Libri, leggende, informazioni sulla città di LuccaBenvenutoWelcome
 
Rivista d'arte Parliamone
La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

PITTURA: I MAESTRI: Daumier: Testimone incandescente

28 Ottobre 2010

di Luigi Barzini
[Classici dell’arte, Rizzoli, 1971]

Un grande paese, la Francia, che la libertà cre ­scente e l’industrializzazione trasformano di anno in anno; tre rivoluzioni: 1830, 1848, 1870; cinque costi ­tuzioni; quattro regimi, dalla restaurazione alla monarchia costituzionale e la Seconda Repubblica, dal Secondo Impero alla Terza Repubblica. Un uomo, Honoré Daumier, che nel corso della sua vita fu ap ­passionato partecipe e testimone di questi turbinosi sconvolgimenti (nel 1830 ricevette anche una sciabo ­lata in fronte); in particolare, durante la Rivoluzione di Febbraio, presenziò a tumultuose riunioni di intel ­lettuali. Un artista così strettamente coinvolto negli avvenimenti che probabilmente avrebbe potuto dire, come un altro pittore assai noto, Courbet: “Senza la rivoluzione del ’48 forse non ci sarebbe stata la mia pittura”.

Se gli avvenimenti del 1830, infatti, che portarono fortunosamente e inaspettatamente al potere Luigi Fi ­lippo, rivelarono Daumier come spietato disegnatore politico e autore di aspre litografie satiriche, è proba ­bile che quelli del 1848 lo rivelarono anche a se stesso come vero pittore (alcuni critici affermano addirittu ­ra che egli cominciò a dipingere proprio in quella oc ­casione: e il fatto che pochissime opere dell’artista sia ­no datate può lasciare il dubbio). Comunque è certo che il 1848 fu per lui, come del resto per tutta l’Euro ­pa, una svolta decisiva; la sua vita e la sua arte non furono più le stesse.

Si sarebbe, quindi, tentati di applicare a Daumier un vecchio luogo comune tranquillante e chiamar ­lo “l’artista interprete del suo tempo”. La sua arte è infatti tutta imbevuta di particolari aspetti correnti del secolo, quelli che infiammarono la sua passione politica. Certamente egli fu uno specchio, tuttavia non un semplice specchio dalle mille sfaccettature che riflette e registra con eguale indifferenza o tepida pas ­sione ogni genere di avvenimenti bianchi e neri, tristi e gai, popolari e borghesi, progressisti e reazionari. Lionello Venturi, in un suo saggio del 1934, affermò che Daumier era grande perché “intuì il carattere eroico del popolo”, mentre Raymond Escholier ha de ­finito nel 1965 la sua come un’ “opera eminentemente sovversiva”. Il fatto è che Daumier, per ascendenza, per formazione, per sentimento, fu completamente ca ­lato in una parte della realtà francese dell’Ottocento, quella dei tre citati rivolgimenti nazionali e popolari. Avrebbe potuto essere un David. Preferì unirsi alla schiera dei Courbet.

Va chiarito, a questo proposito, che egli non fu un grande (forse grandissimo) disegnatore, litografo, pit ­tore e scultore perché, come pensano alcuni, era inva ­sato dalle ansie democratiche e rivoluzionarie. Vi fu ­rono in Francia (e in altre parti d’Europa) artisti for ­se più accanitamente appassionati ai problemi politici del loro tempo, tutti schierati con i liberali, i demo ­cratici, i patrioti, i rivoluzionari, che però non rag ­giunsero la grandezza e sono oggi dimenticati. Dau ­mier fu grande perché la sua arte fu animata da una passione che la fece divampare e la rese incandescen ­te, come il vento ingigantisce le fiamme di un piccolo fuoco. Così altri artisti raggiunsero vertici inaspettati spinti da passioni diverse ma quasi altrettanto travol ­genti, l’amore per la luce e i colori, per la realtà, per la carne madreperlacea della donna bella, per l’epopea militare, per lo spettacolo della natura, le rive della Senna di domenica, la predilezione per le scene esotiche. oppure l’ordine e la precisione che davano l’illusione all’uomo di poter addomesticare la ribelle e contrad-dittoria realtà, e di fermare il tempo. Ve ne furono di eminenti (alcuni anche grandi) che sentivano odio e paura per le nuove idee del secolo, quelle stesse che entusiasmavano Daumier, si struggevano per mode e abitudini antiche, e chiedevano che si ristabilisse l’im ­perio dell’autorità.

