PITTURA: Dal quadro al racconto: Ossa e rocce
7 Dicembre 2007
racconto di Marco Ercolani
[Marco Ercolani, nato a Genova nel 1954, è psichiatra e scrittore. Tra i suoi libri: Col favore delle tenebre, Vite dettate, Lezioni di eresia, Il mese dopo l’ultimo, Carte false, Il demone accanto, Taala e Il tempo di Perseo. È autore di Fuoricanto, una raccolta di saggi critici su alcuni poeti contemporanei. In coppia con Lucetta Frisa ha scritto Nodi del cuore e Anime strane e cura la collana «I libri dell’Arca » per le edizioni Joker.]
Annotazioni sparse di Hercules Seghers, incisore olandese (1629).
Nel primo stadio incido una valle assolata, con rocce spaccate; esseri umani minuscoli, le mani strette a mappe invisibili; la sabbia che scende dal cielo e le montagne che si ricoprono, fino all’orizzonte, di granelli fittissimi, con le rocce sul punto di accartocciarsi sotto quella pioggia vorticosa e scura.
La sabbia divora gli occhi, il naso, la gola. La natura sembra andare a fuoco, il cielo è coperto da un velo colore del rame. Nel secondo stadio cancello tutte le forme: il paesaggio deserto sprofonda in una foschia ancora più spessa. Le raffiche soffiano una dopo l’altra, incessanti e interminabili, tanto da trasformare le rocce in nebbia e i naufraghi in polvere. Al terzo la tormenta è finita. Col bulino incido rovine. Restano solo grandi macchie scure, come masse di sabbia, e grandi aree bianche, come oasi abbacinate.
Il mondo è fatto di rocce aguzze e il corpo di ossa. Io vivo da anni nelle mie ossa e stilo qui il mio taccuino di nomade. Non c’è nessuno, fra coloro che furono e sono pittori, a garantirmi di essere vivi, se non coloro che vissero dentro la pietra e la portarono alla vita – l’Antelami, Michelangelo. Nella Valle con fiume ho raffigurato la condizione più autentica dell’uomo: i vivi che non hanno più la forza di spostare i morti e restano immobili accanto a loro, aspettando che la fine li sorprenda e li risparmi dalla fatica di camminare ancora. Sul foglio ho impresso segni più leggeri per i vivi, più marcati per i morti, e qui e là ho accennato ombre di fuochi. L’arte è non credere al senso metafisico delle  architetture ma pensare che la roccia è roccia e l’uomo è uomo, senza altra compagnia che quel fuoco vacillante. La grazia è il coraggio di incidere un paesaggio irrimediabile, che non verrà salvato né dai naufragi né dalle aurore, ma sarà solo un diamante crepato nella sabbia, una fase dell’anima.
Ho visioni, incido la materia, ma non è come respirare. L’aria mi vuole, mi insegue. Soffia da fuori e da dentro, viene dal mondo e dai polmoni. E io, in mezzo, come una roccia, ostinato, a incidere, in apnea, un paesaggio aguzzo, osseo, composto di pietre  e di sabbia. Non reggo più, lascio il bulino. Le mura di Amsterdam non ci sono più. Nella volta del cielo, al confine dell’orizzonte, l’aria soffia tanto forte da formare una parete di roccia. Tasto la parete, è terra arida; a tentoni smuovo radici e pianto semi.
Nell’anno e nel giorno dell’oscurità , quando non c’erano né giorni né anni e la terra era ancora coperta d’acqua, pezzi di argilla si mescolarono a spruzzi di schiuma e apparvero isole di ossa e di sassi, immerse nel buio; ma, non appena soffiò il vento, le isole divennero vive, si urtarono, generarono fumi, vapori, ombre – le mie immagini del mondo.
Ieri ho sognato che non mi chiamavo Hercules Seghers ma ero un pittore cinese dell’anno 1000, di nome Wang Vei, e sognavo che di tutta la mia opera sarebbe sopravvissuta solo la copia malfatta di un rotolo mediocre Schiarita dopo una nevicata, e l’originale ma prevedibile Paesaggio sotto la neve. A quel destino, rappresentato da immagini inappellabili, non potevo opporre niente: avevo un bell’alzare la voce e mostrare i miei veri quadri, srotolare i paesaggi e le figure, ostentare la complessità dei chiaroscuri: un velo opaco si stendeva fra me e gli altri, che si allontanavano e diventavano minuscoli, la mia voce non li raggiungeva più, le mie tele si perdevano nella nebbia, e io affidavo a poche righe d’inchiostro, nel novembre dell’anno 958, alle frontiere del Tau Pin, vicino al fiume Oseza, nel Promontorio delle Sette Ali, mentre la luna appariva nel cielo, fra le due valli, la storia infelice dello sciagurato Wang Vei che, nella solitudine del suo eremo, si ubriaca e dipinge un polveroso deserto di rocce, che nessuno ricorderà perché lui è stato il celebre Wang Vei, il pittore più insigne dell’epoca Tang, virtuoso dello tsao, perfetto calligrafo…
Non affreschi di santi, non Angeli che trascrivono Vangeli, non Osanna al Signore. Le mura smettono di servire Dio. Rendo grazie a me stesso e dipingo Ivan il viaggiatore. Ivan entra nel bosco, la fonte lo incanta, l’anello magico lo rende invisibile, duella con Ascalon e lo uccide, assiste al suo funerale, si innamora della vedova del morto, ma lei non lo vede, Ivan fugge via, traversa mille paesi, impazzisce, rinsavisce, ritorna, torna visibile, lei lo vede, si innamora di lui, esultano, si sposano. Nessun dio governa la storia. Solo Ivan, furioso, che durante la follia si ciba di rovi e piscia fra le pietre. Solo Ivan, innamorato, che emette urla di giubilo.
L’artista si toglie un orecchio e lo inchioda alla porta perché altri viaggiatori, prima o dopo di lui, vengano a gridarci dentro. Io sono uno di questi. Ivan non ha fede ma solo sentieri. La fede provoca roghi e processi. Dio non è proprietà dei vescovi e degli inquisitori: è dentro la pelle e non può essere visto. Tutto è così realmente divino da non avere bisogno di nessun’altra immagine che non sia l’uomo nudo e solo che incontra un altro uomo, nudo e solo come lui.
Ubriaco, stramazza dal dorso di un asino, mentre traversa una forra strettissima. Batte la testa e muore. Anni dopo, passando da quella forra, un pittore vede il teschio di un uomo biancheggiare fra le pietre e decide di dipingerlo.
Io conosco la grazia che si concede alle ossa nude degli uomini, quando vengono viste da altri uomini. È una grazia immutata nel corso dei secoli: dare parole alle vertebre calcificate ai crocevia e sparse nell’erba dei campi, fare che il vento soffi nelle costole e nei teschi come nelle gole della montagna, formando echi di suoni e di canti.
Elsheimer – mio malinconico compagno di paesaggi – è d’accordo con me. Entrambi odiamo la facile retorica di Rembrandt (quando copiò la mia Grande Valle la affollò di personaggi che non c’entravano nulla con quel pietrame). Ma Rembrandt genererà secoli di colori e di psicologie; noi, invece, resteremo come falangi appese ai muri, e nessuno darà peso alle nostre mani perdute.
Ma intanto, al lavoro. Orizzonti bassi, cieli opachi, terre che sembrano rocce. Paesaggio deserto. E, talvolta, la sensazione che il bulino sia il piccone con cui spezzettare la pietra in schegge – e ogni scheggia, benché microscopica, sia segnata dall’impronta di un corpo, dalla traccia di un nome.
Letto 3685 volte.