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PITTURA: I MAESTRI: Alla ricerca di Georges de La Tour

27 Dicembre 2010

di Jacques Thuillier
[Classici dell’arte, Rizzoli, 1973]

“Maestro Georges de La Tour, pittore […], si rende odio ­so alla gente per il numero enorme di cani che alleva, tanto levrieri quanto épagneul;, come se fosse il signore del luogo; caccia le lepri fra le messi, rovinandole e schiacciandole […] “. Questo, il solo giudizio su La Tour che ci sia giunto dai suoi contemporanei. Dove scoprire l’artista che dipinse il Giobbe o il San Sebastiano? Gli archivi hanno tramandato oltre un centinaio di documenti che lo riguardano; documenti che sta ­biliscono alcuni punti fissi, ma che non possono renderne la psicologia. La nascita di un figlio, l’affitto di una casa, la ces ­sione di una rendita, una firma il giorno in cui un vicino da in sposa la figlia o prende a prestito qualche staio di grano: moneta spicciola, in un tempo in cui tutto avviene davanti al notaio o al parroco. Ma nessuna lettera, nessuna confidenza di un appassionato d’arte o di un amico. Dobbiamo imma ­ginare La Tour partendo da quei pochi sgradevoli righi.

Essi sconcertarono profondamente i suoi primi ammirato ­ri. Ma oggi non rimane che una pattuglia di intrepidi che vedono nel pittore delle Maddalene una sorta di santo laico, un mistico preoccupato soltanto dell’assoluto. E al tempo stesso svanisce l’aureola postuma di “pittore socialista”, qua ­le si sarebbe voluto imporre al figlio del fornaio che preferì Lunéville alle corti di Francia e di Lorena, al creatore di quel Suonatore di ghironda che pareva denunciare a gran voce la miseria del proletariato. I critici dimenticarono di chiedersi quale credito meritasse la frase tratta da una sup ­plica che gli abitanti di Lunéville avevano indirizzato al duca di Lorena in esilio, per lamentarsi dell’amministrazione del re di Francia, una supplica che evidentemente denigrava un ar ­tista protetto dal governatore del re…

L’immagine che si definisce ai nostri occhi non riguarda dunque un pittore immerso nella meditazione, bensì un cava ­liere dagli stivali a soffietto, grande cacciatore e appassionato di cani, che a Lunéville conduce l’esistenza di un notabile in ­curante dell’opinione popolare. Altri due documenti comple ­tano quest’immagine: nel 1648 bastona una guardia e nel 1650 le da di santa ragione a un “agricoltore” che ha pro ­vocato dei guasti in una delle sue terre. Ancora meno di un secolo fa si sarebbero potuti trovare in qualsiasi borgo lorenese signorotti locali di questo tipo, forti delle proprie paren ­tele, delle proprie relazioni e delle proprie ricchezze, pronti a calare il bastone, simbolo della loro potenza, sulle schiene degli irrispettosi. Invidiati e criticati, talvolta anche ad alta voce: ma in fondo riveriti e accettati.

Questo costituisce, naturalmente, soltanto l’aspetto este ­riore della personalità dell’artista. Come andare più a fondo? Non possediamo alcun ritratto, né dipinto né inciso, che pos ­sa, per quanto poco, illuminarci sul suo carattere. Confessia ­mo di non sapere nulla né dei suoi amori né della sua vita familiare. Si è creduto più semplice decifrare i suoi senti ­menti religiosi. Era naturale che si volesse supporre nel pit ­tore della Natività l’ispirazione della fede. Gli studiosi gli at ­tribuiscono la devozione di un creatore medievale e arrivano a scorgere in lui, al momento della morte, un terziario fran ­cescano. Forse avrebbero dovuto ricordare che è molto diffi ­cile risalire dalle opere alla persona, e che un pittore che abbia dipinto varie Maddalene e San Giuseppe non è neces ­sariamente disposto a indossare il saio…

