PITTURA: I MAESTRI: Carrà : Tra ordine cosmico e ordine storico19 Gennaio 2009 di Piero Bigongiari Può sembrare, quella di Carrà , una pittura della stasi, ma è invece, nel profondo, una percezione della centricità mobile dell’universo inteso nella sua fonte di luce: un universo in espansione luminosa, che mette in crisi e fa saltare ogni sua momentanea sistematicità , vorremmo dire ogni difesa plastica, facendo crettare la creta delle apparenze, rendendo propulsivo, quan Âto più lo accerta come motivo plastico, il sistema a fuo Âco centrale del quadro, portando dunque il “motivo”, ciò che muove perché è mosso, a una infinita distesa, che è distanza concreta dal fuoco centrale e insieme presunta quiete delle distanze, ma in verità immissio Âne di ogni apparenza quieta nel “motivo”, in quella motivazione dell’essere che lo stesso Carrà avverte nella gravitazionale obbedienza plastica che l’esisten Âte non può non rivelare, una volta immesso sciente Âmente nel “tragico ruotare dell’universo”. L’omolo Âgia – non l’analogia: Carrà non sposta, non deduce, ma pone in tutto il suo “peso in astratto” il proprio ragionamento – si precisa: ” Questa legge della mi Âsteriosa gravitazione e costruzione spaziale se è una fatalità nel cosmo lo è pure nell’arte”. In una Variante inedita del 1916 egli scriveva: “La luce fattasi corpo traspira in un rotare che trasu Âmana la materia pittorica … â— Le essenzialità ora mo Âdulano un infinito condizionato che si libra â— unità ar Âchitettonica e musicale – oltre lo spazio …”. Sembra un “pensiero” ungarettiano di quegli anni. E non sarà inutile accennare al sodalizio stretto in quel periodo cruciale per ambedue, fra Carrà e Ungaretti, e al sog Âgiorno milanese di Ungaretti; e che Ungaretti chie Âdeva, in una cartolina indirizzata a Carrà dal fronte, di dargli la sua ” collaborazione per una ristampa del mio libro” che, così, “sarebbe veramente prezioso”. “Librata / dalle lastre / squillanti / dell’aria”, ricor Âdate?, in Giugno. Ora questo “infinito condizionato che si libra … oltre lo spazio” ben risponde a questa levitazione del nuovo infinito novecentesco, che nasce Âva in anni che vedevano, insieme, sorgerne il risvolto scientifico con la teoria della relatività einsteiniana D’altronde, già nella preistoria pittorica di Carrà , ne La strada di casa, del 1900, nelle irradiazioni cen-triche di tipo segantiniano-simbolista, la visione si in Âscrive come dentro un quadrante. Non per nulla, più tardi, in Pittura metafisica il pittore parlerà di una “sfera fatata del quadrante magnetico”. Il centro del quadro, che corrisponde col punto di fuga, è il cen Âtro d’una serie di cerchi attraversati dal radiare della luce che viene appunto di là dall’orizzonte, ma che inazzurra, nel controluce, le case e le ombre più lon Âtane: è il sintomo del prevalere del valore simbolici su qualsiasi altro elemento struttivo, ma è anche un trasferire quel valore spiritualistico del simbolo in va Âlore geometrico dello stesso simbolo, col reinserirsi di quegli effetti struttivi che il simbolo spiritualistico vor Ârebbe cancellare nelle cause. Oltre un certo punto, prospetticamente verso lo spettatore, l’acquerello diviene rossiccio, pur mantenendo intatto questo vorticare, al Âlargandosi in cerchi concentrici rispetto al punto di fuga. Ebbene, qui è interessante notare come la prospettiva delle case sia perfetta, secondo la legge pro Âspettica euclidea, ma come le facciate si riempiano di questo vorticare divisionista simbolista, con una cu Âriosa illusione soutiniana avanti lettera: sembrando es Âse accartocciarsi nel colore mentre si mantengono di Âritte nella linea struttiva. Già con questo quadro Car Ârà cercava inconsciamente le zone segniche del qua Âdrante futurista: qui è in nuce insomma quel quadran Âte che poi il Carrà futurista di Guerrapittura, nel ’15. dividerà in zone, che saranno zone di intensità croma Âtica ma anche di definizione