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PITTURA: ARTE: I MAESTRI: Quel giorno con De Pisis

11 Dicembre 2018

di Alberico Sala
[dal “Corriere della Sera”, domenica 14 settembre 1969]

Tra le pagine è come gor ­gogliasse la voce di De Pisis: « Ogni cosa che si scri ­ve vuol poesia, se no è inu ­tile… Che gioia talora a get ­tare sulla carta, la grafia stentata sul foglio bianco, una immagine, una voce che si fa luce nell’intelletto… » Sono pensieri sparsi nel bro ­gliaccio per il romanzo auto ­biografico Il marchesino pit ­tore, pubblicato da Longane ­si, a cura di Sandro Zanotto, con ventiquattro tavole fuori testo, disegni e fac-simili degli originali.

Per discutere del suo li ­bro di Poesie, che l’amico Enrico Vallecchi intendeva, allora, ristampare (è rima ­sto, dopo tanto tempo, un progetto), andai una mattina da De Pisis a Villa Fiorita di Brugherio, un nome patetico per una villetta (era l’autun ­no del ’55: l’ultimo suo) bas ­sa e polverosa, nel palmo più secco della brughiera lombarda. Non lo conoscevo; avevo sentito favoleggiare di lui a Burano, dal medico, grande amico suo e di Comisso; e da Semeghini. Col baschetto in testa, gli occhi in ­quieti, il pittore veronese raccontava di quella mattina che uscivano insieme da Ro ­mano e presso il canale, De Pisis scoprì un brano di car ­ta gialla da macellaio, con pesce pestato, violento di sangue rosso e nero, per tra ­verso. Raccolto furtivamen ­te il cartoccio, era fuggito in trattoria. Quando Seme ­ghini era tornato per il pran ­zo, il quadro era finito; De Pisis, sulla porta, fumava la pipa, liberato.

Aspettavo nel parlatorio, in una poltrona di colori imba ­razzanti. De Pisis m’arrivò addosso, dall’alto, alto e ma ­gro, con la barba arsiccia, la bocca tormentata. Non voleva ricordare nessuno, nessuno lo poteva aiutare. Si mise a sin ­ghiozzare, e ogni tanto guar ­dava i due libri che avevo con me: le sue poesie, e una monografia su di lui, il tito ­lo fiammante che bruciava la copertina candida. («E al ­lora sentivo che un dono sa ­rebbero state le lagrime. Il sonno non veniva ma il pian ­to che lava e ristora un po’ per volta venne sui miei oc ­chi. Vedevo, tanta era la for ­za della mia concentrazio ­ne, vedevo le mani di mia madre … »).

S’era acquietato in un mo ­nologo di suoni, aspirazioni e lievi strilli. Aveva già man ­giato, ma avrebbe voluto ac ­compagnarmi in trattoria, per svagarsi un poco. Gli por ­tarono un berrettuccio grigio, di panno con la visiera, di quelli dei giocatori di base ­ball, ch’egli calò sul viso im ­bevuto di malinconia, come una spugna. Sotto il vestito di vigogna (spuntava, da una tasca, un fazzolettone da contadino), indossava anco ­ra il pigiama di flanella chiara. In macchina arri ­vammo alla «Trattoria del tram », presso la stazione di Monza. Una rete metallica cingeva il parco dei vagoni gialli e neri. La porta era di vetri colorati, tanti fogli piombati. Sul tavolo, sotto una finestra, era steso un tappeto verde biliardo.

De Pisis sedette e inco ­minciò a sfogliare la mono ­grafia sulla sua pittura: ave ­va fermato la bella mano sulla « sua » chiesa di San Moisè, tenebrosa e affasci ­nante. Con le dita pareva « sentire » i percorsi del pen ­nello, rinvenire coriandoli e farfalle. Girava i fogli, golo ­so e allarmato. Ora, tra le mani, aveva una natura mor ­ta, un pesce sulla riva del mare, della frutta, mi pare, in un angolo. E diceva: «Non lo ricordo. Non so quando l’ho fatto. Di chi è? ».

Voltò pagina: una mac ­chia allegra di colori, un mazzo di fiori dentro un mastellino d’argento, di quel ­li per lo champagne. « L’ho dipinto in casa Massimo, a Roma. Ogni mattina, che gentili!, mi rinnovavano i fiori. Un profumo che feri ­va. Ora ricordo, e mi fa ma ­le la testa ».

De Pisis si alzò, s’avvici ­nò al banco della mescita, coperto da operai e ferro ­vieri. Restò un po’ a guar ­dare, poi tornò a sedere, al tavolo che intanto m’aveva ­no apparecchiato, strasci ­cando un poco le pantofole.

Cercai di avviare una con ­versazione sulla poesia, sul suo libro, la ragione per cui ero lì. Gli chiesi se avesse scritto dei versi, negli ultimi anni. Mi guardò come se non mi vedesse, come fosse piom ­bato di colpo in una soli ­tudine incolmabile. Poi av ­vampò, scosso dall’ira. Mi chiese una matita. Avevo so ­lo la penna. La rigirò fra le dita, poi scrisse alcune pa ­role sbilenche, le primizie, intanto borbottava, di una poesia che gli girava nella testa, gli unici versi nuovi. Li scorsi, rapidamente. Su ­bito dissi: sono belli, molto belli. Erano il frammento di una delle sue prime e più alte liriche, L’alloro: « È per me questo rametto secco – d’alloro sul lastrico grigio. – Mi curvo… ». Il maestro mi aveva ridato il libro, e la penna. Con le mani frantu ­mava la torta di pasta frol ­la, che aveva chiesto, golo ­samente, quietamente.

Per la strada, tornando, guardava la campagna, la gente che passava in bici ­cletta, gonfia del vento che s’era levato. Alla « Villa » scese frettoloso; non volle se ­guirci fino al caffé sulla piazza. Aveva, i primi tempi, cercato di dipingere il figlio del padrone, in vesti scar ­latte, un piccolo cardinale. Poi avevano proibito al ra ­gazzo di posare. Sulla porta erano già apparse due infer ­miere.

De Pisis mi strinse la ma ­no, girò su se stesso, scom ­parve dietro la porta soc ­chiusa, verso i giorni e le notti del Marchesino pitto ­re: « La piccola camera da letto a forma di cuore come quella di Baudelaire… ».

 

 


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A chi dovesse inviarmi propri libri, non ne assicuro la lettura e la recensione, anche per mancanza di tempo. Così pure vi prego di non invitarmi a convegni o presentazioni di libri. Ho problemi di sordità. Chiedo scusa.
Bart