Il disegno, Daumier, l’aveva comunque nel san ­gue. Inutilmente il padre (uno strano tipo di vetraio-poeta di umilissime origini) e la madre tentarono di impiegarlo, molto più seriamente, dapprima come ‘galoppino’ presso un usciere, poi come commesso di libreria. Alla madre che desolata gli chiedeva in dia ­letto meridionale: ” Mon pí´vre Honoré, tu né sais pas ce qué tu veux faire! tu né le sais pas!”, il dodicenne Honoré così rispondeva (secondo quanto ci riferisce Arsène Alexandre): “Mais si… je veux dessiner”. Molto semplicemente. È indubbio, tuttavia, che quel ­le sue esperienze giovanili, quei mestieri a cui si ap ­plicò per volontà dei genitori nel tentativo di distrarlo dalla sua vocazione, colpirono la sua fantasia, ne ar ­ricchirono la personalità di artista, tanto che molti aspetti della sua arte di litografo prima e pittore poi ne rimasero fortemente influenzati. Gli fornirono, cioè, la materia da trasformare, così come il servizio militare diede a Leone Tolstoi le pagine memorabili delle battaglie napoleoniche. Ogni grande artista, è stato detto, in realtà non fa che comporre la propria autobiografia.

Le sue quattromila litografie (per l’esattezza 3958, ma altri dicono 3998) sono, infatti, una galleria infi ­nita di scene e personaggi di ogni giorno, visti con l’e ­sattezza che solo l’odio può dare, eseguiti in quaranta anni di attività. Ma il suo mondo è pura invenzione. La sua è una vera e propria Comédie Humaine visi ­va. E non è forse un caso che, a uno dei fogli che ospitò le prime tavole dell’artista, collaborasse proprio l’autore di quell’ammirevole e vulcanico monumento della letteratura umana: Balzac. “La Caricature” di Philipon e Aubert (apparsa fra il 4 novembre 1830 e il 27 agosto 1835 in 251 numeri) pubblicava infatti le litografie di Daumier accanto ad articoli firmati dal “comte Alexandre de B.”, pseudonimo appunto di Balzac. Il quale fu subito colpito dalla potenza delle composizioni dell’artista, solide come bassorilievi, e se ne uscì con la famosa e profetica frase: ” Ce gaillard-là a du Michel-Ange sous la peau!”. Col tempo, e specialmente nei suoi quadri, la decisione dei contor ­ni, l’ampiezza dei volumi, lo stile epico si vennero sempre più caratterizzando, tanto è vero che il pittore Daubigny, visitando gli affreschi michelangioleschi in San Pietro, si dice che esclamasse: “C’est comme du Daumier!”. E questa sarà anche l’opinione di Théodore de Banville e di Edmond About.

La prima collaborazione di Daumier fu a “La Sil ­houette” di Ratier e Ricourt (apparso fra il 1829 e il 1831 ): i suoi primi disegni, firmati con le note iniziali “H.D.”. dovevano essere: Passe ton chemin, cochon! e Le Vieux Drapeau, in cui la bandiera tricolore della rivoluzione e di Napoleone viene opposta a quella bianca gigliata degli antichi re di Francia e di Carlo X. I temi politici sono subito evidenti. Uno di questi, come è noto, lo portò in prigione: il 15 dicembre 1831 apparve su ” La Caricature ” una famosa litografia in ­titolata Gargantua che rappresentava Luigi Filippo (con la nota testa a pera: altra celebre invenzione di Daumier) ingurgitante tutto ciò che poteva sottrarre al popolo ed alla borghesia. Ciò costò all’autore sei mesi di carcere e cinquecento franchi d’ammenda. Il gior ­nale così lo annunciava il 30 agosto 1832: ” Au moment où nous écrivons ces lignes, on arríªtait sous les yeux de son pére et de sa mère, dont il était le seul soutien, M. Daumier, condamné a six mois de prison, pour la ca ­ricature de Gargantua”. La legge sulla stampa del 29 agosto 1835 costringe “La Caricature” a chiudere i battenti, ma Daumier, pur abbandonando la satira po ­litica, continua nella sua via, anche per non vivere in una completa indigenza. Si dedica allora più intensa ­mente al “Charivari”, che il prudente Philipon aveva fondato nell’ottobre 1832.