spaziale, di decentramen Âto e dunque di eccentricità spaziale. Ecco che quell’ “oltre lo spazio” si chiarisce come una forma di ec Âcentricità dinamica, di propulsione, attraverso ele Âmenti statici che divengono la forma stessa del colo Âre, si direbbe la figura geometrica del colore, dello stes Âso impulso primario, di quel simbolo centrico. Perche il problema di Carrà , all’uscire dal simbolismo divisionista di cui è permeato il suo apprendistato pitto Ârico, consiste proprio nell’invenzione di segni significa Âtivi, allo sciogliersi dell’elemento simbolico centrale, motore del quadro. Occorre dire subito che, cedendo detto simbolo il valore propulsivo agli ” essenziali ” e agli ” elementari ” delle esperienze successive, non viene a perdersi il valore di centricità della forma nello spazio che essa investe appunto con la sua elementarità ed essenzia Âlità . Mentre la forma è il luogo statico dei valori pla Âstici accentrati, proprio da tale compressione e loca Âlizzazione parte l’energia radiante della forma, tanto maggiore quanto maggiore si rivela attraverso il co Âlore compresso e la elementarità “cubica” della strut Âtura, la sua capacità di sopportazione dello spazio infinito messo  in opera.   La  localizzazione  come  di bozzolo della forma ne favorisce la temporalizzazione arcana, quella primordialità che è attesa, nella più portentosa  delle  solitudini,  del grido  clamante della storia. Le figure sopportano, con la loro ele Âmentarità e lentezza, proprio l’aprirsi a ventaglio di un’energia che non è più tanto nei segni esterni del Âla visione quanto nella sua intensificazione  stupita, assorta, pesante, di una lontananza compressa appun Âto sul giuoco cromatico delle lontananze. Promontori che finiscono in mari deserti, cabine, moli che si ele Âvano, come una leopardiana siepe non più stormente ma comunque agitata, nella sua cubicità , di fulgori cromatici, di smeraldine accensioni nella densità che si fa più densa, a nascondere gli spazi cori la loro ma Âgia di un confine senza confine; insomma questi con Âfini in primo piano, che suppongono lo sconfinamento spaventante delle distanze, propongono anche una cubificazione degli spazi che esplodono con intensifica Âzione accresciuta di là dalle colonne d’Ercole che le forme sempre statuiscono verso l’altomare d’una li Âbertà che esse sono qui a sorvegliare col loro peso, col loro divieto, col loro imbozzolato non essere ancora tut Âto quello che dovranno essere. Il loro essere è “di là ”; qui pesa, urge, preme, quietamente freme nella sua statica lentezza, non tanto il loro non essere, quanto il loro non essere ancora nella piena libertà di un uni Âverso che come una risacca viene a infrangersi sulle loro linee struttive, stavo per dire sulle loro rive. È il senso metafisico che si innesta su questa enorme fisi Âcità dell’universo come qualcosa che appunto viene dopo, ma che viene dopo, stante appunto questa cen Âtricità fisica irradiante. Il carraiano “oltre lo spazio” è non altro che questa dislocazione dello spazio dal proprio apparentemente immoto fulcro di energia. Il más allá carraiano, il più in là (” l’arte non è più in là “), esiste perché consiste questo fortissimo ” qua ” delle for Âme. Si guardi nella stupenda Estate (1930; Milano, Galleria d’Arte Moderna) come le forme delle ba Âgnanti, senza volto perché l’una se lo asciuga con un grande asciugamano che diviene come maschera e scudo a difesa dell’orizzonte, e l’altra è vista di schie Âna, siano come scavate nella materia spaziale del qua Âdro. Per scendere a una precisazione tecnica necessa Âria, si veda come le pennellate blu del mare cambino direzione sulla schiena della bagnante di destra: una pennellata bluastra sale lungo la spalla destra, scon Âtornandola su un mare otticamente in salita su quella schiena, rafforzandone l’energia oppositiva e dunque il valore statico. E si noti come sulla parte sinistra della testa, sulla spalla