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PITTURA: I MAESTRI: Courbet: Un Narciso di paese

26 Luglio 2010

di Pierre Courthion
[Classici dell’arte, Rizzoli, 1985]

Millantatore, cavillatore, assetato di notorietà, Courbet sviluppa attorno a se stesso una vita esteriore chias ­sosa. È necessario che tutti lo vedano, l’intendano e si occupino della sua persona. Ma chi è? Non vi è nessu ­no come lui. Che cosa fa? Tutte le sue “uova hanno sempre due rossi”. Nelle birrerie, le esposizioni, le rivi ­ste teatrali, i giornali satirici: Courbet, sempre Courbet! A mezzo busto o in piedi, da apostolo o da buffone, nel ­la Luna o nel Secolo: Courbet! A volergli credere, ovunque vada non ci si occuperebbe che di lui. Egli cura la sua gloria con fracasso, come uno che, la sera, al mo ­mento di mettersi a letto, non ne sarebbe però più così sicuro.

Chi è costui? Dove si trova? Egli ha bisogno che glie ­lo si dica. La sua propria identità, la verifica soprattut ­to secondo l’effetto che produce sugli altri. Dipinge in compagnia, interrompendosi di quando in quando per bere un sorso di birra. È uno spettacolo. Vallès, che l’ha conosciuto bene, ce lo mostra mentre lascia scoppiare la sua risata nella propria barba, che poi nettava con il ro ­vescio della mano: “II suo ventre danzava, brontolava, Courbet rideva fino al singhiozzo, schiacciando una la ­crima con il suo grosso pollice in un lato del suo occhio di giovenca”. Altre volte, si tratta di “cristi e madon ­ne”, sottolineati da pugni sul tavolo e da scuotimenti di spalle, che fanno pensare al cavallo che nitrisce e scuote tutta la sua bardatura in un’ora di fregola o di collera”.1

Natura portata alle prodezze: egli è colui che fa il maggior rumore, che beve il più gran numero di gotti di birra, che abbatte la più grossa selvaggina, che in sole due ore esegue un grandissimo paesaggio.
In Courbet, tutto ha l’aria di dirci: “Fai altrettanto, eh! grosso furbacchione!”
Insomma: un esibizionista.

Nessun pittore ha moltiplicato come lui la propria immagine, nessuno ha provato tanto piacere a rappre ­sentare se stesso. Che egli si mostri con i suoi lunghi ca ­pelli, il mento ancora imberbe, seduto in controluce contro la roccia, un cocker nero alla sua sinistra, o ro ­manticamente di profilo contro il pallido viso d’una donna; che egli si presenti di faccia, in primo piano, soffiando nel nostro naso il fumo della sua pipa; in pie ­di, appoggiato con i gomiti in maniera quattrocentesca, gli occhi bordati di lunghe ciglia, un pollice infilato nel ­la cintura di cuoio; oppure seduto, un po’ rovesciato al-l’indietro, al centro dell’immenso atelier della rue Hautefeuille, occupato a dipingere un paesaggio da casa sua (egli è attorniato da tutti coloro “che lo servono e parte ­cipano alla sua azione”; il modello, i personaggi allego ­rici che si alternano sulle tele, gli amici di cui si fa tro ­feo: Baudelaire, Champfleury, Proudhon, Buchon. Bruyas); che egli s’avanzi con la barba alla matamoro sulla strada di Montpellier, schiacciando con la sua ombra il maestro dilettante e l’umile domestico venuti ­gli incontro – sempre Courbet si mette in primo piano. Bisogna che occupi la scena e che la tenga. Egli è ben lontano dall’avere la modestia dei grandi artisti italiani: i quali, nella loro opera, dipingevano se stessi nel luogo più oscuro dell’affresco, ad esempio dietro la spalla di una comparsa.

