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PITTURA: I MAESTRI: Bellotto: La seduzione della camera ottica

17 Giugno 2008

di Ettore Camesasca
[Classici dell’arte, Rizzoli, 1974]  

Perché tanti fotografi e cineamatori in ogni angolo del mondo? Certo, importa parecchio il guarda-cosa-ho-visto-io a vacanze finite; e poi gli esibizionismi del rituale, con tutte le sue implicazioni fra le camicette sciagurate alla Cecil B. de Mille e la disinvoltura un po’ mascalzona di Blow up, e con il resto, fra l’antitabù della ‘faccia rubata’ e lo stare ‘dentro’ come addetti ai lavori. La fotografia, inoltre, dà garanzie immense; col suo avallo, anche i più patiti di fe ­deltà naturalistiche accettano astrazioni che, dipinte, li irri ­terebbero. C’è dell’altro. I turisti dall’eterno occhio incol ­lato al mirino di vetro non sono soltanto eroi del consumi ­smo crocieristico e, nel caso dei giapponesi, più o meno consci – si vuole – spiatori industriali: hanno scoperto un altro modo di guardare il mondo, che attraverso l’obiettivo della Canon sembra infinitamente più bello.
Aberrazioni s’intende, droghe per la vista pigra e viziata. Il mondo è magnifico anche a occhio nudo. Eppure l’in ­ghippo dell’obiettivo lo fa apparire migliore da almeno tre secoli; da quando in pittura ha trovato un suo posto il vedutismo, che con la fotografia conta vari principi in co ­mune, come la documentazione, l’artificio della realizzazio ­ne, la composizione selezionata, l’attimo fissato, ecc. Ele ­mento costante della veduta è la prospettiva, prima ancora che la fedeltà topografica. Difatti, per definizione una ve ­duta può essere ‘presa dai luoghi’ (esatta, dal naturale) ma anche ‘ideata’ (o capriccio, di fantasia); ciò che conta è l’impeccabilità, magari la complessità degli edifici raffigu ­rati, con le loro vicende di piani spigoli e scorci espresse esattamente: una cronaca dell’architettura intesa come geo ­metria dei solidi e come teoria delle ombre. Non è una de ­finizione a posteriori; si trova nel Vocabolario toscano del ­l’arte del disegno pubblicato dal Baldinucci, 1681: “Dicono i nostri Artefici talvolta veduta per lo stesso che prospet ­tiva”. Fine di tale verosimiglianza prospettica: stimolare il senso di spaziosità; che deve tradursi in una sorta di eufo ­ria ottimistica, come hanno capito i pubblicitari quando presentano esageratamente dilatata nella ‘fuga’ verso l’oriz ­zonte e, soprattutto in avanti, verso l’osservatore, la pano ­ramica dello stabilimento che fabbrica il prodotto da re ­clamizzare.
Anche l’itinerario del vedutismo conferma il ruolo ege ­monico della prospettiva ‘scientifica’. Sono i quadraturisti e gli scenografi a contribuire col loro illusionismo stereo ­scopico alla nascita del genere. Però le premesse prospettico-scenografiche sarebbero state insufficienti se non fosse av ­venuto l’innesto con la concretezza ottica e realistica sca ­turita dalla scoperta secentesca della ‘verità’. Proprio inse ­rendosi nel discorso avviato dal Caravaggio, verso il 1625 la romantica curiosità per gli accidenti geometrici delle ro ­vine romane conduce Viviano Codazzi alla veduta secundum veritatem; che, pure a Roma, l’olandese Gaspar van Wittel, il Vanvitelli, negli ultimi decenni del secolo fa as ­surgere a piena dignità artistica, condizionando gli esordi di Gianpaolo Panini. Come vedutista, scavalcando gli esem ­pi domestici del Carlevarijs, il Canaletto muove appunto da Vanvitelli e Panini. Roberto Longhi spiega che, una volta acquisiti gli ammaestramenti del vedutismo romano, “per essere più vero” il Canal “si vale della camera ottica” e “proprio allora, miracolosamente, versa poesia”. A nu ­trire gli inizi di suo nipote Bellotto sarà precisamente tale poesia, che con un minimo di forzatura si potrebbe definire ‘meccanizzata’, dando grossi dispiaceri a vari studiosi.