sinistra e sul braccio avvenga lo stes Âso fenomeno: il verde l’azzurro il bianco schiumoso marino vengono posati sulla tela non con pennellate orizzontali, ma verticali, seguendo la sagoma della for Âma che si apre, a dir così, allo spazio, aprendo a testate e a spallate quello stesso spazio. La forma viene alla lu Âce, nasce insomma come dal proprio bozzolo formale: la sua essenza è dunque nella dá»·namis nascosta in una staticità meramente funzionale, di appoggio a quel movimento tanto più integrale e impegnativo quanto più latente. Sono, celeste figure, la leva di cui andava in cerca Archimede, il punto d’appoggio per solleva Âre il mondo: un universo che ti cade addosso se non lo rimandi nella impervia sostanza della sua antigra Âzia. Il pittore ne è cosciente, se nella Parlata su Giot Âto dice: ” Un murmure solenne e pacato passa dal centro alla periferia della terribilità serrata in legge cubica. Questo flusso centrifugo tramuta le sue origi Âni musicali e diviene forma e architettura, che di for Âme è un insieme. – Sotto l’espansione dei dorsi delle figure, accovacciate o inclinate in atto amoroso, e sotto quelle dei ventri e dei vasti pettorali, le masse circo Âstanti urtano, si dilatano, e si estendono per far balza Âre il dramma plastico che si serra oltre le psicologie particolari. – Gli strati scavati dalla composizione ti sgomenteranno e al tuo animo ti diranno la voce di quelli geologici della terra”. Il costituirsi, sulla dissoluzione del simbolo divisio Ânista, dei segni pittorici, aventi un corpo proprio, di Âmostra in Carrà la profonda elaborazione mentale di quel simbolo spiritualistico perché si riempia di mate Âria, perché insomma materializzi la visione, insieme accentrandola nei segni e decentrandola rispetto a quel centro spiritualistico. Le lampade che illuminano il Notturno a piazza Beccaria del ’10 granulano una materia ancora divisionistica, lombardo-piemontese, quando il segno vive ancora in una specie d’angoscia magmatica. Ma un’uguale centralità funziona da ma Âtrice di onde plastiche nei Funerali dell’anarchico Gal Âli del 1911, nelle Luci notturne, policentriche, dello stesso anno. Quello che conta nell’esperienza futuri Âsta di Carrà è questa desimbolizzazione della materia plastica in vista della sua nuova significazione. I Ritmi di linee (1912), ecc., quasi onde gravitazionali, atte Âstano questa dilatazione dinamica del centro simboli Âco in “unità architettonica musicale” che, “oltre lo spazio”, che vuoi dire oltre lo spazio naturalistico, ol Âtre la galassia naturalistica, inventa oggettivamente la sua nuova consistenza, che è una consistenza fisico Âmentale. Nasce il quadro come “oggetto” propulsore di un concreto esistenziale tanto più accertato quanto più si distanzia da quel centro spiritualistico simbolico. Le Forze centrifughe (1912), le Trascendenze pla Âstiche (sempre del ’12) sono tali in quanto “trascen Âdono” – “oltre lo spazio” – in uno spazio concreto, “plastico” appunto, dal centro simbolico. In Carrà la mentalizzazione dell’immagine procede di pari passo con la sua ” trascendenza ” plastica. Il principio di spazialità , dirà il pittore stesso nella Dichiarazione del ’45, “non è da confondere col pro Âspettivismo; poiché il valore di spazialità non ha mai origini per così dire visive”. I fattori di un tal con Âcetto “si possono dividere in motivo rappresentato e in rapporto fra i colori e le forme nella loro qualità , intensità ed espansione. Vi sono infatti colori più lu Âminosi e più espansivi e altri meno recettivi alla luce e più concentrati. Per esempio, i gialli e i rossi sono più espansivi dei blu e dei verdi. Così le forme curvilinee sono più espansive delle forme rettilinee. Dirò ancora che per me un insieme pittorico si sviluppa da un dato tono e da un dato angolo che sono in qualche modo i centri generatori del dipinto. I toni affini uniscono e solidificano la massa, mentre i colori complementari