Anche Rembrandt ha fatto autoritratti a differenti età e nelle diverse espressioni della sua fisionomia. Il suo viso: è il vostro, è il mio. Niente di simile in Cour ­bet. Tutto d’un pezzo come un brano della sua pittura, corazzato nell’orgoglio, questo buon ragazzo d’una ignoranza astutamente volontaria non comprendeva che si può uscire da se stessi; egli non sentiva vivere in sé diversi uomini. Per lungo tempo, quasi sempre, fu il bambino viziato che accaparra l’attenzione.

Io non vedo che una donna, l’unica la quale possa far inciampare un prepotente d’una tale completa sicurez ­za. Ma la compagna e, a maggior ragione l’innamorata, non appare che secondaria nella vita di Courbet. Per questo gaio buontempone che non crede che in ciò che può vedere con gli occhi e toccare con la mano, l’eroti ­smo non è mai di immaginazione ma di circostanza: è quello dei “cacciatori di ragazze”. Egli diceva a Silvestre: “Se incontro oggi una donna dotata d’una sua qualità, ne godo; domani passerò a un’altra dotata di una qualità differente”. Così, a parte alcune avventure2, Courbet non conobbe altre donne che quelle della sua pittura. La donna della Franca-Contea dagli occhi d’a ­gata, fresca, bruna, rotonda, lucente come una mela, che si vede nei suoi quadri, egli la dipingeva, seguendo il suo spirito, mettendola sul medesimo piano degli al ­beri, delle rocce, dei caprioli.

Courbet non pensa né sogna il proprio piacere, se ­condo quel gusto appassionato o voluttuosamente ripo ­sato che ha praticato il pittore del Bagno turco e il poe ­ta delle Donne dannate: niente illusione, poca sensuali ­tà! La sua sana cupidigia rimane a fior di pelle. Ma la sua sensualità, che è enorme, reclama un pasto che il solo banchetto della donna non potrebbe soddisfare. Ghiotto della sua propria vitalità, egli l’accoppia alla linfa dei boschi, alla fregola dei grandi cervi, al suo ri ­flesso nella fontana. L’amore: è con la natura intera che egli l’ha fatto.

Era un casto. Castagnary insiste su questo punto. La sua passione, rimossa per un grande amore di donna, si riversa altrove: diventa la sua fraternità. Fin dal colle ­gio (dove si mostra assolutamente refrattario all’inse ­gnamento), Courbet è pieno di sentimento fraterno. Nel 1848 egli si dichiara socialista. Il suo credo è il canto del compagnon, la terra promessa che lasciano sperare le rinfrescanti strofe di un Pierre Dupont. Ma dopo il colpo di stato del 2 dicembre, la speranza delusa si tra ­sforma in furore. Courbet allora si rifiuta di riconoscere le differenze di rango, sfida i privilegi, urta gli alti fun-zionari con la sua furberia molesta. Egli passa per un rivoluzionario pericoloso: è un rosso, un selvaggio. Lo Stato non gli compra nulla. Dileggiato nella sua perso ­na e nella sua opera, egli fa scandalo. La sua attività d’uomo e di pittore non ha ormai che una leva: l’odio dell’Impero.

Ci si può domandare perché non ha dipinto, lui, il realista, uno “stato” della Francia come ha fatto Gericault nel 1818, nella Zattera della Medusa3. Tuttalpiù si conosce di lui il disegno d’una barricata, che serve da vignetta al Salut public (il giornale che redigeva Baudelaire). Courbet non è, come Daumier, un “pittore del ­l’avvenimento”. Se lo fosse stato, avrebbe dovuto, pro ­prio lui che voleva essere sempre in primo piano, rasse ­gnarsi a un lavoro clandestino. Pertanto, lo sappiamo dai suoi amici, Courbet ha tentato la sorte di pittore del costume. Ma noi l’abbiamo dimenticato: durante il pe ­riodo autoritario del Secondo Impero, la sorveglianza politica era più temibile di quanto non fosse mai stata la censura di Luigi Filippo. Come chiunque4, Courbet è allora condannato al silenzio. Egli si ributta sul pae ­saggio e le scene di caccia, fino al giorno in cui si arri ­schia a denunciare i vizi del suo tempo: il clero, le don ­ne. Quando dipinge Il ritorno dalla conferenza, flagella a suo modo i parroci, sostenitori dell’Impero; quando dipinge Les demoiselles des bords de la Seine egli se la prende con la “prostituzione” dell’Impero; quando in Venere e Psiche, nel Risveglio o Le due amiche (il di ­pinto che Castagnary denomina Paresse et Luxure) egli mostra “quelle donne con diamanti alle orecchie, un pettine d’oro nei capelli, e reticelle rosse, donne che so ­no come cagne alla tavola del padrone”5, Courbet è persuaso di lare opera di moralista.