Nonostante il ‘tutto’ – o tempore, ecc. – accaduto nelle faccende plastiche, tollerato anzi tallonato dalla ‘permissi ­vità’ della critica, si continua a condannare nell’uso della camera ottica una degradazione di chi la impiega, perché le opere si ridurrebbero a “traduzioni meccaniche”. Occorre davvero consumare inchiostro contro simili pregiudizi, do ­po le scorpacciate di fotografie fatte da Delacroix e Courbet, da Degas Manet e Toulouse-Lautrec, addirittura dal ­l’insospettabile Cézanne, per cavarne una figura o un’intera composizione? Perché, in nome della purezza artistica, non ritornare alle dita dei preistorici, invece dei facili pennelli? Ci siamo entusiasmati sull’arte nata dall’arte, o più alla buona sulle copie dipinte dai grandi d’ogni tempo (la lista può iniziare con Duccio ed estendersi fino a Picasso, indi ­scusso e inesauribile inventore di forme, nonché copiatore di quasi tutto il copiabile fra Cranach Velázquez e Dela ­croix: principe dei copiatori, sebbene il primato spetti forse a Rembrandt o Rubens), e l’entusiasmo si giustifica in pieno per il raggiungimento di una colma ed emozionante auto ­nomia; eppure stiamo a discutere di modelli leciti e illeciti. Tanto più quando, non da oggi né da ieri, si è compreso che anche la macchina fotografica può costituire un tramite allo stile, all’arte pura; e quando perfino la copia dipinta esattamente (o quasi) da una foto riesce a darci le sue brave palpitazioni. Chiaro che il segreto risiede nella tempra del copista.
Oltretutto, nel caso della camera ottica, mentre alcuni critici – Meschini per esempio – pensavano di aver tro ­vato nel Quaderno di disegni alle Gallerie veneziane la pro ­va che il suo autore, il Canaletto, vi era abbondantemente ricorso, pubblicando un approfondito studio del Quaderno stesso, Pignatti negava recisamente tale impiego, ammetten ­do che al più l’artista si fosse servito dell’apparecchio per eseguire alcuni ‘scarabocchi’ d’assieme (‘scaraboto’ è il termine usato dal Canal), distrutti dopo essere serviti da guida nelle riprese – a mano libera – delle vedute parziali che vi si riferivano; cosicché ” parrà un paradosso, ma siamo giun ­ti alla conclusione che, dopo tanto discorrere di disegni fatti con la camera ottica, forse non ce n’è rimasto nem ­meno uno”. All’indiscussa serietà dello studioso si aggiunga che Pignatti aveva avuto lo scrupolo di sperimentare una camera ottica del Museo Correr recante l’antica scritta “A. CANAL”, indice di una probabile appartenenza al mac ­ero, e dai reiterati esperimenti era emersa l’impossibilità di ottenere schizzi come quelli del Quaderno. Al Pignatti re ­plicava Gioseffi sostenendo un’ipotesi opposta, con argomen ­ti che incontrano vari consensi (da parte di Oertel, Carter e altri fino a Kozakiewicz).
Per chiarire la portata di questi argomenti occorre spie ­garci sulla camera ottica. Il suo principio è ben noto, e ne parla già Aristotile nei Problemata: se in una stanza al buio (camera oscura), attraverso un foro praticato nella pa ­rete verso mezzogiorno entra un raggio di luce naturale, l’immagine del sole si stampa rotonda sulla parete di fronte, qualunque sia la forma del buchette. In realtà ogni imma ­gine, del sole o altro, si proietta – invertita e capovolta – sulla superficie opposta a quella d’entrata: poco luminosa, non del tutto limpida, ma fedele dal lato prospettico. Già nel sec. XIII Ruggero Bacone si rivela in possesso di una camera oscura – o ‘cassa’ o ‘camera ottica’, come si pre ­ferirà chiamarla – corredata di specchio debitamente incli ­nato per ribaltare l’immagine proiettata, di modo che questa non apparisse più invertita; in seguito, adottando opportune lenti e schermi, si giunse a proiezioni nitide e raddriz ­zate. Il filosofo napoletano Giambattista Porta poteva scri ­vere (1558) che chiunque, per quanto digiuno del disegno, è in grado di ricalcare le figure riflesse nella camera, otte ­nendo risultati somigliantissimi; dieci anni dopo Daniele Barbaro, teorico veneziano d’architettura, consigliava l’ap ­parecchio agli artisti per tracciare prospettive. Sappiamo che Keplero se ne serviva nella ripresa di paesaggi, e che la sua camera era portatile. I vedutisti della seconda metà del Seicento impiegavano normalmente strumenti analoghi. Dei vari tipi esistenti, i più diffusi erano la camera a portantina, vera e propria cella di legno in cui trovava posto il disegnatore, comoda ma ingombrante; e quella che di legno aveva appena l’armatura, e il resto di panno nero, dove l’operatore