la tagliano e la dividono. Per me dunque il colore to Âno è la parte più intima della pittura, e per ciò stesso più della forma urta talvolta l’intimità dell’osservato Âre”. Come si vede, Carrà stesso vede proliferare l’an Âtico centro simbolico, una volta stabilitane l’otticità meramente plastica, in una serie di ” centri generatori del dipinto” via via che una tale centricità simbolica si fa policentricità plastica; via via, aggiungo, che quel centro deborda di una materia plastica che ha bisogno di organizzarsi secondo i suaccennati valori di spazia Âlità : una spazialità locale implicita appunto nei co Âlori e nelle forme, anzi nella fondamentale, unica forma-colore, con tutta la sua attività generativa e con Âglomerante. Lo spazio si allarga difficoltosamente, in Carrà , attraverso questa sprigionantesi attività gene Ârativa della forma-colore, non si restringe, col compa Ârire del valore plastico della forma, sulla forma, che anzi non è schiacciata, ma spaziata dal suo stesso con Âglomerarsi in se stessa: che fa intuire intorno a sé uno spazio lasciato, uno spazio liberato dal restringersi del Âla forma nel proprio significato mitico, nel má»·thos. cioè nella parola significativa che il proprio elaborarsi come immagine sprigiona attraverso la serie oppositiva dei segni linguistici. Questa opposizione di energie è, secondo me, il proprio più proprio della pittura di Carrà al suo vertice: il valore di natura quieta che es Âsa promana in ogni composizione – dopo l’analisi fu Âturista delle scomposizioni di oggetti che fa parte di una inquietudine, di una dislocazione ricognitiva – è ottenuto dal compenso di energie oppositive in cui il “motivo rappresentato” è elemento linguistico sostan Âziale alla pari del “rapporto fra i colori e le forme”. Di qui ha origine quello che sarà chiamato il realismo mitico di Carrà : un significato che la norma figurale – la cosiddetta realtà – propone mentre questa tutta si concentra nell’elaborazione ideale, o concettuale che dir si voglia, del proprio significante, in funzione e in rapporto continuo con esso. Il significato, s’intende i! significato plastico, si allarga astrattivamente, in ter Âmini mitici, mentre il significante si restringe, si accen Âtra, ribolle nella propria centripeta normalità operati Âva e figurale: che è normale solo attraverso una defor Âmazione, in Carrà , tanto spinta, e che ha come nucleo generatore il manichino, vorrei dire il gene, metafisico. Nella Galleria di Milano (1912) si ha un equili Âbrio perfetto fra un centro ormai organizzato nel sue valore di concrezione ritmica (la cupola vetrata, l’ungarettiano “vetrato cupolio”) e la sua dilatazione ma Âterica. I tasselli sinergici sono segni perfetti di una “simultaneità ” che significa decentramento segnico dell’energia primordiale sprigionantesi da quel simboli centrico. Qui anche è constatarle quanto distanzia il futurismo carraiano dal cubismo coevo. Nel cubismio non v’è più assolutamente centricità , ma messa sul piano di quella che era stata la tridimensionalità pro Âspettica precedente. Nella stesura l’immagine si posa, costruisce il suo sistema stellare fisso. Nel futurismo carraiano l’energia dinamica funziona da quarta dimensione per una “simultaneità ” che è fusione di quel Âla dá»·namis primaria nel costituirsi del nuovo segno lin Âguistico. Carrà non tanto ci mostra l’altra faccia, quel Âla perennemente invisibile, dell’immagine-oggetto, quanto il valore cataclismatico di essa: una esplosione che si ferma nel raddensarsi plastico del segno. An Âche i valori geometrici inerenti si rivelano meramente sussidiari a tale costituzione del segno che esplora, di Ârei in maniera tattile, quell’ ” infinito condizionato “: e condizionato proprio dalla possibilità esplorativa con Âcreta di un tal segno in via di cadere nel proprio peso gravitazionale, vinta quella carica proiettiva derivantegli dall’esplosione cataclismatica del centro