PITTURA: ARTE: I MAESTRI: Quel giorno con De Pisis11 Dicembre 2018 di Alberico Sala Tra le pagine è come gor gogliasse la voce di De Pisis: « Ogni cosa che si scri ve vuol poesia, se no è inu tile… Che gioia talora a get tare sulla carta, la grafia stentata sul foglio bianco, una immagine, una voce che si fa luce nell’intelletto… » Sono pensieri sparsi nel bro gliaccio per il romanzo auto biografico Il marchesino pit tore, pubblicato da Longane si, a cura di Sandro Zanotto, con ventiquattro tavole fuori testo, disegni e fac-simili degli originali. Per discutere del suo li bro di Poesie, che l’amico Enrico Vallecchi intendeva, allora, ristampare (è rima sto, dopo tanto tempo, un progetto), andai una mattina da De Pisis a Villa Fiorita di Brugherio, un nome patetico per una villetta (era l’autun no del ’55: l’ultimo suo) bas sa e polverosa, nel palmo più secco della brughiera lombarda. Non lo conoscevo; avevo sentito favoleggiare di lui a Burano, dal medico, grande amico suo e di Comisso; e da Semeghini. Col baschetto in testa, gli occhi in quieti, il pittore veronese raccontava di quella mattina che uscivano insieme da Ro mano e presso il canale, De Pisis scoprì un brano di car ta gialla da macellaio, con pesce pestato, violento di sangue rosso e nero, per tra verso. Raccolto furtivamen te il cartoccio, era fuggito in trattoria. Quando Seme ghini era tornato per il pran zo, il quadro era finito; De Pisis, sulla porta, fumava la pipa, liberato. Aspettavo nel parlatorio, in una poltrona di colori imba razzanti. De Pisis m’arrivò addosso, dall’alto, alto e ma gro, con la barba arsiccia, la bocca tormentata. Non voleva ricordare nessuno, nessuno lo poteva aiutare. Si mise a sin ghiozzare, e ogni tanto guar dava i due libri che avevo con me: le sue poesie, e una monografia su di lui, il tito lo fiammante che bruciava la copertina candida. («E al lora sentivo che un dono sa rebbero state le lagrime. Il sonno non veniva ma il pian to che lava e ristora un po’ per volta venne sui miei oc chi. Vedevo, tanta era la for za della mia concentrazio ne, vedevo le mani di mia madre … »). S’era acquietato in un mo nologo di suoni, aspirazioni e lievi strilli. Aveva già man giato, ma avrebbe voluto ac compagnarmi in trattoria, per svagarsi un poco. Gli por tarono un berrettuccio grigio, di panno con la visiera, di quelli dei giocatori di base ball, ch’egli calò sul viso im bevuto di malinconia, come una spugna. Sotto il vestito di vigogna (spuntava, da una tasca, un fazzolettone da contadino), indossava anco ra il pigiama di flanella chiara. In macchina arri vammo alla «Trattoria del tram », presso la stazione di Monza. Una rete metallica cingeva il parco dei vagoni gialli e neri. La porta era di vetri colorati, tanti fogli piombati. Sul tavolo, sotto una finestra, era steso un tappeto verde biliardo. De Pisis sedette e inco minciò a sfogliare la mono grafia sulla sua pittura: ave va fermato la bella mano sulla « sua » chiesa di San Moisè, tenebrosa e affasci nante. Con le dita pareva « sentire » i percorsi del pen nello, rinvenire coriandoli e farfalle. Girava i fogli, golo so e allarmato. Ora, tra le mani, aveva una natura mor ta, un pesce sulla riva del mare, della frutta, mi pare, in un angolo. E diceva: «Non lo ricordo. Non so quando l’ho fatto. Di chi è? ». Voltò pagina: una mac chia allegra di colori, un mazzo di fiori dentro un mastellino d’argento, di quel li per lo champagne. « L’ho dipinto in casa Massimo, a Roma. Ogni mattina, che gentili!, mi rinnovavano i fiori. Un profumo che feri va. Ora ricordo, e mi fa ma le la testa ». De Pisis si alzò, s’avvici nò al banco della mescita, coperto da operai e ferro vieri. Restò un po’ a guar dare, poi tornò a sedere, al tavolo che intanto m’aveva no apparecchiato, strasci cando un poco le pantofole. Cercai di avviare una con versazione sulla poesia, sul suo libro, la ragione per cui ero lì. Gli chiesi se avesse scritto dei versi, negli ultimi anni. Mi guardò come se non mi vedesse, come fosse piom bato di colpo in una soli tudine incolmabile. Poi av vampò, scosso dall’ira. Mi chiese una matita. Avevo so lo la penna. La rigirò fra le dita, poi scrisse alcune pa role sbilenche, le primizie, intanto borbottava, di una poesia che gli girava nella testa, gli unici versi nuovi. Li scorsi, rapidamente. Su bito dissi: sono belli, molto belli. Erano il frammento di una delle sue prime e più alte liriche, L’alloro: « È per me questo rametto secco – d’alloro sul lastrico grigio. – Mi curvo… ». Il maestro mi aveva ridato il libro, e la penna. Con le mani frantu mava la torta di pasta frol la, che aveva chiesto, golo samente, quietamente. Per la strada, tornando, guardava la campagna, la gente che passava in bici cletta, gonfia del vento che s’era levato. Alla « Villa » scese frettoloso; non volle se guirci fino al caffé sulla piazza. Aveva, i primi tempi, cercato di dipingere il figlio del padrone, in vesti scar latte, un piccolo cardinale. Poi avevano proibito al ra gazzo di posare. Sulla porta erano già apparse due infer miere. De Pisis mi strinse la ma no, girò su se stesso, scom parve dietro la porta soc chiusa, verso i giorni e le notti del Marchesino pitto re: « La piccola camera da letto a forma di cuore come quella di Baudelaire… ».
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