Le reminiscenze della gioventù gli vengono in soc ­corso. Nella serie dei Types parisiens (argomento ano ­nimo che non gli avrebbe procurato noie) ci offre una galleria di personaggi indescrivibili: macchiette di ogni genere, ricchi e poveri, venditori di paccottiglia, artigiani, vagabondi, tipi originali. In essi, come scri ­ve Jean Adhémar, Daumier “montrera, volontairement ou non, qu’il se souvient du Palais-Royal de sa jeunesse, et que les mois qu’il a passés derrière le vi ­trage de la librairie Delaunay n’ont pas été perdus pour lui”. Nella serie è compresa anche quella che in genere viene considerata una autocaricatura dell’arti ­sta nel periodo in cui era apprendista fattorino. Dice la didascalia: ” Le petit clerc mange peu, court beaucoup, flí¢ne davantage et revient le plus tard possible à l’étude où il est le souffredouleur “. Il disegno mo ­stra un ragazzino infagottato in un vestito troppo grande, soffocato da una cravattona nera, le orecchie a sventola calcate sotto un buffo cappello. Il tono sati ­rico ma sofferto delle parole, l’incertezza che il fan ­ciullo sembra provare nel momento in cui sta per gi ­rare la maniglia della porta dello studio, tutto questo può far veramente supporre che il Daumier adulto pensasse in quel momento al Daumier bambino. Le serie continueranno poi con Moeurs conjugales (1834-42), Les Bas-Bleus (1844), Les Papas (1846-48), Les Bons Bourgeois (1846-49), Les Divorceuses (1848) e così via, spostando di volta in volta la propria ottica da un ‘tipo’ all’altro.

Il fatto che l’artista iniziò o meno a dipingere in occasione del ’48 non ha, in fondo, molta importanza. È comunque certo che in quel periodo il pittore fece le sue prime apparizioni ufficiali, anche perché alcuni suoi amici democratici assunsero, sotto Lamartine, posizio ­ni di responsabilità, e divennero personaggi autorevo ­li: Jeanron divenne direttore dei Musei Nazionali, mentre Decamps presiedeva il comitato della Sezione di Pittura, che teneva le sue riunioni all’École des Beaux-Arts. Così, in occasione di un concorso bandito il 18 marzo 1848 fra gli artisti francesi allo scopo di dare un volto alla effimera Repubblica nata in quei giorni sanguinosi, Daumier partecipò con un noto quadro che fu accolto però con tali riserve da non far attribuire al suo autore alcuna ricompensa: una enor ­me ‘Marianna’, seminuda, robusta, con i capelli sciolti sulle spalle, berretto frigio, è seduta ed offre il suo ampio seno agli operai (rappresentati da bimbi ignu ­di) che si nutrono di lei; ai suoi piedi un bimbo legge un libro. In una mano la donna sostiene la ban ­diera con i tre colori della prima e della seconda re ­pubblica: blu, bianco, rosso; con l’altra accarezza uno dei suoi protetti. Non per nulla il titolo è: La République nourrit ses enfants et les instruit. Dello stesso periodo è l’ultima caricatura (la 109a dal 1830) con ­sacrata a Luigi Filippo: l’ex re sbarca in Inghilterra proclamando: “Tout est perdu, sauf la caisse!”.

La pittura di Daumier sembra necessariamente discendere dal disegno e dalla litografia. Questo suo interesse, unito a quello per la stampa di costumi e la caricatura, ha fatto parlare recentemente un critico italiano di “discendenza dalla tradizione inglese”. Vi si sentono, senza dubbio, gli echi di Hogarth e Rowlandson. Notava tuttavia Baudelaire, nelle Curiosités Esthétiques: ” Ce qui complète le caractère remarquable de Daumier, et en fait un artiste special appartenant a l’illustre famille des maîtres, c’est que son dessin est naturellement coloré. Ses lithographies et ses dessins sur bois éveillent des idées de couleur. Son crayon contient autre chose que du noir bon a délimiter des contours. Il fait deviner la couleur comme la pensée…”. Il colore implicito di Daumier nei disegni in bianco e nero veniva anche dall’aver apprezzato e studiato i maestri olandesi e fiamminghi, Rembrandt e Rubens, nonché lo spagnolo Goya, sotto certi aspet ­ti: li ha visti al Louvre tra il 1825 ed il 1830 quando, allievo dello stampatore Belliard, stava imparando l’arte della litografia; ha eseguito anche copie, sempre al Louvre, intomo al 1833. E quando si fa pittore, i suoi sono colori che tendono al cupo (anche se poi al ­leggeriti da una sorgente luminosa posta normalmente alla sinistra di chi guarda il quadro). È del disegnato ­re e del litografo la predilezione di Daumier pittore per le grandi masse che poi si distendono e prendono forma, ed anche l’atmosfera a volte fuligginosa a vol ­te immersa in un chiarore diffuso, che permettono di trarre certe ascendenze.