simbo Âlico. Si pensi per un istante alla Compenetrazione di prismi (1913): l’arabesco lineare è appesantito pla Âsticamente non dal tocco punteggiante del cubismo analitico, quanto da una cubatura del segno cromatico che rende obbediente la mano alla mente motrice. Anche il collage non fa parte, in Carrà , della demate-rializzazione analogica propria dell’immagine cubi Âsta; ma, se mai, sempre di quell’horror vacui stabilito proprio dall’esplosione del centro simbolico. Nessuna analogia è messa in moto per esempio nella Manife Âstazione interventista (1914), quanto piuttosto una concrezione materico-verbale che si ferma all’inizio del nuovo discorso instaurato. Ogni interstizio chiuso, Carrà chiude la partita con qualsiasi sospetto di ori Âgine spiritualistica verso una imminente metafisica del Âl’immagine che è tale in quanto si ferma nei suoi co Ânati immaginativi partendo dalla propria corposità materica; e tutti li investe della propria ferma fuga dal centro. Vorrei ricordare da Il quadrante dello spinto, l’im Âportante scritto uscito in “Valori plastici” il 15 no Âvembre 1918, queste parole: “Di due non si è ancora diventati uno â— quel uno che non è più io e non è più natura”. Ebbene, “quel grado di perfezione imperfet Âta, che pure realizza un organismo di per sé vivente”, qui si specifica in questa lotta avvincente tra l’io e la natura, per la scoperta di un io naturale che è uguale e contrario a una natura entrante di prepotenza nel Âl’ambito dell’io. Il “concetto lusingatore della mia mente ” si leva proprio davanti alla fine di una natura naturalisticamente intesa. Il concettualizzarsi del se Âgno, proprio per constatare il proprio peso specifico, per consistere in esso, è il momento gravitazionale suc Âcessivo al futurismo, una volta esaurita la propria ca Ârica esplosiva e centrifuga, ed apre la nuova esperien Âza della pittura metafisica: che segna la marcia, la anabasi, verso la lontananza di un nuovo centro, non più simbolisticamente spiritualistico, ma, comunque, posto oltre la mera carica fisica che ora pesa tutta in se stessa, avvalorati i propri significati nei propri stessi mezzi significativi. Una tale operazione indica il sorgere di una finalità nel mezzo, che ha raggiunto il pun Âto morto dei propri valori centrifughi. Nasce qui, dal ’15 al ’16, questa straordinaria esplorazione delle cose carraiana: una analisi spazia Âle â— in uno spazio non ancora assestato, uniforme e lat Âtescente, sugli ultimi conati del cubismo â— della loro individuazione oggettiva. È il periodo “antigrazioso”, cosiddetto appunto dall’ Antigrazioso del ’16: la trom Âba, la casa, il fantoccio-bambino col viso spaventosa Âmente adulterato verso la maschera dell’adulto, e il cavallo, la carrozzella, ancora la casetta levitante, col suo peso, nel bianco del fondo ne La carrozzella: le ruote si spiccano dal molleggiamento degli assi inesi Âstenti, il cavallo è un fantoccio immobile di cavallo. Gli elementi sono tutti staccati e tutti accostati in un gesto meccanico da bambole tragiche. L’ ” antigrazio Âso” è l’antimateria di una grazia metafisica sul punto di rivelarsi, e che infatti esploderà in tutta la sua carica magica negli anni immediatamente successivi, nel 1917-18. Tali oggetti, qui ancora nel loro stato anti Âmaterico – o meglio imbeventisi di materia plastica mentre acquistano una loro assurda “normalità ” figu Ârale -, saranno definiti dal pittore stesso, nel ’18, come “cose ordinarie”, i cui “baleni” creano quegli “ele Âmentari”, quegli “essenziali” di cui la pittura succes Âsiva di Carrà , esorcizzato ogni naturalismo ottocente Âsco nella “camera incantata” della Metafisica, andrà istantemente in cerca. Ecco: “Sono le cose ordinarie che rivelano quelle forme di semplicità che ci dicono uno stato superiore dell’essere, il quale costituisce tut Âto il segreto fasto dell’arte. Ma i baleni delle cose or Âdinarie se raramente si ripetono, quando illuminano