Cerchiamo di chiarire meglio. Di solito, un pittore cre ­dente illustra le verità della fede, ma non persegue, attraverso la pittura, la scoperta di una verità spirituale. Philippe de Champaigne, per esempio, cerca la salvezza nell’insegna ­mento giansenista, non nell’arte. Ma La Tour non è un illu ­stratore: se tratta un tema religioso, lo ricrea. Di opera in opera egli conduce una meditazione personale, che tocca i grandi problemi della condizione umana. Avrebbe sentito il bisogno di chiedere al pennello certezze di questo tipo, se avesse profondamente vissuto quelle della religione? Si può per lo meno dubitarne. Non sapremo mai, però, se egli ebbe semplicemente una fede cieca, o se i viaggi, le consuetudini di bottega, un probabile soggiorno in via Margutta o in via del Babuino lo avessero, come si diceva, “scaltrito”, e se, sul ­l’esempio di tanti altri, egli si accontentasse di salvaguardare le apparenze, mentre vedeva con ironia moltiplicarsi intorno a lui gli eccessi di superstizione e di violenza da una parte, e di religiosità dall’altra. Per gli uomini del Seicento, solo le confidenze intime possono svelarci il segreto dei veri senti ­menti religiosi.

Non potendo descriverne la psicologia, sarà possibile sco ­prire qualcuna delle molle segrete della personalità? A questo scopo il nostro tempo si serve volentieri di metodi vaghi ma perentori. Lasciamo stare la psicanalisi; sugli artisti essa non ha mai detto altro che frottole prive di valore, anche se alla moda. E proprio la figura di La Tour potrebbe costituire l’in ­sidia più pericolosa. Ma lo storico cede sempre alla tentazio ­ne di trovare un chiarimento nella situazione e nell’ambiente. Un figlio di artigiani che si eleva con fatica fino alla società dei borghesi e dei signorotti e che si chiude a Lunéville per meglio integrarsi in questa ci; ìe aggrappata ai suoi privilegi ma ormai sorpassata e oppressa dalle lotte fra monarchie: un’immagine che concorda con l’acuta descrizione dei temi realistici, la tensione interiore dei notturni, la gravita pessimi ­stica degli ultimi dipinti. Essa fa intendere il rifiuto di aprire il fondo dei quadri sulla natura, il ripiegamento volontario su se stesso e su un universo da lui stesso fabbricato, per finire nello stretto spazio circondato di tenebre e messo in luce da una modesta candela. Tutto questo concorda pienamente, e forse contiene anche una parte di verità. Ma è giusto cercarvi la vera chiave per l’intendimento di La Tour?

È facile giocare a posteriori su queste correlazioni. Ma chi, partendo dai soli elementi storici accertati, avrebbe po ­tuto prevedere i veri lineamenti dell’arte di La Tour prima che se ne ritrovassero le opere? Chi potrebbe spingersi a in ­dicare i limiti del suo pensiero, se ancora è possibile qualche scoperta che ne modifichi il senso? Non dimentichiamolo: altri due artisti hanno vissuto nello stesso ambiente, Callot e Deruet. I tre lorenesi hanno più o meno la stessa età, com ­piono un apprendistato simile, mostrano ambizioni analoghe; sono al servizio del medesimo duca, sono tutti e tre apprez ­zati da Luigi XIII, attraversano le stesse vicende storiche. Carriera, fortuna, clientela appaiono del tutto pari. Eppure, quali espressioni artistiche risultano più intimamente opposte? Non vi è nulla in comune fra le vaste scenografie di Claude Deruet ove si agitano piccoli personaggi da commedia, la cronaca incisiva e volutamente distaccata di Callot, e l’im ­mobile meditazione di La Tour.

L’interpretazione storica denuncia quindi da sé i propri limiti. La Tour, pittore troppo a lungo ignorato e ancor oggi circondato da troppe incognite, offre un margine assai angu ­sto e pericoloso al ragionamento; e forse, in ogni caso, aveva troppo genio per non sottrarvisi. Riconosciamo dunque che manca la chiave per intendere l’uomo e la sua creazione, e rivolgiamoci direttamente alle opere.