Purtroppo, però, i metodi adoperati da Daumier per i suoi quadri erano assai affrettati, e tanto imper ­fetti che oggi, a un secolo di distanza, se ne risentono gli effetti: scrostature, screpolature, annerimenti, mu ­tamenti di colore hanno obbligato infatti a molti re ­stauri. La ragione risale non soltanto ad imperfezione tecnica indubbia quanto all’abitudine ad un lavoro, quello litografico che gli procurava da vivere, obbli ­gatoriamente rapido, giornalistico, effimero, senza ri ­pensamenti, che non aveva bisogno di approfondi ­menti e di particolari tecniche compositive. Tale me ­todo di lavoro si rifletteva forse anche nella ripugnan ­za che Daumier aveva nel copiare direttamente dal vero, all’aria aperta; a lasciarsi ispirare da un sogget ­to (animale, persona) davanti a sé.

Descrivendo una visita all’artista fatta nel gennai 1852, Poulet-Malassis riporta la sua dichiarazione as ­sai significativa, che ricominciava ogni cosa venticin ­que volte e alla fine faceva tutto in due giorni. Oltre al modo istintivo e interiore di lavorare, le parole ri ­velano come il pittore non sia capace di concepire una tela rifacendosi a quei dettagli che solo un mo ­dello vivente poteva dargli, ma doveva necessaria ­mente farli affiorare dalla sua memoria inconscia. So ­lo così poteva raggiungere una verità più vera di quella inseguita dai naturalisti. Una volta Daumier aveva promesso a Henri Monnier un ritratto, ma il giorno in cui l’amico si presentò per la posa, l’artista gli mostrò il quadro bell’e pronto: lo aveva fatto la sera prima in sole due ore, a memoria (e non a caso in francese si dice ‘par coeur’), tanto era l’orrore che provava di fronte al lavoro di posa. Al che, Monnier non potè che esclamare: “Superbe! Il faut bien te garder d’y toucher!”.

In un’altra occasione Daumier doveva disegnare delle anitre: trovandosi a Valmondois, si reca dall’a ­mico Geoffroy-Dechaume e chiede di vedere qualcuno di questi animali perché deve fare una litografia per il “Charivari”. Un gruppo di anitre nuota in un ru ­scelletto: Daumier, appoggiato ad un ponte, guarda attentamente; chiede l’amico: ” Eh bien, veux-tu un carnet, un crayon? Il te faut prendre un croquis…; risponde Daumier: ” Merci, Geoffroy; tu le sais bien, je ne peux pas dessiner d’après nature…”. Il suo cer ­vello era più sensibile dell’occhio: capace di registrare e ricordare acutamente non solo l’aspetto esteriore di un individuo, con tutte le sue imperfezioni e tare, quello che avrebbero riprodotto pittori più preparati tecnicamente di lui, ma anche il carattere e l’essenza morale, interiore, del modello immaginario. Ancora Baudelaire ha detto di lui: “Comme artiste, ce qui le distingue, c’est la certitude: il a une mémoire merveilleuse et quasi divine qui lui sert de modèle”.

È questo, probabilmente, il motivo principale per cui, rimasti impressi nella sua mente di bambino certe scene e certi soggetti, è stato capace di utilizzarli in modo così caratteristico e in una serie infinita di va ­riazioni per tutto il resto della sua vita d’artista. La sua attività di ‘galoppino’ lo aveva portato spesso a contatto con il mondo degli avvocati, nei meandri del Palazzo di Giustizia: vi scopre miserie, violenze mora ­li, menzogne, cinismo, ipocrisia. “Il se sent solidaire des malheureux”, nota Georges Besson, e soprattutto in quell’ambiente “il apprend à juger. Il juge. Il jugera jusqu’à la fin de sa vie”. E il risultato, come è no ­to, sarà quella galleria di innumerevoli ritratti d’avvo ­cati che, con toga e tocco, confabulano fra loro, guar ­dano sussiegosi i clienti, con disprezzo o deferenza al ­tri colleghi, salgono lunghissimi scaloni di marmo, so ­stano pensosi negli angoli, si preparano enfaticamente all’udienza. L’impiego presso la libreria Delaunay nel ­le gallerie del Palais-Royal (a quell’epoca centro della capitale francese) permetterà al giovane Honoré quelle esperienze che daranno vita ai citati ‘tipi pari ­gini’. Mentre la frequentazione dell’atelier di Alexandre Lenoir, amico del padre e appassionato di scultu ­ra e pittura, gli apre una finestra su di un tipo assai diverso di umanità: quello degli artisti in genere. An ­ch’essi ritroveremo in innumerevoli dipinti dedicati allo ‘studio di uno scultore’, al ‘pittore davanti al suo quadro’, all”artista’ e così via.