l’arte creano quegli ‘essenziali’ che sono i più preziosi per noi artisti moderni”. Ora, nel periodo ” antigrazioso ” le ” cose ordinarie ” vivono proprio antipodiche, nel subconscio di quella ” grazia ” che si pone come un’estrema vetta: vivono nell’antigrazia della loro sotterraneità , di una chia Ârezza oggettuale destinata ad avviarsi alla grazia del mistero concettuale dell’oggetto. L'” antigrazioso ” co Âme anticamera della “camera incantata” del periodo metafisico è un dato critico ormai acquisito, e non oc Âcorre insistervi. Ma sì occorre insistere su quella soli Âtudine sperimentale, su quel disgregamento, disorga Ânamento spaziale, che costituirà proprio l’incipiente tessuto connettivo, il coagulo, dell’insorgente stupore metafisico, dissimulato nella loro enorme plasticità , dei nuovi oggetti posti nell’alto vuoto della camera metafisica, a decomprimervisi non solo di ogni sospet Âto naturalistico, ma sì di ogni geometrismo cubistico, di ogni suppellettile dechirichiana. I manichini, la Ma Âdre e figlio, L’idolo ermafrodito del ’17, si decompri Âmono nell’assurdo del gesto meccanico di ogni resto naturalistico, ma acquistano il peso della loro materia assurda, preziosa, lineata plasticamente nella quarta dimensione, in una dimensione cioè che non è altro che il punto di partenza dal risico dell’oggetto al me Âtafisico delle sue intenzioni oggettive. Un tal valore metafisico, voglio dire la fisicità stes Âsa del metafisico, una volta acquisito nell’alto vuoto della camera magica, non lo abbandonerà più, o al Âmeno si degraderà lentamente nell’opera successiva di Carrà , neanche là dove l’immagine cercherà di model Âlarsi sul motivo naturale: sopratutto dove, e se, il motivo si ricorderà , nel proprio rimescolio elementare, in quanto ” composizione ” venuta dopo una più o me Âno confessata ” scomposizione ” iniziale, dei propri ” es Âsenziali “: che un po’ per volta, da punto di arrivo, af Âfondando nel tempo la lunga opera del pittore, ver Âranno a cadere in un remoto, e sempre più remoto, punto di partenza. Allora l’opera non tanto andrà verso l’essenza, quanto se ne spoglierà progressivamen Âte in un’immagine solitaria, ripetitiva dell’anteriorità ormai imperscrutabile e disperante dell’essenza. Non si dimentichi comunque che è la “composizione” che scava gli ” strati ” del ” dramma plastico ” fino a quella essenzialità spaziale, a quella ” essenza ” dello spazio. E sarà allora, eventualmente, una minor forza “compo Âsitiva” a non toccare gli strati geologici dell’essenza, a non svegliarne, insisto, il fondo metafisico. Ma là dove l’essenza è a venire e anzi impregna come un lievito il peso della materia, nel contrappeso della propria significazione metafisica, là è il grande Carrà , quello che con Morandi e il primo De Chirico costituisce la lezione triadica del nostro Novecento. Nel ’16, finita l’esperienza futurista, Carrà scrive: “Fin dai giorni delle scomposizioni cominciava in noi quello stato d’incertezza che precede le grandi risolu Âzioni, perché ci si era fin da allora fatti accorti che per la via lineale si ricadeva dal lato opposto nell’errore degli impressionisti, che è la scrittura materialistica dell’oggetto”. È qui che si afferma l’inutilità della “via lineale” proprio nel rivelarsi tanto perentorio quanto assurdo del “punto di fuga” non ottico dell’oggetto: la metafisica è appunto la quarta dimensione che il pit Âtore sentiva mancante nella ” via lineale ” intrapresa col futurismo: che libera sì le forze plastiche dall’obbedienza all’astrattività del simbolo divisionista, ma non le organizza nell’intenzione metafisica che è loro im Âplicita. II futurismo di Carrà , in questo senso, è piuttosto un moto organico della materia plastica che si li Âbera dalla propria astrazione simbolica senza però in Âdirizzarsi verso il punto di fuga – pur tentato – del proprio significato metafisico. Ed è il momento in cui la poetica carraiana è