infilava soltanto la testa e le mani, creando il buio con le cortine, un po’ scomoda ma leggera. Questo secondo tipo si scorge riprodotto, con l’artista all’opera, in una stampa (1750-62) dell’architetto G. F. Costa che, parti ­colare interessante, come acquafortista dipende dal Canal. Che la camera fosse usuale anche fra i pittori del sec. XVIII e che nessuno vi scorgesse sotterfugi degradanti da conferma per esempio il paesista veneto Giuseppe Zais; scrivendo a un patrono bergamasco per comunicargli che lo raggiungerà presto, avverte: “venendo, porterò meco la cassa optica” per “poter copiare” gli aspetti di Berga ­mo. La lettera è del 1770, quando lo Zais era affermato da decenni; questo, nel caso si volesse pensare a mezzucci da principianti. Del resto, i teorici ne erano entusiasti. L’Algarotti, esaltandola nel Newtonianismo per le dame (1737), assicura che le sue immagini sono così precise “che un paese di Marchette Ricci, o una veduta del Canaletto male vi starebbono a fronte”; altrove segnala (1764): “Molto di essa si vaglione i più celebri pittori che abbia ­mo oggigiorno di vedute”, e un innominato “valentuomo” la considera il mezzo principale “a far risorgere a’ dì nostri la pittura”. Tanto importante, dunque, che l’Algarotti in ­segna come si costruisce “codesto occhio artifiziale”. Però, l'”ordigno” da lui prospettato non sembra nessuno di quelli richiamati finora, bensì d’un tipo diverso, quale lo descrive già nel 1665 padre Johann Zahn: dotato di teleobiettivo e di specchio inclinato per ribattere il fascio luminoso verso l’alto, su uno schermo di carta oleata, poi sostituita da vetro smerigliato, dove l’operatore – ovviamente stando fuo ­ri dell’apparecchio, che si presenta come una cassetta lun ­ga meno di mezzo metro – scorge l’immagine, “di una chiarezza” precisa ancora l’Algarotti “e di una forza da non dirsi”. Uno di questi strumenti si scorge nel ritratto del pittore F. J. Beich eseguito nel 1715 dal collega G. Desmarrées, e – manipolato da alcune signore – in un acque ­rello fine Settecento dell’inglese P. Sandby (collezione Mel ­lon). È identico a quello del Museo Correr servito a vagliare i disegni del Quaderno canaliano. Dal fatto che anch’esso si chiami camera ottica e che per vari studiosi – compresi specialisti di fotografia come Aaron Scharf – sia anzi la ca ­mera ottica per antonomasia, sono derivati parecchi equi ­voci; fra i molti, quello che il Canal e tutta una schiera di pittori – da Vermeer a G. M. Crespi, fino a Reynolds e poi – se ne siano serviti nell’arco di due o tre secoli per dise ­gnare vedute dal naturale. In realtà, riferendoci al Canal, lo avrebbe aiutato ben poco – come avverte Pignatti – a districarsi nel bailamme figurativo della Piazzetta o del Canal Grande, con decine di edifici, ciascuno con decine di finestre comignoli cornici mensole, impossibili da isolarsi uno per uno sul formato cartolina del vetro smerigliato, mentre gli schizzi del Quaderno presentano ogni membro architettonico reso separatamente e nitidamente. La stessa esattezza, qualità a parte, è stata invece conseguita da Gioseffi valendosi di una camera dell’altro tipo, con il disegna ­tore tutto o in parte nel suo interno e che sola, attraverso riprese opportunamente frazionate, fornisce immagini ab ­bastanza grandi da permettere l’individuazione, e il ricalco, dei singoli particolari. Difatti, nell’acquaforte del Porta è proprio una camera di questo genere quella in cui il dise ­gnatore sta armeggiando. E allora, quale l’utilità del mi ­nivisore? Nel caso del Canal può essere servito, secondo il parere di Pignatti, appunto a ricavare gli ‘scarabocchi’ d’as ­sieme per orientare e, poi, riunire gli schizzi parziali che otteneva, non però a mano libera ma a ricalco, con la ‘cassa’ più grande; ricalchi che in effetti portano indicazioni di “bande” (“Parte prima banda sinistra” e così via) riferi ­bili al montaggio finale, mentre alcune scritte riguardano i colori, come ” Z ° ” (zalo = giallo), ” Zn ” (zenerin = cinerino) e “Zn scuro”. Ad altri, il visore può aver fornito boz ­zetti cromatici da ingrandire nell’atelier, anche senza che esistessero ricalchi disegnativi desunti con l’altra camera, risultando comunque utilissimo nella scelta del taglio com ­positivo e nella sintesi degli elementi figurali; in tal senso deve essere stato la manna dei dilettanti, viaggiatori del Grand Tour e dame algarottiane (pensiamo all’acquerello di Sandby), evitandogli di andare in oca di fronte alle com ­plicazioni della natura.
