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PITTURA: I MAESTRI: Umberto Boccioni: Alle fonti della contestazione

2 Luglio 2008

di Aldo Palazzeschi
[Classici dell’arte, Rizzoli, 1969]

Non saprei proporre un argomento più appropria ­to dell’opera della vita e del temperamento di questo artista morto all’età di trentaquattro anni cinquantatré anni or sono, per parlare ai giovani d’oggi, tanto sulle loro inquietudini, sulle loro aspirazioni, impazienze e intemperanze vedo aleggiare il suo spirito.
In un bellissimo studio critico su Umberto Boccioni, dice Giulio Carlo Argan: ” Di Umberto Boccioni, morto a poco più di trent’anni, non conosciamo che le espe ­rienze generose e le tappe bruciate di una formazione impaziente ma in nessun modo inquieta. È difficile dire s’egli avesse tutte le qualità di un grande maestro ma ogni atto della sua breve carriera d’artista appare det ­tato da una scelta motivata e sicura, reca l’impronta di un temperamento deciso ad affrontare tutte le espe ­rienze e a trarre da esse tutte le conseguenze”.
Benissimo detto. Vorrei solo aprire una breve pa ­rentesi su quel: “in nessun modo inquieta”, non in ­quieta per fatto di dubbio o d’incertezza sulla scelta creativa; da quell’uomo nei confronti dell’arte di ec ­cezionale cultura, Boccioni aveva idee chiarissime fino dal punto di partenza di quello che voleva, dell’arduo compito che ogni volta si proponeva, non ne conobbi uno altrettanto sicuro della propria scelta, ma d’altra parte non ne conobbi un altro altrettanto inquieto e tormentato, con sé stesso in continuo assetto di guerra relativamente ai risultati di quella scelta medesima; senza concedere un attimo di requie all’anima illumi ­nata da un ambizioso miraggio di grandezza e non rap ­presentando mai nel suo percorso un punto di arrivo ogni realizzazione e ogni nuova audace esperienza ma soltanto una tappa, da lasciar pensare talora, osservan ­dolo, a un prigioniero che batte la testa contro il muro che lo serra.
Non ci troviamo di fronte a un naif che reca un nuovo profumo nell’arte col puro istinto e una grazia giovanile insolita e pressoché inconscia; né a uno che si rifà a motivi primitivi o ad espressioni addirittura di barbarie per iniettare nuova linfa nell’arte pervenuta a un punto di stucchevole rilassatezza e d’anemia. di inerzia; Boccioni rideva di quelli che assillati da un’aspirazione di rinnovamento andavano a dipingere nelle isole remote dell’oceano o popolavano i loro studi di feticci e sculture primitive provenienti dai paesi più remoti dell’Africa, giudicandoli fenomeni d’infantili ­smo e di superficialità; aveva piena coscienza e cono ­scenza di quello che sdegnosamente respingeva, una tradizione che portava nel sangue e nelle ossa, ma che vedeva irreparabilmente conclusa, estinta, e attraverso la quale gli sarebbe riuscito facile raccogliere ottimi frutti mediante un compromesso di cui conosceva i se ­greti per ottenere il successo rapidamente e con la mas ­sima disinvoltura: era essenzialmente un critico e un teorico, la sua conquista doveva comprendere tutti quello che era stato fatto prima quale naturale conse ­guenza senza che ne trapelasse la minima traccia, ed esprimere con uno sforzo supremo della volontà il tra ­vaglio dell’esistenza umana con tutti gli apporti del momento nel quale l’opera d’arte veniva compiuta: tutta l’opera di Boccioni rappresenta questo sforzi supremo di una volontà. Di qui la pittura degli stati d’animo, le sue scene di folla, le visioni delle grandi città moderne col fervore dei loro cantieri e la teoria dei loro edifizi che aspirano alle vette celesti in uno slancio di esaltazione lirica; e di qui il massimo tor ­mento dell’artista intellettuale che opera in piena co ­scienza e conoscenza di un passato che respinge e ne! quale può ricadere senza accorgersene o cedendo alle sue subdole lusinghe, cadendo in uno dei suoi alletta ­menti e agguati in un istante di debolezza.