*     *     *

La cronologia è incerta. Solo due dipinti sono datati; auto il resto non va oltre la deduzione e l’ipotesi. E tuttavia di tela in tela si disegna una connessione, suggerita dai docu ­menti e precisata dalle affinità di fattura e di spirito. Nel: amplesso, essa conduce dai dipinti ‘diurni’ alle grandi com ­posizioni notturne; e dalle opere naturalistiche a quelle più stilizzate, più ‘cubiste’, più profonde. È possibile sin d’ora seguire questo esile filo e dedurre, dalle sparse vestigia della produzione, un itinerario spirituale? Vorremmo tentarlo, non tanto come commento quanto come ipotesi, che solo le nuo ­ve eventuali scoperte potranno confermare o inficiare.

Al principio l’ispirazione appare del tutto realistica. La Tour dipinge un vecchio, una vecchia, un cieco che suona la ghironda; non risparmia una ruga, insiste sugli occhi cisposi, sulle rade capigliature, le cicatrici, la frangia del vestito liso. Anche il mondo sacro conserva un aspetto popolare: gli Apostoli, vecchi e calvi, as ­sumono l’aspetto di mendicanti, di pellegrini, di zotici dal viso segnato, e sono vestiti più o meno secondo il costume contemporaneo. Viene applicata fedelmente la lezione che il Caravaggio aveva dato con la Vocazione di san Matteo e la Morte della Vergine.

Nel Vecchio e nella Vecchia di San Francisco, questo realismo conserva almeno in apparenza un’obiettiva serenità e si adorna di colori chiari e raffinati. Ma una sfu ­matura drammatica sembra introdursi a poco a poco. Tra la grande figura del Suonatore di ghironda di Bergues, ancora così monumentale nella sua rovina, e quella del Suo ­natore di ghironda di Nantes, dove Mérimée e Stendhal avvertivano una “verità plebea e spaventosa”, la sfu ­matura si coglie abbastanza bene. Guardiamoci dal conside ­rarla una semplice ricerca del pittoresco. Siamo assai lontani dai pittori fiamminghi di genere, che si fanno beffe dei loro personaggi da kermesse, e vogliono che anche il pubblico ne rida. Nessuna derisione in La Tour, nemmeno quando ci mostra un mendicante irsuto che raglia una canzone con la mascella di traverso; d’altra parte, neppure alcun compiaci ­mento. La Tour mantiene il suo distacco, e soltanto il cane, nel quadro di Bergues, sembra dipinto con vero senso di com ­plicità. Eppure, proprio da qui nasce quel ‘patetico’ che il realismo ha tante volte incontrato, sia nei dipinti degli spa ­gnoli sia negli scritti di Zola.

Si è indotti a pensare che in quel momento si formasse in La Tour un sentimento della vita più o meno venato di stoicismo. Se la verità del mondo è infelicità e bruttura, le passioni appaiono solo vana commedia. La Rissa di musicanti si congela in severa geometria. La disputa non è be ­nevola: ne testimonia, in primo piano, la lama sottile del piccolo coltello. Ma la voluta architettura della tela rivela immediatamente la lezione morale. Da un lato la donna che piange, dall’altro l’uomo che ride: così va il mondo. E a destra un violinista beffardo trae la conclusione: senza dub ­bio quella stessa che un incisore aggiunse in calce a un’altra Rissa dovuta a Bellange: “Mendicus mendico invidet”, cioè un miserabile trova sempre uno più malandato di lui, che invidia la sua miseria.

Le ultime opere ‘diurne’, come la Buona ventura e i due Bari, giocano ancor più liberamente sul tema della farsa, ma mescolandovi uno strano senso di gra ­vita e di ironia. Arrivato senza dubbio all’apice della sua maestria, La Tour si compiace ancora in queste tele di esal ­tare lo splendore di un viso giovanile messo in rilievo da una collana di perline, o i riflessi di un raso, di un vino color granato nel bicchiere soffiato, d’un braccialetto di perle.

