auto del direttore per rivendicare un posto di lavoro: “Ma io me moro di fame” insiste a dire quando il protagonista lo chiama per cercare di sedare la sua rabbia contro la società e ora la fabbrica: “Una fabbrica come la nostra non ha un posto di più o un posto di meno. Accettura, è la legge dell’organizzazione.” Siamo giunti al momento di contatto tra due visioni contrapposte, tutta umana la prima, mentre la seconda è spietatamente legata alle leggi ciniche dell’economia. Accettura non vive in una casa ma “No, sto qua sotto, sotto la strada.” Vengono in mente gli anni in cui si proclamava l’idea di poter lavorare meno per lavorare tutti. Un sogno rimasto tale, una scommessa nemmeno portata davanti agli allibratori: scartata senza pietà, scomparsa nel nulla, come il suo ispiratore, quel Pierre Carniti che fu tacciato di sognatore acchiappanuvole. L’umanità che spunta dagli anfratti di una condizione sociale sottosviluppata, immiserita da anni di sfruttamento ed incuria, porta il marchio di quella napoletanità che sempre si è battuta contro il destino avverso e sempre ha cercato di sopravvivere alla sua maledizione. Nutriamo simpatia per l’infermiere che sbuca dal buio, una sera, per questuare il lavoro in fabbrica, e ha la garbata cocciutaggine di chi non ha mollato ancora la speranza e non vede tutto nero davanti a sé, e con la vita ha intrapreso non una lotta, ma un gioco sottile di mezze verità e di compromessi, e che spera che l’altro che gli sta di fronte (il protagonista) sia fatto – e come potrebbe mai essere diverso? – della sua stessa mistura. Il lavoro visto, anche come status simbol, di qualunque natura sia, anche il più umile: “Continuano tutti a voler pulire i gabinetti.” Ma può essere anche portatore di morte, come accade in un’altra fabbrica lì vicina, dove un operaio viene schiacciato da una gru. Però una vera alternativa al lavoro non c’è; la mancanza di lavoro significa la morte sociale, e soprattutto la fame. Abbiamo già letto vari romanzi su Napoli, e nessuno scandaglia il rapporto della città col mondo del lavoro con la minuzia di Ottieri, che si è avvalso della sua esperienza di consulente della Olivetti, e che costruisce, con uno stile limpido, attraverso il volto di questa umanità disperata, il dolore di una città del sud attraverso i suoi uomini. Venezia Raffaele sarà uno che verrà assunto prima o poi, “fra una settimana, fra un anno.” Ha superato la selezione e la visita medica, ma questi sono i tempi impietosi della fabbrica. Lui, invece, deve “lavorare subito” ed è a lui che accade, infatti, il miracolo. Mentre è lì che questua, come hanno già fatto in tanti, una provvidenziale conversazione tra la segretaria (“che tiene la cornetta tra la guancia e la spalla”, cosa che al sottoscritto non è mai riuscita!) e il direttore rivela che c’è urgente bisogno di “un operaio al montaggio”. Non sa se ridere o piangere, “ma il lampo umido degli occhi ha brillato per tutta la stanza, gettando una striscia di luce anche su di noi.” Finché compare un certo Antonio Donnarumma, che vuole lavorare, ma non ha fatto nemmeno la domanda. L’autore lo userà come una specie di spada di Damocle, di incognita, che sta sospesa per un certo tempo sulla storia. È attraverso questi singoli personaggi avviliti (“la fila continua degli occhi qui non si dimentica mai”), disoccupati che si somigliano e si presentano ostinatamente a chiedere lavoro, (Chiodo, Accettura, Conte, Dattilo, Barca, Donnarumma, Papaleo, Gallina, Dongiovanni) che i due mondi così diversi vengono a confronto: da una parte la realtà del sud, caotica, sofferente, afflitta e disperata: “benché non abbiano mai quella divisa e quella faccia inconfondibile del proletariato settentrionale” e dall’altra la fabbrica, dove tutto corre scandito da un tempo e da un ordine freddamente programmati e immutabili, al punto che nemmeno ci si accorge delle agitazioni operaie che si svolgono a pochi chilometri di distanza in un cementificio: “Il nostro preciso