Nel suo libro sul dinamismo plastico Umberto Boc ­cioni ci dichiara: “da Giotto a Masaccio, a Michelangiolo tutti gli artisti lavorarono per trasmettersi suc ­cessivamente un mezzo che doveva, arricchendosi ne! suo cammino, condurre all’esplosione dell’ideale cri ­stiano-pagano. La Cappella Sistina poté essere com ­piuta in quattro anni perché nulla v’era da ricercare. Con Michelangiolo lo spirito interpretava sé stesso manifestandosi. L’artista non era, come nell’epoca nostra, un intermediario tra la natura e l’opera. Era giunto il felice momento in cui l’identità perfetta produce senza errare, perché riflette sé stessa”.
Giustissimo. Al genio di Michelangiolo millenni di conquiste dello spirito andavano a consegnarsi come sudditi al trono del Sovrano per una resa di conti al sommo di una via grande e luminosa, mentre vediamo l’artista dei nostri giorni come un operaio armato di pala e di piccone che lavora per aprire la nuova. “Do ­po Raffaello, Leonardo e Michelangiolo”, è sempre Boccioni che parla, ” l’umanità esaurì in arte la formu ­la di un sublime definitivo. Con questi tre artisti l’arte raggiunse il massimo sviluppo di una parabola che saliva da millenni, l’astratto degli Dei e degli eroi el ­lenici si completa ed esaurisce solo quando giunge al ­l’angoscia cristiana interna di Michelangiolo”.
Ma per consentirci di stabilire la posizione di Boc ­cioni di fronte all’arte nell’ora breve che gli venne as ­segnata, è necessario conoscere di questo importantis ­simo libro il capitolo che tratta: “perché non siamo impressionisti”. “Gl’impressionisti che ho chiamati al ­trove, a causa del loro sperimentalismo, temperamenti scientifici, furono i veri iniziatori del grande distacco dal passato. Con gl’impressionisti le pietre, le piante, gli animali cominciano a cambiare forma e soprattutto colore. E quello ch’è importante è che incominciano a perdere il loro valore sentimentale di immagine. Essi perdono, è vero, con ciò una dimensione: la profondi ­tà, ma hanno pur sempre conquistato un nuovo corpo: l’atmosfera. Per la prima volta un oggetto vive e si completa con l’ambiente, dandone e ricevendone le influenze; per la prima volta si vede, sulla guancia fino ad ora rosea, l’accidentalità verde del prato sul quale ci troviamo e sul nostro vestito il rosso del canapè sul quale siamo seduti. Occorreranno trent’anni prima che questa compenetrazione e simultaneità, limitata negli impressionisti al colore, si evolva anche alla compene ­trazione e simultaneità delle forme, e questa evoluzio ­ne così logica e così chiara susciterà lo scherno e le ostilità feroci che il buon pubblico prodiga ai pittori futuristi.
” Quindi facciamo una reazione violenta all’impres ­sionismo e proclamiamo di un nuovo ordine plastico, di una nuova gradazione di valori costruttivi. Ma nes ­suna affinità ci fa simpatizzare con gli ordini gerarchici tradizionali come avviene in alcuni cubisti fino allo smarrimento della verità. Pur ripudiando l’impressio ­nismo ne disapproviamo energicamente la reazione at ­tuale”, vedi cubismo, “che vuole uccidere l’essenza dell’impressionismo, cioè lirismo e movimento. Non si può reagire contro la fugacità dell’impressionismo se non superandolo. Aggiungo che piuttosto di tornare indie ­tro siamo pronti a distruggere tutto e a rifare agli an ­goli dei sobborghi le barricate impressioniste”.
Proclamando i pittori impressionisti francesi unici autori del grande distacco dall’arte classica pagano-cristiana del passato e legittimi iniziatori dell’era no ­vella, Boccioni dichiara chiaramente nell’impressioni ­smo la propria origine che è, poi, origine di tutta la pittura contemporanea.