Proudhon gli ha fatto girare la testa. Risolutamente ostile all’immaginazione e alla grandezza dell’arte in sé, il filosofo certo non comprendeva meglio le arti di quanto Courbet comprendesse la sociologia. Proudhon vedeva nella pittura un’arte tributaria della scienza e della morale, un agente sociale immediato di educazio ­ne e d’edificazione; egli voleva che si mettessero in una chiesa Gli spaccapietre, sostenendo di questo quadro “che la sua vista elevava le anime, sicuramente di più che lo spettacolo d’un monaco in ozio”. E Courbet, nuovo Greuze di questo Diderot, si sforzava di trasporre in pittura le idee del grande rivoluzionario. Ma essendo solo un istintivo, non permetteva di scoprire alcunché se non quello che appariva dalla tela, quasi fosse stato un dato di fatto. Courbet non era affatto preparato alle al ­lusioni della satira. Egli dimenticava che lo spettatore non “vedeva” affatto ciò che egli voleva mostrargli.

Castagnary gli fece comprendere il suo errore? In ogni caso, dopo la morte di Proudhon, Courbet non s’accanì più su questa strada. Ma non si rassegnò a ta ­cere.

Dopo Sedan, la Comune riuniva davanti all’invasio ­ne tedesca il vero patriottismo, quello degli “uomini di cuore e d’onore che, dopo aver provato all’improvviso a respingere il nemico dal di fuori, combatterono loro malgrado il nemico dal di dentro”6. Courbet, che per sua propria confessione “lavorava più per essere un uo ­mo che per essere un pittore” (la sua corrispondenza, infatti, lo mostra molto più preoccupato per l’avvenire sociale dell’umanità che per lo spirito delle forme e l’e ­voluzione della pittura) si lancia allora nella politica at ­tiva. È un artista engagé7. Alla Commissione delle arti che presiede presenta un piano di riforme corporative: niente più arte diretta, centralizzata, niente più giurì, e nemmeno false ricompense e arte ufficiale! Dopo molti altri e con altri, propone che la colonna della Piace Venderne sia buttata giù. Non prende affatto parte alle note sanguinose giornate. Una volta rovesciato il “gran ­de zufolo”, il simbolo del bonapartismo e dell’Impero, la sua vendetta è soddisfatta.

Di sentirsi preso sul serio, lui, proprio lui che è stato tanto canzonato, di ispirare anche qualche timore: per tutto ciò Courbet prova una inebriante euforia. Ma tut ­to questo non dura che quattro settimane. Questo pitto ­re dal riso “enorme”, questo ingenuo-furbacchione di campagna, questo personaggio tutto arrotondato, que ­sto Tartarino cacciatore di cervi e bevitore di mosto che rifiuta con gran chiasso croce e consigli, questo arro ­gante parlatore con la voce squillante â— ecco, l’arrivo dei Versigliesi in Parigi gli toglie il suo trionfo. Courbet è arrestato, trasferito dalla prigione cellulare alla pri ­gione segreta. Da Mazas lo si trascina al Consiglio di guerra; lo si rinchiude a Sainte-Pélagie, dove si amma ­la. Appena liberato, apprende che è condannato a paga ­re le spese della colonna Vendí´me abbattuta.