Un disegno in collezione Brooke col castello di Warwich ripreso dall’Avon, pure del Canal, pare recasse sul retro un’iscrizione che lo dichiarava eseguito per mezzo del ­la camera ottica: forse si trattava d’una garanzia di fedeltà riproduttiva. Non sembra avventato supporto, visto che l’abate Lanzi annota: “Servivasi il Canaletto per le sue prospettive della camera ottica quanto all’esattezza”; poi seguita con ulteriori delucidazioni, che però conviene leg ­gere nello Zanetti, dove sono state attinte: “Insegnò il Canal con l’esempio il vero uso della camera ottica; e a co ­noscere i difetti che recar suole a una pittura, quando l’ar ­tefice interamente si fida della prospettiva che in essa ca ­mera vede, e delle tinte spezialmente delle arie, e non sa levar destramente quanto può offendere il senso”. Tutto questo fa credere che all’atto pratico l’impiego della camera non fosse molto semplice e che le lenti e il resto, introdotti per facilitarlo, avessero finito col richiedere una certa peri ­zia tecnica. Andava detto prima: camere ottiche con l’ope ­ratore all’interno non ne sono pervenute, e occorre proce ­dere un po’ a tentoni. Ad ogni modo, le prove eseguite da Gioseffi mediante un apparecchio ricostruito suggeriscono che fossero necessari un’avveduta scelta dell’ottica – teleo ­biettivi piuttosto che grandangolari, e viceversa -, leggeri ma giudiziosi basculaggi, rotazione dello strumento e vari accorgimenti ancora, se non altro per correggere le distor ­sioni di una cupola o di un campanile troppo incombenti e, soprattutto, per coordinare in un’unica fuga prospettica le molteplici riprese indispensabili a fissare panorami di va ­ste dimensioni. Una frase dell’Algarotti, considerata alla lu ­ce di tali esigenze, assume speciale valore: “Quell’uso che fanno gli Astronomi del canocchiale, i Fisici del microsco ­pio, quel medesimo dovrebbon fare della Camera Ottica i pittori”.
Siamo, insomma, in pieno clima di Illuminismo, con la sua sconfinata fiducia nell’infallibilità della ragione, presup ­posta dai progressi della scienza e della tecnica. In partico ­lare, la cultura illuministica segue un precipuo impegno: chiarire la struttura e la meccanica del pensiero. Nella mente si formano immagini sia di fronte a un oggetto sia in sua assenza, che dunque coinvolgono la percezione diretta e la memoria, la fantasia verosimile e quella più galoppan ­te: cioè, la mente attiva, interessata a conoscere la realtà, e la mente sbrigliata nel desiderio di evadere dalla realtà. Discriminare fra i due modi mentali equivale a isolare il vero. Al livello pittorico, dopo i mescolamenti attuati dalla cultura figurativa del Barocco, significava per esempio di ­stinguere là decorazione dei quadraturisti, perseguibile at ­traverso un mestiere estroso, da una ricerca ‘scientifica’ realizzata mediante tecniche continuamente sottoposte al controllo della ragione, come nel caso della veduta ‘secondo verità’.
Col passaggio dalle prime vedute pastosamente scenografiche e ancora ‘ideate’ per l’acrobazia dello scorcio, alle vedute ‘esatte’, dove l’ordito geometrico mirante a realizzare la profondità dello spazio si concreta in una sintesi alta ­mente fantastica di illusorio e reale, e diviene verità pitto ­rica, anche per il fare controllatissimo; con questa ‘svol ­ta’, il Canal era dunque venuto a inserirsi nell’Illuminismo europeo, trovando una via alla realtà stereometrica, anzi il mezzo di discriminazione fra i piani luminosi e i piani in ombra (“II primo passo per comprendere il chiaroscuro è in studio della prospettiva” scriverà Diderot), nella camera ottica, idonea a vedere pulito, a sfrondare i dati della na ­tura da qualunque vecchia astuzia di gusto barocco per poi assimilarli al colore, steso in note limpidamente distinte, ciascuna con un tocco preciso.

 

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Queste idee e i fatti che ne erano conseguiti avevano te ­nuto a battesimo l’arte del Bellotto; e, dopo aver condi ­zionato l’affermazione della sua individualità, dovevano marcarla per sempre.