Ma quest’affermazione così assoluta mi solletica ad aprire un’altra breve parentesi del tutto evasiva, che riguarda soltanto me questa volta, e, all’ombra di un punto interrogativo, rispettosamente mi permetto di avanzarla: ho davanti agli occhi la riproduzione di un quadro del Canaletto che si trova nella Pinacoteca di Dresda e rappresenta il Campo dei Santi Giovanni e Paolo di Venezia, quadro della metà del Settecento o poco oltre, giacché il 1768 segna l’anno di morte del Canaletto medesimo. Se non ne conoscessi l’autore e non vedessi questa data, osservando il quadro dovrei classificarlo di almeno un secolo più tardi e nel modo più preciso di un impressionista. In quest’opera Cana ­letto non è più il solenne e suggestivo fotografo della magnificenza veneziana, ma quasi divinando l’avvento della fotografia pare aver trovato la strada per sfuggi ­re ad essa e dove la luce, come già nei pittori impres ­sionisti, è divenuta arbitra della forma. Siamo sulla via di Manet, ma oserei dire anche di più: su quella che da Manet ci conduce a Cézanne. E certe opere di Guardi, disegni e paesaggi in special modo, non fanno nascere un tale sospetto nel nostro animo? Ed è a Boc ­cioni così acuto osservatore e al suo fervido italianismo ch’io rivolgo esclusivamente il mio punto interrogati ­vo: non sarebbe per caso avvenuto a Venezia il grande distacco, ed esulato per sviluppare una prospera e fe ­licissima stagione in Francia? E dare inizio a un perio ­do di assenteismo e di rinunzia nella dimenticata pro ­vincia italiana dopo una civiltà artistica grandissima?
Per tale disavventura posto di fronte all’arte di Boccioni e ai suoi ardui problemi della più palpitante attualità, non possiamo accusare il pubblico italiano della propria ignoranza, del vuoto incolmabile che ave ­va dietro di sé e gli vietava qualsiasi forma di com ­prensione e di avvicinamento a quello che così ina ­spettatamente vedeva; ancorato alle formule di alcuni secoli addietro e dichiarate leggi dai pigri e orbi cu ­stodi del tempio quasiché in Italia per le arti figurative si fosse fermato il tempo.
Ma anche quei rarissimi che parzialmente o vaga ­mente pretendevano di essere informati di quanto era accaduto e accadeva in Europa, e che per il posto oc ­cupato avrebbero dovuto esserlo, per superficialità o malafede di cubismo e futurismo fecero un mazzo con ­dannando in blocco quasiché le due estetiche non pre ­sentassero inconciliabili diversità anche agli occhi me ­no esercitati nell’arte della pittura e dichiarate ad alta voce, ma a un pubblico, purtroppo, che non possedeva gli elementi indispensabili per formulare il giudizio.
Ponendo la propria origine nell’impressionismo, che riteneva superato e giunto oramai alla liquefazio ­ne dell’oggetto, ma dal quale si doveva pur sempre partire alla conquista di un nuovo ordine estetico, Boc-cioni disapprovava categoricamente l’esperienza cubi ­sta quale reazione immediata e gelidamente scientifi ­ca, basata sopra un principio esattamente opposto al suo: vivisezionare un oggetto per ricostruire un arabe ­sco coi valori pittorici delle sue parti anatomiche, si ­gnificava, secondo Boccioni, costruire un cadavere, un imbalsamato, uccidendo l’emozione, elemento che nel ­l’arte riteneva essenziale, e proclamando quale valore inalienabile il soggetto. Il suo messaggio è di aggiun ­gere un valore sconosciuto al soggetto medesimo, quel ­lo del movimento che definisce ‘dinamismo plastico’, e pesca la propria origine nell’impressionismo per il grandioso sviluppo di un ordine nuovo. Principio scien ­tifico per eccellenza anche questo ma che apriva la strada alla comprensione di tutte le possibilità della vita contemporanea, a tutte le scoperte e le conquiste di cui si è arricchito il nostro secolo, a un’esaltazione lirica dello sport e soprattutto della scienza in ogni suo aspetto. “Noi porremo lo spettatore al centro del qua ­dro !” è il grido col quale Boccioni conclude la sua teo ­ria del dinamismo.
L’incontro con Marinetti, avvenuto casualmente a un’esposizione milanese di pittura, doveva segnare nel ­la vita di entrambi una data determinante. Per Marinetti (che, occupato interamente dal movimento dei poeti iniziato quell’anno medesimo, vide spalancarsi davanti come per incanto un orizzonte vastissimo e del tutto inaspettato, per il quale non aveva divisato alcun disegno e vagheggiato alcun pensiero), quel contatto significò dare il fuoco a una miccia che produsse un’esplosione dalle due parti contemporaneamente; e per Boccioni, la fiducia incondizionata ispirata in Marinetti volle dire prendere misura delle proprie forze per un’impreveduta possibilità di poterle rapidamente realizzare; in particolar modo nel campo della scul ­tura, a cui Boccioni aspirava con ardore e che presentava difficoltà pratiche molto maggiori di quante la pittura potesse presentare. Né rimane a noi difficile oggi renderci conto come le realizzazioni di Boccioni nella scultura animata dai suoi principi informatori: dinamismo, compenetrazione e simultaneità, segnino l’apice della sua storia e il massimo travaglio del suo cammino.