Ma, nel tempo stesso, egli denuncia le illusioni. Il giovane che avanza goffo e avido in questo mondo pieno di promes ­se, che crede alla buona ventura predetta dalla zingara, che sogna i piaceri dell’amore, del vino e del gioco proposti dalla cortigiana, sarà dileggiato da tutti. Qui, le carte truccate già escono dalla cintura del cattivo compagno; là, nascosto nel ­l’ombra, s’intravede un gioco di mani complici e rapaci. E, accanto al più luminoso viso di fanciulla che sia stato dipinto prima di Renoir, l’abbietta faccia della zingara, simile a quel ­la della vecchia del Testamento di Villon, ricorda che anche la bellezza è solo un’impostura transitoria. Non esiste altra difesa che disprezzare le mutevoli apparenze delle cose, per rivolgersi, come san Gerolamo in meditazione o in penitenza, verso le verità eterne. Solo la legge morale conduce alla certezza. L’ascesi è dura: la corda con cui san Gerolamo si flagella è macchiata di sangue; ma il gran vec ­chio col pugno chiuso sulla croce appare, nella sua decrepi ­tezza e nudità, una delle figure più nobili proposte da La Tour.

Non va dimenticato che certamente fin da allora avevano avuto inizio le sventure della Lorena, prima fra tutte la peste, crudele richiamo alla vanità del mondo. Lo stoicismo, diffuso in tutto il Seicento, trova in quel paese un ambiente favore ­vole: lo esprimono non solo gli umanisti, ma la stessa morale religiosa, in particolare tra i francescani. Del resto, fra il 1630 e il ’40 sembra svilupparsi un po’ dovunque un senso di irri ­gidimento e di disciplina. Si respingono le passioni incontrol ­late, per quanto nobili, e si fa appello alla volontà e alla legge morale. Il Cid di Corneille è del 1636, del 1637 il Di ­scorso sul metodo di Cartesio, la Manna di Poussin di quello stesso anno. Opere come i vari San Gerolamo di La Tour s’inscrivono perfettamente in tale contesto. All’inizio il reali ­smo fu senza dubbio soltanto un’eredità della tradizione caravaggesca; ma La Tour lo trae al punto estremo in cui esso esprime una lezione morale che si collega a quelle, d’origine ben diversa, di un Corneille o di un Poussin.

Ora, in quel momento stesso il realismo si distrugge da sé. Presto ne rimarrà soltanto la scorza: volti che rifiutano di modellarsi su un tipo astratto, santi in costume contempora ­neo, secondo la vecchia lezione del Caravaggio. Contadini lorenesi porteranno il loro tributo a un Gesù in fasce e a una Vergine vestita di bigello, mentre un’Irene in corset ­to a stecche veglierà un san Sebastiano il cui elmo d’acciaio brilla al suolo. Ma, davanti alla semplificazione dei piani, davanti alla stilizzazione monumentale delle figure, è ancora possibile parlare di realismo?

*     *     *

A partire dalla metà della sua carriera, sembra che La Tour voglia fare di ciascuna delle proprie tele una sorta di meditazione conchiusa in sé, o piuttosto – dato che le opere continuano a illuminarsi e arricchirsi nel rapporto reciproco – protese a toccare ogni volta uno dei problemi essenziali della condizione umana. Sebbene i temi e ancor più l’am-bientazione siano così diversi, si pensa ai dipinti in cui Pous ­sin, quegli stessi anni, sceglie un argomento più o meno ba ­nale delle Scritture o della storia antica per farne sgorgare verità universali. La scelta dei notturni, sicuramente trattati assai presto ma che sembrano ormai la specialità di La Tour, fu il mezzo per guadagnarsi un pubblico francese, se non parigino, che non era abituato al caravaggismo e poteva tro ­vare in esso l’allettamento della novità? Fu invece una con ­versione dovuta a qualche viaggio, a nuovi rapporti, o sem ­plicemente a lucidità d’ingegno? La risposta non è molto importante. L’essenziale è che quei notturni gli permette ­ranno di sviluppare e approfondire in modo stupendo il suo pensiero e di portare ogni opera a quel punto di so ­brietà ed emozione che diverrà una specie di exemplum al di là dei dati temporali e topografici.