più tesa, ma anche più legata nelle dichiarazioni scritte e comunque verbali, che totalmente esplicita nelle operazioni pittoriche. A Fer Ârara nel ’17 però Carrà , con De Chirico e col finitimo e altrettanto metafisico Morandi, già avverte â— e sa Âranno, quello e i successivi, anni duri, anni di espe Ârienza sur le coup de pinceau â— che la quarta dimen Âsione, il punto di fuga metafisico, dimensione rifluenti dalla terza, cioè dalla profondità del campo duramen Âte toccata nei suoi limiti cromatici e “lineali”, deve “fermarsi” nel quadro. La Natura morta con squadra del ’17 attesta la vicinanza e la distanza da Morandi. Quest’ultimo scor Âpora lo spazio e incorpora gli oggetti nei loro concetti geometrici; Carrà , direi, agisce all’opposto: incorpo Âra lo spazio, le dimensioni fisiche della camera cubica, le dimensioni fisiche della magia, ma in esse gli oggetti si subordinano proiettandovi le ombre di una solidità ambiente prima che il solido della propria concettualità geometrica. Qui, piuttosto che elementi della concettualità totale dell’insieme, risultano oggetti del gran giuoco, preziosamente condotto in termini di pittura, di mano pittorica: oggetti che, sopportando il peso ambiente, si spaziano duramente in se stessi. Per tal via, perché stanno fisicamente in se stessi, stanno me Âtafisicamente nella camera cubica, quasi oggetti di Âmenticati nel solaio di un’epoca. Nel Carrà metafisico è proprio il lato fisico della pittura a trionfare della concettualità che pure è alla base del movimento, e che per esempio sarà la predominante nell’opera del partner De Chirico: in cui l’idea, di origine secessio Ânista e monacense, è il primum che il mezzo pittorico asseconda, o meglio esegue con cura seconda. È insomma l’ambiente, la concettualità ambiente, che solidifica gli oggetti metafisici carraiani, non essi che solidificano lo spazio ambiente. Il quale esercita su di essi una sorta di compressione, che li agglomera quando non ne disgrega gli “elementari”, producen Âdo la loro ambigua ironia plastica. L’idolo ermafro Âdito è tale perché esso è il liscio manichino che cata Âlizza tale compressione dello spazio ambiente, a cui oppone la finta retorica, i finti gesti della sua arcana allocuzione. L’idolo si spazia, ecco, in alloquente ironia metafìsica che è la risposta falsamente espansiva ai valori plastici che ne comprimono e dunque ne crea Âno la sagoma di manichino. Ma, così, Penelope è la ricostruzione, rovinante su di sé, sul proprio bric-à -brac post-cubista, il crac, insomma, delle energie dell’am Âbiente che accentrandosi divengono torniture plastico-geometriche, a dimostrazione, tant bien que mal, di questa finale resistenza oggettiva, di questo fulcro cen Âtrale, di questo perno figurale dell’ironia metafisica, ultimo portato di quel “centro spirituale del tempo e di tutti i tempi”. Pertanto cotesti oggetti, maschera Âti, non nascondono la loro normalità di ” cose norma Âli” entrate nella “muda” metafisica, per dirla con Longhi, ma proprio per acquistarvi la sanzione pla Âstica, spaziale, della propria norma. I “valori primor Âdiali delle forme” stanno rivelandosi proprio attraver Âso la normalizzazione della forma, in quanto la sua normatività è insita perentoriamente nello stesso pri-mordio formale come prosecuzione e obbedienza al proprio destino genetico, al proprio “valore” plastico in via di attestarsi come tale. È qui, proprio in questa via normativa risolutamente affrontata, da una meta Âfisica astorica – quella operante ” in uno spazio storico ormai soppresso” – a una metafisica storica, che la forma ricupera appieno l’idea, in una reciproca inte Ârazione e in uno stato di assoluta reversibilità : ” L’idea da astratta si fa concreta nella forma, che è idea di forma; forma e idea si chiariscono l’una nell’altra”. Qui nasce proprio quello spazio “agglomerante e coesivo, implicito nella solidità della forma ” [Argan, 1939] che troverà i suoi