Nel mese di gennaio del 1910 Umberto Boccioni si presentava a Marinetti nella sua casa di via Senato a Milano, accompagnato dai pittori Carlo Carrà e Luigi Russolo, per associarsi al movimento dei poeti, e l’11 febbraio successivo uscirà il manifesto dei pittori futu ­risti che Boccioni stesso leggerà la sera dell’8 marzo al politeama Chiarella di Torino. L’11 aprile seguen ­te seguirà il manifesto tecnico della pittura futurista.

Fu Umberto Boccioni il creatore animatore e mo ­tore di quel primo gruppo. Il suo spirito di rinnova ­mento era così sincero e appassionato, così profondo, che si comunicava agli altri ; il suo ottimismo raffor ­zava nella lotta e rinfrancava nel dubbio e il suo ardire era associato a un eccezionale valore fisico che non co ­nosceva sosta, capace di vincere col proprio calore qualsiasi difficoltà, qualsivoglia incertezza.
Il primo manifesto venne firmato da altri due pit ­tori: Aroldo Bonzagni e Romolo Romani, che poi si rifiutarono di sottoscrivere il secondo, e per i quali Boccioni, parlando con adorabile generosità dei colle ­ghi fuggiaschi, dichiara nel suo libro: “ci voleva più che del coraggio, dell’eroismo e un patriottismo sfre ­nato per aderire allora al futurismo circondato da odi feroci, da calunnie bassissime, da ostilità d’ogni gene ­re”, quasi volendo scagionarne la debolezza, trovando una giustificazione al loro rifiuto. Vennero sostituiti molto vantaggiosamente da Giacomo Balla e Gino Severini, che aderirono con entusiasmo. Giacomo Balla, dal quale a Roma aveva ricevuto i primi insegnamenti della pittura Boccioni giovinetto; e Gino Severini, già trasferito a Parigi e del quale Boccioni era stato col ­lega, sempre a Roma a quel tempo, in una scuola di nudo alla quale anche lui era iscritto.
Posto di fronte all’avvento inaspettato delle arti figurative, Marinetti profuse i propri mezzi al loro ser ­vizio, organizzando in tutte le metropoli d’Europa esposizioni che richiedevano ingenti somme di denaro. Nel mese di febbraio del 1912 alla galleria Bernheim di Parigi avvenne la prima grande esposizione di pit ­tura futurista per giungere a innestare l’arte figurativa della vecchia esiliata nel giovane concerto europeo; e il 10 luglio del 1913 alla galleria La Boétie Boccioni potè presentare la sua produzione di scultura, che segnò una data nel quadro dell’arte plastica contempo ­ranea allorquando a Parigi imperavano ancora Rodin e Bourdelle, e il pur grande Medardo Rosso con riser ­vatezza di straniero aveva proposto il suo poetico im ­pressionismo e alcuni russi vi stavano facendo capolino.
La testimonianza di questa prova l’avemmo l’anno seguente al Salon des Indépendants, che Boccioni e io il giorno del vernissage visitammo insieme. In quel mondo parigino sempre a orecchi ritti per cogliere al volo qualsiasi elemento di scoperta vi venga presen ­tato, e dove io tratto tratto esclamavo all’amico da ­vanti all’evidenza del suo apporto: “Guarda! Che te ne pare? Hai visto?”. Alle mie esclamazioni di compia ­cimento Boccioni scrollava il capo in silenzio e un po’ assorto. “E domani tutti si guarderanno bene di fare il mio nome…” voleva dire il suo silenzio senza ama ­rezza e per nulla scoraggiato.
Fra i componenti di quel gruppo iniziale, fu Boc ­cioni il più vicino a Marinetti al quale lo legavano, oltre i problemi dell’arte, affinità naturali di carattere e di temperamento, una carica di stupefacenti energie e tale disposizione alla lotta che rappresentava per tutti e due una necessità fisiologica altrettanto che del ­lo spirito, e ne faceva veri e propri uomini di azione, sempre pronti al pugilato in un mondo nel quale si era usi a difendersi con le parole; l’intervento della forza era ritenuto indispensabile non appena la parola si dimostrava inutile o insufficiente.