Fin dal periodo dei ‘diurni’ La Tour è giunto a tale con ­trapposizione fra vanità del mondo e dignità dell’ascesi mo ­rale. Il primo San Sebastiano (n. 41), di cui purtroppo è an ­dato perduto l’originale, riprende al livello nobile e doloroso del poema tragico l’idea dello sforzo eroico e del sacrificio; ricordiamo che il dipinto risale forse agli anni 1638-39, e che il Polyeucte di Corneille è del 1640. Il giovane capitano, che ha rischiato la vita per la fede, si trova disarmato, nudo, fe ­rito e abbandonato nella notte. Nello spazio stretto e mobile illuminato dalla fiamma di una lanterna, s’intreccia fra la sofferenza dell’uomo e la pietà della donna un dialogo simile a una comunione amorosa. Ma la santa infermiera dagli oc ­chi abbassati sa che si tratta solo di una breve dilazione, pri ­ma del nuovo supplizio e della morte. Con maggior sempli ­cità ma non minor forza, le differenti versioni della Madda ­lena e di San Francesco insistono sull’idea dell’ascesi. La fiamma, simbolo del tempo che si consuma, lo specchio, simbolo della fragilità e dell’illusione, attraggono lo sguardo della Maddalena, sul punto di abbandonare gli ornamenti o già tranquilla nella povertà. Il teschio, che si celava dietro il libro di Gerolamo, riappare sotto le mani incrociate della santa e sotto le dita di Francesco. Entrambi abbandonano un mondo ingannevole, vestono il saio e il cilicio, scelgono la solitudine e l’austerità. Sembra che anche l’arte di La Tour in quegli anni si spogli di ciò che le resta di spirito mondano. La Maddalena Fabius traccia ancora un gesto elegante che non stupirebbe sotto il pennello di un Vouet, e che sparisce nella Maddalena Terff. Il San Francesco inciso conserva una fierezza da gran signore che il San Francesco di Le Mans, dalla testa arrovesciata e la bocca aperta come un morto, ha ormai perduto. E la sfumatura romantica che ad ­dolciva il San Sebastiano, così prossima all’estremo colloquio fra Tancredi ed Erminia, non si ritroverà più.

Però in questo periodo appaiono nella produzione di La Tour le prime figure infantili. È strano che non se ne incontri alcuna nella serie di tele ‘diurne’ pervenute. La più antica è senza dubbio quella del Ragazzo Granville. Un tema banale, tante volte trattato nella scia del Bassano dai caravaggeschi nordici: un ragazzetto dal viso sgradevole, deformato dal gesto quotidiano di accendere una lampada. Ma lo splendore dello stoppino fa sorgere dalla tenebra silen ­ziosa una presenza: quella di una creatura semplice, quasi senza pensiero e senza passato, che nella sua stessa semplicità rivela d’improvviso l’infinito valore che risiede in qualunque essere umano.