Negli anni giovanili, a Venezia, è tale la vigilanza dello zio, che il Bellotto si rivela – quando gli riesce, o riesce a noi di rendercene conto – pressappoco un suo alter ego, grazie anche agli amalgami di pennellate che si coagulavano nelle botteghe di allora. Ma già sui vent’anni, alle prese – da solo – coi palazzi e i fiumi della Toscana e di Roma, si lascia attrarre da addensamenti di ombre e luci come in bottega del Canal non se ne erano mai visti e che, immagi ­nandoli suggeriti dalla camera ottica, verrebbe il dubbio di un ricorso a lenti affumicate. Comunque la prospettiva non rivela la minima pecca: ogni cosa al punto giusto, con se ­quenza e coerenza perfette. Allo zio qualche incidente era capitato: verso il ’30, dipingendo la Scuola di San Rocco (Woburn Abbey), dove il piano del campiello accanto allo spigolo dell’edificio sulla sinistra presenta un abbassamento per cui le due macchiette dietro il gentiluomo in tricorno sono sembrate “bambini” o “nani”, mentre si tratta di due adulti normali in un posto prospetticamente sbagliato; o quando, poco dopo, nel Bacino di San Marco (Wallace Collection) forza curiosamente gli archi sul lato della Dogana, forse – sospetta Watson – per avere esagerato col teleobiettivo; ancora, certi disegni di Windsor rivelano di ­latazioni che Parker crede da attribuire a un grandangolare fuori misura; il campanile di San Marco, poi, maestro Canaletto lo ha quasi sempre dipinto più sottile del vero, dapprincipio per correggere la convergenza verso l’alto pre ­sentata dalla camera, successivamente per un’abitudine che anche il nipote adotta in qualche disegno giovanile (Darmstadt, Hessisches Landesmuseum). Ma a Roma evita di cascarci; campanili e torri hanno la loro precisa grossezza, e tutto il resto fila alla perfezione.
Tornato a Venezia, dopo nuovi e forse non sempre pacati scambi di idee col Canal, riprende presto il cammi ­no da solo, verso Milano e Torino. A mezza strada, nei din ­torni di Varese fa un colpo da maestro. Non si sa chi fosse il committente delle due famose vedute di Brera, (tav. I e III); pensare al conte Simonetta – per il quale l’artista aveva dipinto subito prima villa Melzi di Vaprio d’Adda – o a uno dei Melzi stessi – dato che un’altra loro villa era di nuovo in causa – esaurisce le ipotesi assennate. In ogni caso, persone sensibili ai ‘lumi’ che si erano accesi fra Lon ­dra e Parigi; e il Bellotto ammannisce una chicca da de ­liziare il palato dell’illuminista più buongustaio. La prima delle due vedute presenta il paese, Gazzada, come può mo ­strarlo una finestra di villa Melzi; e magari il quadro era da appendere in modo che il controllo della verità riuscisse immediato. Tuttavia l’evocazione più straordinaria del reale avviene con l’altro dipinto, il ‘controcampo’ dal paese verso la villa. Un sopralluogo garantisce anche per questo una precisione assoluta. La villa (come era a quei tempi, s’in ­tende), il suo avancorpo centrale, il numero e la forma del ­le finestre (una, aperta, piacerebbe crederla quella da dove fu ripreso il quadro precedente), il cancello con tutto il resto; e, dietro la villa, i paesi della piana sottostante, Al ­zate, Buguggiate, fino a Capolago e al lago di Varese; quindi, la cortina delle prealpi e, ultimo, il monte Rosa: tutto da riscontrare, i dettagli superstiti o ricostruibili e la topografia, immutata; tutto, salvo il punto di ripresa. Sa ­lendo sul campanile di Gazzada, la villa appare, lì di fron ­te, come nella tela di Brera, però molto più vicina; e poi, alberi a parte, alle sue spalle non si alza che ciclo: pianura paesi lago e montagne rimangono nascosti. Dietro il cam ­panile, dunque inadatto come osservatorio, l’eventuale po ­stazione più vicina si trova a due chilometri, sul colle fra Gazzada e Lozza. Ma neppure dal colle, nemmeno scalando un vecchio roccolo che torreggia malconcio sul crinale, si scorgono né Alzate e Buguggiate né il lago e i monti, an ­cora celati dal rialzo dove sorge villa Melzi. Per riuscirci, bisogna tornare proprio alla villa, nel salone sul lato opposto a quello presentato dal dipinto; qui, finalmente, si ammira la ‘prospettiva’ che fa da sfondo alla veduta. Così il Bellotto, proponendo il panorama dal salone verso il lago, met ­teva in grado di scorgere nel tempo stesso l’edificio conte ­nente il salone e anche una parte di ciò che stava davanti all’edificio, collocando idealmente gli occhi dell’osservatore al posto di quelli d’un uccello in volo, l’unico volo allora concepibile, visto che le mongolfiere avrebbero volato quarant’anni dopo. Un miracolo di pittura ‘scientifica’, di pret ­ta marca illuminista, derivante dalle illimitate possibilità del pensiero umano e controllabile razionalmente.