Usati i pugni come chi abbia compiuto un dovere, Boccioni se ne mostrava allegro, sorridente, sodisfatto, leggero come chi si sia scaricato di un peso, o come chi, bruciando dalla sete, abbia tracannato un bicchier d’acqua fresca che lo ha deliziato tutto dentro.
Purosangue romagnolo, era vulcanico, esplosivo, e al tempo stesso incapace di rancore, di nutrire risenti ­mento per chicchessia qualunque cosa gli avesse fatto, e, in qualunque modo si fosse sviluppata e conclusa una contesa, era principio e fine a sé stessa né valeva la pena di serbarne il ricordo.
Quando invece si presentava un soggetto per il quale era sufficiente guardar la faccia, e in questo caso Boccioni aveva la vista buona, conosceva le sfumature più raffinate dell’ironia: mostrandosi attento e con la bocca semiaperta a un sorriso di consenso, di adesione assoluta, religiosa, estasiato di quanto l’altro, sempre più edificato dal suo contegno, gli andava dicendo ; ar-cisicuro di averlo tirato, a ragione, ai propri invulnera ­bili principi e alle proprie infallibili teorie; per quello possedeva un microscopico espediente ma del tutto originale e che richiedendo il minimo delle sue favolose risorse si rivelava ogniqualvolta di un’efficacia in ­fallibile: bisogna sapere che da ragazzine facendo alle sassate coi compagni gli avevano fatto saltare nella parte superiore della bocca i due incisivi di centro, sostituiti con due denti finti che non lasciavano adito al sospetto osservandolo; a un certo momento, men ­tre sempre più attento e sorridendo prestava attenzio ­ne a quanto diceva quello, con la lingua faceva fare una rapidissima capriola ai due bugiardi, eseguita la quale da perfetti acrobati, si ricomponevano perfet ­tamente al loro posto. Microscopico esercizio questa volta, ma che produceva un duplice sbattere di ciglia nell’altro, il quale, dopo l’inevitabile sorpresa, come avviene nei soggetti di quello stampo, riprendeva co ­raggiosamente il fatto suo. Sennonché, dopo non mol ­to, sempre più attento e nel più religioso silenzio, nuo ­va abilissima capriola che produceva stavolta un moto di perplessità e un istante di arresto nell’eloquio. E così via di seguito fino che il dabbenuomo acciglian ­dosi sempre più di fronte a così ineffabile spettacolo, si allontanava disorientato dopo di aver perduto il filo del discorso.
Sensuale, al suo calore rispondeva facilmente la simpatia delle donne rappresentando ciascuna tale fiamma da lasciar credere che dovesse durare in eter ­no: macché! era un fuoco di paglia e durava invece pochissimo, e guai quando esaurita la fiamma si trat ­tava di dover continuare, diveniva irascibile, intolle ­rante, anche beffardo pur di rompere il laccio: il tepo ­re della cenere calda gli appariva intollerabile. Per tale modo di sentire e di procedere, quando doveva lavo ­rare, era un lavoratore che non conosceva fatica, per molti giorni consecutivi si guardava bene dall’uscire giacché una volta nella strada bastava la piega di un vestito a distrarlo dal proprio pensiero in continuo allenamento.
Quest’uomo per qualità naturali e per carattere tanto lontano da me quanto due uomini possono esser ­lo, fra i colleghi di quel momento della mia vita favo ­loso fu quello col quale divenni veramente amico fino al prodigio della confidenza, confidenza alla quale non si giunge col padre né col fratello. E fu questa diver ­sità, forse, ad avvicinarci così lealmente e tanto, nel calore di una comprensione umana al disopra di tutti i congegni e artifizi del nostro vivere e alla quale sola ­mente due artisti potevano arrivare.
E per quanto con diverso spirito avevamo in comu ­ne anche un santo terreno: Michelangiolo che io amai fin da fanciullo allorquando nella mia città lo intra ­vedevo in una zona inaccessibile che esercitava il mio timore senza poter capire, senza saper che fosse, e quell’impressione verginale è rimasta in me e m’accompa ­gna nella tarda vecchiezza con un’immagine di reale sofferenza e di mistero come nessun altro genio mi ha saputo ispirare. Questa oppressione della grandezza in Boccioni era tale che lo portava a odiarlo, quasi ne te ­messe il potere o ne fosse impaurito; e anche nel suo libro più e più volte gli si scaglia contro imprecando come fa quello che bestemmia Dio.