sviluppi, all’uscire dal periodo metafisico, nella reinvenzione di un ” ordine plastico “: il quale non è certo dedotto da una restaurata conce Âzione naturalistica, quanto indotto dal progredire dell”idea” metafisica nella propria norma, quasi nella propria primordialità , là dove s’incontra con la leg Âgenda di un popolo, con un modo originario dove l’ac Âqua, la terra, il lavoro umano convivono in un elemen Âtare “ordine plastico”. Direi che allora nasce il “me Âtafisico storico” nella carriera pittorica di Carrà . Gli objets trouvés della metafisica carraiana, che mascherano nel giuoco del manichino, del giocattolo o del solido geometrico il desiderio della propria norma oggettiva, ora possono disporsi secondo una storia non più soggettiva e personale: è ” il dramma plastico che si serra oltre le psicologie particolari”, come il pittore dice delle figure giottesche. Essi pertanto divengono il luogo, il paesaggio, l’azione in cui, come ho accennato, il ” punto di fuga ” metafisico si ferma : incluso e con-\into dalle ragioni plastiche del quadro, non predi Âsposto ab extra come reagente dal pittore. È signifi Âcativo il travaglio che l’anno 1921 rappresenta nel lavoro inventivo di Carrà . Mentre con L’amante dell’ingegnere la favola metafisica diviene trasparente e paradigmatica, e la camera dei miracoli, aprendosi, si trasforma in quinta più fisica che metafisica aperta sul blu cupo e notturno di una natura imminente, con la parete sghemba a destra, dove è appesa la squa Âdra e il compasso, e che adempie alla funzione degli imminenti moli protesi sul mare – vedi le Vele nel por Âto (1923) della collezione Longhi â—, o del futuro ca Âsotto torreggiante, sempre a destra, sul mare nell’Esta Âte (1930), cioè adempie alla funzione “leopardiana” di chiudere, per aprirlo più profondamente, il mistero della lontananza, indirizzato verso un ” punto di fuga ” che si coagula in un colore lento, denso, gemmato, sa Âturante la distanza in termini antimpressionistici, tut Âti mentali; col Paesaggio verde quella esperienza ” li Âneale” che già nel periodo futurista aveva cercato di vibrare in loco, muove l’elemento cromatico, il “ver Âde” del paesaggio, il famoso ‘”smeraldo” longhiano, in una ricerca oggettiva di spazi delimitanti lo stabi Âlizzarsi dell’energia propulsiva in oggetto, in pianta, in elemento struttivo del paesaggio. La linea percorre quel colore gemmeo e mentale separando negli ogget Âti quanto invece è continuo nella tensione cromatica di fondo. Separando, o non piuttosto facendo vibrare in una tensione unica, in un campo magnetico metafisico, in una obbedienza plastica complessiva l’accidente oggettivo? Qui traspare il gran lavoro, la gran fatica del Âl’artista che cerca il proprio definitivo ubi consistam. Giotto, sì – fino allo stilema giottesco della chioma del Pino sul mare (1921) -, e la tradizione plastica toscana fino al divino Piero, ma anche, io direi, la lezione post Âimpressionista di Seurat: presente sotterraneamente in questa pennellata che all’uscire vittoriosa dalla tra Âdizione lombarda, esorcizzata, dei Gola ecc. vibra magmatica di tutta una manualità che si fa mentale. È la mano della mente, se posso osare, che deposita sulla tela nel San Gaudenzio di Varallo (1924) una pennellata a tocco breve ma peso e sfrangiato a fati Âca, come lo schiumare d’un amarissimo “Mar Mor Âto” cromatico, quel lieve strascico del pennello denso di pigmenti profondi schiacciati per ogni dove sulla tela, agitato in ogni direzione ma non insistito nel suo percorso, che era stato di Seurat e che qui ritrova il limite alla propria esaltazione in quell’ ” ordine plasti Âco” nel quale frattanto si era andato annidando, in termini storici, quel mistero metafisico che aveva con Âdotto il pittore fin lì: a scoprire il mistero della natura “nelle sue cause”: nella “gravita” delle sue cause. Letto 5955 volte.  Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||