Inoltre le due tele di Brera sono importanti perché ri ­velano caratteri che, differenziandolo a fondo per la prima volta dal Canal, il Bellotto conserverà pressocché inalterati. In particolare la luce, che cala vitrea e avvolgente: un ri ­vestimento corposo, perfino grasso, come se l’atmosfera non fosse che una lente d’ingrandimento adibita a rivelare ed esaltare le emergenze luminose e le cave d’ombra, alle quali principalmente è affidata (vedi Diderot) la misura dello spazio. Una luce immutabile. Per i critici italiani, quando il pittore la stende sulle contrade del Varesotto o sulle mu ­raglie di Torino, anticipa quella del Settentrione; per i tedeschi e polacchi, vedendola impregnare le chiese e i ponti di Dresda o Varsavia e le Residenzen viennesi, rimane la luce generosa del Sud. Molto difficile decidere. Senza dub ­bio appare identica ovunque il Bellotto dipinga, in Lombar ­dia come in Piemonte, in Sassonia e in Austria come in Polonia. Intensa e fredda nel tempo stesso; quasi l”effetto notte’ di certi film, o un paradossale ‘effetto giorno’ girato al chiaro di luna; sempre prodotta – sotto cicli per lo più limpidi – da un sole invisibile ma evidentemente sgombro di nuvole, e basso sull’orizzonte, perché il Bellotto sa il se ­greto di ogni fotografo: le ombre debbono essere lunghe. Non può rinunziare a quella luce. In quarant’anni, fra Dresda Vienna e Varsavia, dipingerà un centinaio di ve ­dute; non una con la neve o un fumo di nebbia, mai nep ­pure il sospetto di maltempo. Una stagione eternamente elisia: primavera avanzata o autunno incipiente. Malgrado le lenti e gli altri marchingegni, la camera ottica richiedeva molta luce naturale; donde, il ‘bello costante’ della meteo ­rologia bellottiana.
Così come la luce, che anche la cromia del Bellotto stesse in rapporto con la camera ottica è un’ovvietà che consegue in forza delle leggi fisiche; vale tuttavia la pena di controllare fino a quale punto. Nell’antinewtoniana Teo ­ria dei colori Goethe ricorda che vari artisti definivano “unto”, addirittura “lardoso”, il velo che appanna nei mezzi piani e nei fondi le immagini della camera. Il new ­toniano Algarotti è solo apparentemente di idea diversa; per lui, nella ‘cassa’ il colore si mostra “di un vivo, e di un pastoso insieme, che nulla più. I chiari principali delle figure vi sono spiccati e ardenti nelle parti loro più rilevate ed esposte al lume, digradando insensibilmente di mano in mano che quelle declinano. Le ombre sono forti bensì, ma non crude; come non taglienti, ma precisi sono i dintorni”. Gravesande (1755) è esplicito: “il modo in cui vediamo gli elementi naturali nella camera oscura è diverso da quello in cui li percepiamo naturalmente” perché le ombre sem ­brano più cupe, i colori più forti, più vividi, e un buon artista dovrebbe starci attento. Ruskin (1843) fa un rilievo curioso: “Spesso, osservando le immagini offerte dalla ca ­mera in un giorno poco luminoso, sono rimasto colpito dalla completa somiglianza con le migliori pitture dei maestri an ­tichi: tutto il fogliame diventa scuro contro il ciclo, senza lasciar scorgere altro della sua massa se non qua o là le luci isolate di un ramo argenteo e grappoli di foglie strana ­mente illuminati”.