Perché il fanciullo è speranza di vita in un mondo pro ­messo alla morte. Anteriore al suo destino, quindi alla scel ­ta morale che questo suppone, impersona l’innocenza fra le brutture e la corruzione. Poco importa che sia un garzone di bottega o Gesù stesso, un angelo o Maria bambina. La Tour lo contrappone in una sorta di muto dialogo al vecchio se ­gnato dall’esperienza e dalle cicatrici. I caravaggeschi, e lo stesso Caravaggio, avevano mostrato quale carica poetica si potesse generare accostando a un san Matteo barbuto, rugo ­so, appesantito dall’età, la fresca grazia dell’angelo adolescen ­te. La Tour eleva il contrasto al più alto grado di significato metafisico. La luce di una candela che l’inonda conferisce sembianze immateriali a un profilo infantile; e, oltre i confini dell’innocenza stessa, quella certezza spirituale che è dono divino. Di fronte a lui Giuseppe, assorto nel la ­voro quotidiano, serio e come cieco, ignora l’alto destino che sta preparando, né si accorge che la trave segata assume la forma di croce. Oppure nel sonno più profondo, nel mo ­mento di più umile abbandono, ecco il vecchio, fino allora uguale a ogni altro, improvvisamente colto dall’illuminazione. Perché dubitare che La Tour voglia qui adom ­brare il problema centrale del Seicento, non solo per i teologi ma per tutti gli spiriti, cioè quello della Grazia?

Di fronte alla Vergine bambina, sant’Anna sembra più consapevole. Le donne di La Tour non hanno mai l’aspetto logoro e la pesante materialità dei vecchi. Il contrasto poetico si rovescia, mettendo a confronto un essere fragile con un adulto che sa o presente per quali vie fatali e necessariamente dolorose si compirà il destino del piccolo. È questo sentimento che si riscontra nelle diverse Natività: la più ambiziosa, che conosciamo solo attraverso l’incisione; la più commossa, quella del Louvre; la più sublime, che resta la tela di Rennes, uno dei culmini nella produzione dell’artista. Strettamente serrato nei lini, ancora addormentato d’un sonno quasi animale, il bimbo è solo una promessa di vita protetta dalle donne. In sua pre ­senza, nessuna gioia, nessun sorriso, ma solo gravita di fronte a un destino che comincia, in un mondo d’illusioni e di sof ­ferenze. Tuttavia, al di là di qualunque pensiero e meglio che con qualsiasi parola, La Tour esprime la maternità, e il legame, fatto di possesso, di sollecitudine e di speranza, tra la vita che si compie e la vita che comincia.

S’inserisce così nell’opera di La Tour una nuova dimensione. Per l’artista, che ebbe almeno dieci figli e ne dovette perdere sette, alcuni ancora in fasce, la meditazione sull’in ­fanzia non significa allegrezza o serenità; ma apporta, nella tensione di un universo pessimistico, una specie di misericor ­dia. Se si sopprimessero nella produzione di La Tour le ope ­re dove figurano i bambini (e, così raramente, innocenti e gravi, gli animali), il suo mondo apparirebbe fra i più sconsolati che mai pittore abbia espresso.

Lo sforzo morale infatti non ha mai la certezza della ri ­compensa: la grazia può venir meno in qualsiasi momento. Il più fervente, il più provato, sarà forse il primo a cedere. La serie del Pentimento di san Pietro ricor ­da spietatamente che il discepolo più fedele, quello che Cristo aveva scelto per affidargli le chiavi, rinnegò il Signore prima del canto del gallo. Fin dalla prima versione a noi nota, La Tour inventa quel gesto delle mani serrate l’una sull’altra, in una sorta di tragica sorpresa e di rimorso, di tremore e di supplica, in cui si traduce l’emozione davanti al riconoscimento della colpa. E una delle ultime opere di La Tour sarà proprio la Negazione di san Pietro, in cui la soldatesca ostenta in primo piano la sua volgare alle ­gria, mentre in un angolo il vecchio impaurito è ridotto alla menzogna e al tradimento.