Ed eccolo, ostaggio della Comune, che fugge le perse ­cuzioni, i sequestri del Potere, che si rifugia in Svizze ­ra.
Sulle sue carte da lettera intestate, egli stampa con ostentazione l’indicazione: Gustave Courbet, maître peintre, sans idéal et sans religion. Ciò farebbe un po’ Homais, se l’opposizione alla morale imperiale non fos ­se un’arguzia al suo spirito battagliero. Senza ideale! Tutto dipende dal senso che si da a questa parola! Courbet, il libero pensatore, avrebbe voluto bandire Dio dal ciclo per sostituirgli l’apoteosi dell’uomo; egli era impegnato in questa causa dal fiato corto e tuttavia molto fraterna che, per certi tra di noi, fu ancora l’aspi ­razione dei nostri padri. Il suo ideale (egli ne morrà qualunque cosa ne abbia potuto dire) fu quello degli uomini del 1848: aveva un amore infinito per la Re ­pubblica.

Per questo grande ragazzo che voleva sempre essere nell’attenzione di tutti, l’esilio fu molto penoso. Lonta ­no dal centro delle arti nel “paese dall’anima in ripo ­so”, non fece parlare di sé che da Losanna fino a Gine ­vra. Eccolo condannato al lavoro solitario, alla vita riti ­rata, al restringimento su un piccolo territorio: la peg ­giore delle punizioni per questo grande corpo, desidero ­so d’essere un bersaglio sotto tutti i riguardi. Tolta per lui la possibilità d’intendere il risuonare della sua eco sulle labbra degli altri, di moltipllcare il suo riflesso nelle acque luccicanti e ciarliere, egli sta per divenire quell’acqua che sciaborda, lì, nei pressi della sua casa.

Coloro che l’hanno visto a “Bon-Port” â— nella pic ­cola camera da letto, decorata di una stufa di maiolica bianca, d’un canapè e del letto di ferro dove dormiva su un solo materasso â— parlano della melanconia indefi ­nibile che egli aveva negli occhi, della fantasticheria che sembrava occuparlo tutto intiero. Per quest’uomo privo d’immaginazione, al quale importa solo il presente, il ricordo e il futuro riempivano allora unicamente l’esi ­stenza. Beveva ogni giorno fino a dodici litri di vino e non resisteva alla tentazione della “charmante”, cioè l’assenzio. Nuotava nel lago come un tritone e aveva un godimento speciale a galleggiare sull’acqua. “Egli ha sempre amato l’acqua, dice Castagnary: dappertutto dove egli trovava un po’ d’acqua, si è sempre bagnato”.

Quest’acqua nella quale molte volte contemplava la sua immagine, sta ora riempendolo e invadendolo tutto intero. Sotto l’effetto dell’idropisia, Courbet si va gon ­fiando come un animale; si annega in se stesso, e facen ­dolo, compie il suo proprio destino. Così, dissolvendo a poco a poco se stesso nella sostanza liquida, quest’uomo farà ritorno all’elementare al di là; quell’al di là, del quale ha pensato “che niente esiste”. Ma qualche cosa di lui, dopo, risusciterà in quell’inconoscibile realtà che fu, per lui stesso, la pittura.

1Jules Vallès, Journal d’Arthur Vingtras, le “Gil-Blas”, 9 maggio 1882.

2Passate le follie della giovinezza durante la quale egli ebbe un figlio, vi è tuttalpiù, dopo la Comune, la sua avventura un po’ scandalosa con “l’innamorata di celebrità” che lo bombardava e che egli bombardava di biglietti erotici; Courbet era più felice nell’ambito dell’amicizia dove seppe conservare degli affetti, fra l’altro quello di Mme Jolicler.

3O, ancora, una libertà che guida il Popolo, una Rue Transnonain.

4Daumier pensa allora di disertare la caricatura e si mette a disegnare delle sce ­ne di costume e a dipingere.

5Inedito, lettera di Courbet a Etienne Baudry (Papiers Castagnary).

6Courbet, corrispondenza inedita.

7Ma egli è engagé contro coloro che vogliono “governare” le arti, e per la difesa dell’indipendenza assoluta dell’artista; è integrato per una sua propria convinzione e non per quella degli altri, secondo il collettivismo di Fourier che salvaguarda interamente la parte dell’individuo.


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Bart