Una mattina, Boccioni, lungo la via, mi mostrava una rivista che aveva acquistato in un’edicola e nella quale erano riprodotti due suoi disegni: per quella vena di crudeltà che segna la misura dell’affetto volli provarlo, e dicendo che erano belli e molto mi piace ­vano, vi aggiunsi che ci vedevo in fondo qualche cosa di michelangiolesco. Ero sicuro d’essere preso a pugni quel giorno; ma invece di avanzarsi verso di me per aggredirmi, agitando la testa quasi cercasse più in alto il respiro, si allontanò di qualche passo senza un cenno di risposta al mio rilievo.
Dopodiché non desterà in alcuno meraviglia che uomini di questo formato e di questo spirito nel 1915 allo scoppio della guerra, insofferenti di dovere aspet ­tare la loro chiamata, partissero per il fronte arruo ­landosi in un battaglione di volontari ciclisti: è quello che fecero insieme Marinetti, Boccioni e l’architetto Sant’Elia. Ma sciolto poi il suddetto battaglione nel successivo mese di dicembre, Boccioni rientrava a Mi ­lano nell’attesa di essere chiamato con la propria classe.
E fu questo che va dal dicembre del 1915 al luglio del 1916, dopo la vacanza, patriottica, un periodo di intensissimo, strenuo lavoro per l’artista, e sopra il qua ­le vige un equivoco per cui nessuno fino a oggi si è assunto di portare il dovuto chiarimento.
Le opere di questo periodo, ultimo della sua breve operosità, vengono considerate se non come una vera e propria abiura al futurismo e una correzione di quanto fino allora Boccioni aveva fatto, un saggio ri ­torno su posizioni arretrate di un ben ponderato im ­pressionismo, e inaugurando in Italia quella pittura cézanniana, certamente rispettabilissima oltre che gradevole all’occhio, sulla quale pacificamente si appiso ­larono, dopo la prima guerra, anche taluni che aveva ­no battuto le vie rischiose e generose della ricerca.
Solamente chi non ha conosciuto Boccioni può ca ­dere in questo equivoco. Le opere di quel momento dobbiamo considerarle attraverso l’incontentabilità e implacabilità del suo spirito sinceramente rivoluzio ­nario, attraverso la sua lungimirante e spietata intelli ­genza che gli faceva misurare i limiti di una nuova via fino dal suo inizio; un’aurea mediocrità più d’ogni altra cosa provocava il suo disgusto, considerava il mediocre peggio ancora del cattivo, e una comoda posi ­zione da pensionato la riteneva addirittura vergo ­gnosa.
La sua ambizione era di fare la storia mediante un lavoro prodigioso di scoperta, e con un’abile pittura di marca cézanniana non poteva per la ragione sempli ­cissima che Cézanne, al tempo suo, s’era incaricato di farla; tornare alla propria origine impressionista, lui stesso ce lo dichiara, significava costruire un trampoli ­no di lancio e attingere nuova lena per una più audace e sicura conquista. Rinnegando quello che aveva fatto avrebbe rinnegato sé stesso e la sua stessa natura, Boc ­cioni si conosceva troppo bene per poterlo fare, e cono ­sceva troppo bene gli altri per farlo. E noi lo dobbiamo valutare per quello che ha fatto, e ancora più per tutto quello che dopo di lui nel campo delle arti figurative in Italia è avvenuto.
Nel mese di luglio del 1916, chiamata la sua classe, venne destinato a un reggimento di artiglieria nel qua ­le durante le istruzioni si compiaceva di cavalcare i ca ­valli più bizzarri del suo reparto, ma sbalzato per una violenta impennata e battuta malamente la testa, la mattina seguente cessava di battere il cuore di questo artista straordinario.
Erano in lui tutte le qualità di un grande maestro? e rivelate nel periodo brevissimo, cinque anni o sei, della sua prodigiosa attività?
Nell’insegnare ai giovani a essere giovani in un paese dove a quel tempo nei confronti dell’arte si na ­sceva ottuagenarî, Umberto Boccioni fu grande come nessuno.

 

 


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  1. Pingback by Abiura » PITTURA: Umberto Boccioni: Alle fonti della contestazione — 4 Luglio 2008 @ 21:31

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Bart