Basta esaminare le tavole riunite nelle pagine seguenti per accogliere queste citazioni come un loro commento di puntuale aderenza. Esse sollevano inoltre l’interrogativo se, affrancatosi dalla guida del Canal e passato a quella della camera, impiegando l’apparecchio ottico a Gazzada in una giornata un po’ buia, il Bellotto non abbia scoperto luci e colori diversi da quelli dello zio e diversi da quelli ‘normali’. ma che, trasfigurando la natura, gliela restituivano come la sentiva dentro di sé, tanto da non staccarsene più. Un’ipo ­tesi semplicistica, è chiaro, che se onora solo in parte ten ­denze già manifestate a Roma e perfino in precedenza, nella bottega del Canal, fa giustizia sommaria dell’imprescindi ­bile fenomeno che è lo svolgersi della cultura figurativa. Ma per un pittore l’occhio ha il peso che tutti sappiamo, e vari episodi – arcinoto quello di Mondrian – confermano l’importanza determinante di un’emozione visiva provata nel momento giusto. Fatto sta che a Gazzada, e non qualche settimana prima a Vaprio d’Adda, da bravissimo allievo del Canal quale era ancora a Vaprio, il Bellotto diviene unicamente e magnificamente se stesso. Qualcosa d’improv ­viso deve essere accaduto. Se non conosciamo perché fosse il momento giusto, nella curiosa mancanza di altre ipotesi resta possibile supporre che dalla camera sia scaturito il colpo d’occhio decisivo.
La sua dipendenza dalla ‘cassa’ è stata postulata anche attraverso altre considerazioni. Nella prima monografia sul Bellotto (1936), esaminando tre vedute di Dresda (i nostri n. 93, 95 e 101) Fritzsche riscontrava che le linee in fuga di alcuni elementi convergono a punti diversi. Ora, mentre queste linee appaiono ortogonali e parallele in piante topo ­grafiche del Settecento e mentre sembrano effettivamente tali a occhio nudo, rilievi moderni indicano invece l’esat ­tezza delle irregolarità registrate dal Bellotto, e le fotografie la confermano. Dunque, conclude Fritzsche, l’artista non può che essersi valso della camera ottica, fedelissima registratrice di prospettive. Sulze (1955) ribadisce le conclusioni; studiosi successivi, Rupp e Gernsheim, le estendono ad altri dipinti. Autori più recenti contribuiscono al problema par ­tendo però dal presupposto contrario, della camera come causa di distorsioni. Così, Scholze nota nel Mercato di Pirna che gli abbaini delle case sono diversi dalla real ­tà perché l’uso dell’apparecchio (meglio, dell’apparecchio con un’ottica aberrante, richiesta da speciali esigenze) im ­pedì di riprenderli esattamente; per Scharf, la generale compressione delle forme architettoniche nelle vedute di Varsavia palesa il ricorso a teleobiettivi. In questo senso sono proponibili esempi finora inosservati, come il drappello di cavalleria che si allontana nel fondo della Frauenkirche a Dresda e il cambio della guardia, a si ­nistra nella panoramica di Varsavia dal Castello Reale. I nostri foto e cinecronisti, riprendendo una sfilata militare da lontano e necessariamente per mezzo del teleobiettivo, fissano immagini in tutto simili, coi soldati dell’ultima fila che sembrano più alti di quelli davanti; un effetto sconvolgente che tutti abbiamo avuto modo di riscontrare nei rotocalchi o alla tv. Gli esempi si potrebbero moltiplicare. Ci siamo limitati a uno della maturità da raf ­frontare con uno giovanile, perché in questi casi è sempre in agguato la scusa della senescenza e relativo infrollimento sensorio, con cui certi esegeti hanno spiegato un’infinità di rose. Si può inoltre fare presente che, nel secondo soggiorno a Dresda, quando il Bellotto voleva dimostrarsi prospettico inappuntabile al giudizio dell’Accademia imperante, non uno di questi sgarri riesce a scappargli. Kozakiewicz, il suo più recente studioso, di fronte al problema di tali “con ­traddizioni”, pensa che “fino a un certo punto” contasse “la subordinazione del motivo [singolo] alla simmetria e all’equilibrio del tutto” e che a volte si trattasse di “tenta ­tivi antirealistici per abbellire la veduta”, come in Vienna dal Belvedere, dove viene adottato “un doppio punto di fuga per aumentare l’impressione compositiva”. In effetti, la vigilanza del pittore sul proprio lavoro ha del prodigioso. Non è una novità che le sue vedute sono state il riferimento costante nella ricostruzione di Varsavia dopo le atroci distruzioni dell’ultima guerra: documentazione, la sua, che ha fatto aggio su quella fotografica. Insomma, sa ­rebbe grottesco ammettere che si impappinasse di fronte a un panorama da mettere in prospettiva coi crismi della disciplina geometrica.