stabilimento meccanico non si occupa del Cementificio polveroso”. E nel mezzo il protagonista, “il pizzicologo”, che della fabbrica ha ormai acquisito – così s’illude – il rigore economico, l’inflessibilità. Forse è proprio per il suo tramite che per la prima volta il contatto con una umanità frustrata oltre ogni ragionevolezza (“qui si spreca una mano d’opera senza opera, una popolazione industriale senza industria.”), acquista un senso, un valore e deve fare i conti non solo con l’antica mancanza di lavoro, ma con le abitudini impastate di un misto di furberia, ambiguità, rassegnazione, ostinatezza e pregiudizio (per cui occupare una fabbrica uomini e donne insieme, costituisce un problema, come andare a svolgere da parte delle donne mansioni finora affidate a uomini). Sarà lui ad andare a vedere lo sciopero che si sta facendo al cementificio. Sta lì ed osserva. Si commuove nel constatare la perseveranza e l’ostinazione di un’operaia che, insieme con altri, ha occupato lo stabilimento. Ma: “Nessun tessuto lega una fabbrica e l’altra, non c’è proletariato. La disoccupazione non unisce, ma sempre divide, tranne quando esplode.” Anche nel suo stabilimento si stanno, infatti, agitando le acque. Qualcosa si muove nell’aria, sfuggita al controllo delle regole apparentemente ferree e inossidabili della fabbrica modello. Si sciopererà anche lì, ma la Commissione Interna ha proclamato lo sciopero “per un’affermazione di se stessa, più che di certe rivendicazioni.” Tutto concorre a suscitare nel protagonista insospettate amarezze nei confronti di una realtà spietatamente “deformata” dalla storia, ed alcune sue analisi ricordano in qualche modo quelle di Carlo Levi nel suo “Cristo si è fermato a Eboli”. Scriverà, per sottolineare quale sia il male vero del Mezzogiorno (e lo è ancora oggi): “La disoccupazione cronica, invece, muta davvero la prospettiva della condizione alienata: l’alienazione vera, storica, qui a Santa Maria è la disoccupazione, la quale precede ogni problema industriale, pur essendo contemporanea di una civiltà industriale.” Il contadino, che fa un lavoro non alienante, non ci pensa su due volte e preferisce abbandonarlo per entrare in fabbrica, dove ci si eleva ad una classe più agiata e rispettata, quella dell’operaio, e si abbandona la “plebe”: “la fabbrica dà il pane sicuro ed è la chiave del progresso proletario, come per il borghese la carriera”. La fabbrica, pur con le sue leggi dure, inflessibili, è occasione di riscatto, dunque: “in fabbrica miglioriamo, loro e noi.” L’autore crede molto in questa sua filosofia e vi si dilunga. Dal suo arrivo, è la prima volta che riesce a stabilire un contatto positivo, ricco di promesse, tra questa realtà meridionale, che ha scoperto nuova ed originale, e difficile, e la sua fabbrica. La quale comincia anch’essa ad essere meno algida, quasi contaminata infine dall’uomo: “occorrono capi sempre migliori e più istruiti per sostenere una fabbrica nel tempo.” Torna in questo duello senza risparmio di colpi a imporsi il primato dell’uomo, ossia quei disoccupati potranno essere loro infine a sostenere e a far vivere quell’insieme di mura e di macchine, di congegni complessi, misteriosi e suggestivi, che costituiscono la fabbrica. L’occhio del protagonista si sposta ora all’interno, verso quelli che stanno lavorando e ai quali è affidato il destino dello stabilimento. È l’occasione per altre analisi: sul cottimo e sull’aziendalismo (che significa fuggire il mondo che sta fuori della fabbrica), giudicate malattie da cui guarire. È il turno anche dei loro problemi, visto che, ora che il lavoro lo hanno avuto, non per questo la vita sarà tutta rose e fiori. Davanti alla macchina la vita non li lascia, resta lì, con loro, presentando sempre il conto per la loro esistenza. Tocca a Attanasio, a Paola Alemanno, a Di Marzo e ad altri ritenuti fortunati a salire alla ribalta, a creare quella liaison tra vita, uomo e fabbrica.


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Bart