Con una specie di drammatizzazione che risponde più allo spirito del tempo che alle tradizioni iconografiche, La Tour tende a mostrare non solo la fermezza del santo e del saggio attraverso le prove, gli sforzi e le sconfitte, ma la le ­zione che essa comporta. Anche qui, egli vuole creare un dia ­logo. Non gli basta Alessio sotto la scala dove viene a conclu ­dersi la cruda serie delle sue privazioni; introduce il perso ­naggio del giovane paggio, trasformando l’episodio in azione drammatica. Senza spavento, ma come se stesse per piangere, il giovinetto scopre contemporaneamente la morte del maestro e l’insegnamento ascetico che gli trasmette. Non si è mai trovata una raffigurazione della leggenda simile a questa. Il Giobbe di Epinal è di poco più conforme alle presentazioni usuali. Più importante del vecchio immerso nell’ombra diviene la moglie, profilo interrogatore che si leva sopra la massiccia torre delle gonne, o piuttosto il dialogo che si stabilisce fra l’anima semplice, sdegnata dal volgere della sorte, e l’anima forte che respinge la disperazione e la negazione.

Ma proprio questo dialogo ‘classico’ introduce fin nella tensione stoica un che di patetica tenerezza. La moglie di Giobbe non è più una megera ghignante. Il punto d’equili ­brio del pensiero o, se si vuole, della poesia va forse cercato nel San Sebastiano con torcia, senza dubbio il più ce ­lebre fra i dipinti di La Tour e anche, a causa dei cinque personaggi raffigurati, il più ambizioso fra quelli a noi giunti. Questa seconda versione, che deve risalire al 1649, cioè a cir ­ca due anni prima della morte, abolisce quella sorta di com ­plicità amorosa che si intrecciava nel San Sebastiano con lan ­terna. Il giovane santo appare più virile, coi baffetti disegnati agli angoli delle labbra. Come morto, secondo la tradizione della Passio Sebastiani è allo stremo delle soffe ­renze, e la mano di Irene non osa altro che sollevargli il polso. Ma la pietà si esprime con forza anche maggiore, una profonda pietà umana che fa scivolare sui chiusi volti una lacrima involontaria. Sopra questo corpo perso nella sofferenza, il silenzio delle donne che s’inginocchiano, scan ­dito dalle grandi verticali, sembra il compianto di un coro antico davanti alla crudeltà del destino.

*       *       *

Di questo stoicismo, di questo sforzo per mantenere, in anni di spaventose sciagure, il rigore della tensione spirituale, di questo bisogno di ricordare, di fronte all’avvilimento che nasce dalla miseria fisica, il valore dei corpi e delle anime e la pietà che meritano, abbiamo altri esempi nella Lorena del tempo. L’ispirazione di La Tour, come abbiamo detto, non ha nulla di sorprendente. L’avvocato Haraudel mostra senti ­menti analoghi quando, nella lunga elegia sulle sventure del ­la Lorena, evoca il paese colpito dai mali

De Peste, de Famine, et de la Guerre ensemble, 1
e ne trae una lezione di umiltà e di fermezza:
Le point considérable et toute l’importance
Consiste à bien rnourir, non à la différence
Quand, comment, en quel lieu, et par quel accident
De Guerre, de Famine, ou d’un air pestilent […].2

Ma, per quanto aperto e commovente, il poema rimane solo un’esercitazione di letterato. Il privilegio di La Tour consiste nel dare a questa esperienza, attraverso la lenta maturazione artistica, un valore universale. Il piccolo volume che riunisce i testi di Paul Jamot e le riproduzioni dei principali dipinti di La Tour venne letto con fervore nei campi di prigionia; il poeta René Char aveva una fotografia del Giobbe nel suo zaino di partigiano a Céreste. Nel momento in cui di nuovo infieriva la guerra con le sue miserie e le sue degenerazioni, le opere del pittore lorenese trovavano risonanza più profon ­da. Oggi, mentre la pittura accetta di svincolarsi da qualsiasi significato o si accontenta dell’illustrazione più semplicistica, non è forse inutile ricordare che l’alto destino di un artista può, per sua propria essenza e nella misura in cui è ricerca e creazione di un linguaggio, essere insieme ansia spirituale e lezione di moralità.


1 Della peste, della carestia e della guerra insieme.

2 II punto essenziale, tutto ciò che conta si riduce nel morire bene, e non nella dif ­ferenza del quando, del come, del dove e per quale accidente, di guerra, di carestia o di peste […].


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Bart