Vero è d’altronde che il Bellotto, riproduttore diligente fino al millimetro, non scorda mai le esigenze superiori dell’arte. Un esempio fra i molti possibili: verso il 1767 dipinge Cracovia, sobborgo orientale di Varsavia, in una tela dove il fondo è chiuso da una fila di casette; nel ’71 riprende il tema all’acquaforte, ma qui, al posto di due delle casette, appare la bella palazzina del dottor Wasilewski, sorta nel frattempo e che l’artista non manca di registrare; il nuovo edificio è molto più alto dei due preesistenti, e il serrato profilo dei tetti che, partendo dalle costruzioni in primo piano, formava nella tela una curva ininterrotta, adesso si interrompe, spezzato da una massa diretta verso l’alto. Il Bellotto ne sente l’appello for ­male, e verticalizza tutti gli elementi della visione, dalla co ­lonna e dal campanile che le sta accanto, alla casa sul lato opposto della via, a ogni altro motivo architettonico e alle macchiette, che pure si snelliscono. Poi, nel ciclo, che il di ­pinto presentava quasi libero, crea un doppio anfiteatro di nubi bianche e scure, destinato a serrare di nuovo l’immagine con un robusto motivo coordinatore, così come nel di ­pinto stesso la concludeva il profilo ininterrottamente curvo delle case.
La fiducia nel mezzo scientifico sta bene quando gli permette di anticipare l’esattezza dei teodoliti e degli obiet ­tivi fotografici a venire; può andare anche se gli mostra luci e colori che per la loro ‘untuosità’ sembrano nordici agli osservatori meridionali e mediterranei a quelli del Nord: in fondo anche l’estro degli artisti (diciamo meglio: la vo ­lontà trasfiguratrice del Bellotto, così sottilmente lirica) vuole la sua parte. Ma quando la camera suggerisce una fila di abbaini più bassa del dovuto o una pattuglia militare che sembra ribaltarsi all’indietro, come si conciliava una fiducia perfino cieca con una scrupolosità così vigile e rigorosa? E c’è dell’altro. Spinto da curiosità o dall’ambizione d’essere pittore ‘di storia’, il genere più reputato della gerarchia ac ­cademica, nelle vedute polacche il Bellotto incrementa pa ­recchio il numero delle figure. L’aveva scritto anche Diderot nel suo francese tanto trasparente: un vedutista è “peintre d’histoire et de la première force” se presenta una “moltitude […] d’actions, d’objects et de scènes particulières”; le figure – proseguiva – debbono risultare assortite come nella società umana, dove “ogni ordine di cittadini ha un carat ­tere e un’espressione propri: l’artigiano, il nobile, il plebeo, il letterato, l’ecclesiastico, il magistrato, il soldato”; ma è da pochi arrivarci, perché richiede “una profonda esperien ­za dei fatti della vita”. Al Bellotto, ormai sulla cinquantina e più, l’esperienza non mancava. Inoltre, già da prima le sue figure erano ben più delle semplici “marionette” inserite dal Canal o dal Guardi (Levey) come meri punti fermi nel discorso stereoscopico, secondo le leggi del vedutismo che, nel nome esclusivo della prospettiva, esigono imperturbabilità verso i fatti umani. A Varsavia, poi, la novità e varietà dei costumi in bilico fra Occidente e Oriente diventavano irre ­sistibili. Nel Bellotto si traducono in una cordiale polemica, che coinvolge l’attesa quieta del venditore di stampe e l’esi ­bizionismo della borghese alla moda di Parigi, l’attività stri ­dula dell’arrotino, il bisbiglio dei mercanti ebrei e la mutria impettita del cocchiere a cassetta o dell’ulano in libera uscita. Assieme a tanti altri, il pittore li ritrae con la so ­lita diligenza appostando la camera ottica su una finestra o su un balcone. Però, così dall’alto e per ragioni connes ­se alle leggi dello scorcio, gli capitava a volte di registra ­re macchiette un po’ strane, dalla gran testona sul corpo atticciato; e immesse tali e quali nella prospet ­tiva della veduta, causavano, non ‘abbellimenti’, bensì pal ­mari ‘deformazioni’ che, come gli schiacciamenti prospettici, avrebbero intrigato i critici meno permissivi. E il Bellotto, né strabico né arteriosclerotico? molto probabilmente lui non li avrà chiamati ‘dinamismi interni’; ma di sicuro do ­vevano sembrargli note di tonificante dissonanza in un con ­certo perfettamente armonizzato, spunti di vitale ed esal ­tante immediatezza nel meditato congelamento del pano ­rama, dalla cui verità prospettica approdava alla poesia. Di ­derot aveva pure scritto: ” La figura sarà sublime non quan ­do vi troverò l’esattezza delle proporzioni, bensì quando essa rifletterà un sistema di deformazioni coerenti e necessarie”.

 

 

 


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Bart