Interprete del suo tempo, dunque, Daumier. Ma in che senso la sua è stata definita, come s’è detto, “oeuvre éminemment subversive”? Nel senso, senza dubbio, che Daumier si ribellò all’ “Ordre des Choses”, la condizione dell’uomo. E durante la sua vita l’ ” Ordre des Choses” venne impersonato dalla Restaurazione e da Luigi Filippo (1814-1848) e dal Secondo Impero 1852-1870). I pochissimi giorni della rivoluzione del 1830 ed i quattro anni della Seconda Repubblica non potevano certo considerarsi la regola, bensì l’eccezio ­ne. Comunque, se fossero durati a lungo, noi, che abbiamo visto molte altre rivoluzioni, immaginiamo avrebbero provocato nel pittore lo stesso senso di orro ­re e disgusto. ‘Sovversivo’, dunque, in quanto nemico dell’accettazione passiva e rassegnata della vita com’era, dell’ordine che attaccò con le armi che la sua infelicità gli metteva a disposizione.

Honoré Daumier non può considerarsi (come fu considerato in altri tempi) un artista esclusivamente realistico, appassionato come un cronista agli avveni ­menti del suo tempo. La sua tendenza alla deforma ­zione grottesca, non solo dei personaggi che intendeva deridere e distruggere, ma anche di quelli che rappre ­sentava   con   indifferenza   nella normale   descrizione della vita e di un ambiente,   fa spesso pensare al Goya     dei ‘disegni neri’     e     dei     famosi     dipinti della Quinta del Sordo. La maschera della realtà è poi da ­ta dalle sue molte tele dedicate al teatro, alla comme ­dia, al dramma e ai suoi interpreti e spettatori; gu ­sto che non ha questa volta solo un fondamento infan ­tile (qualche critico ha infatti avanzato l’ipotesi che il giovane Honoré abbia assistito alla messa in scena del Philippe II, tragedia scritta da suo padre e rappre ­sentata al teatro di rue Chantereine,   rimanendone fortemente impressionato), che deriva anche da una passione adulta.     Ma   come   Daumier   amava   molto Molière,   così non   apprezzava   l’Opéra-Comique.   A questo proposito Théodore de Banville ci narra un gustoso aneddoto. Anatole, portiere dell’artista, era ir ­requieto, e a una sua domanda riferì che amava mol ­tissimo l!Opéra-Comique ma che non aveva il denaro sufficiente per pagarsi l’entrata. Daumier gli rispose di approfittare del fatto che lui, pur potendo entrare gratis, non ci andava mai:   “Vous n’avez qu’à vous nommer, ou mieux a me nommer au contrí´le, et a di ­re ‘Monsieur Daumier’. Comme í§a, vous irez tant que vous voudrez à l’Opéra-Comique”. Purtroppo, qual ­che giorno dopo il povero Anatole aveva nuovamente una faccia tristissima.   Motivo? Era profondamente umiliato del fatto che lui era il solo in redingote in mezzo a tanta gente in abito nero, da sera. Il buon Daumier risolse anche questo problema, permettendo al suo portiere di prendere ogni volta che fosse neces ­sario il suo frac. Ma non era finita. Una mattina Anatole apparve desolato, abbattuto, vergognoso: era stato sbattuto fuori dal teatro. Infatti ogni sera l’uo ­mo festeggiava la sua gioia di essere tra il ‘bel mondo’ con abbondantissime libagioni, tanto copiose da giun ­gere in sala completamente ubriaco, interrompendo gli attori, dando pacche sullo stomaco dei suoi vicini esclamando:     “Nous     autres   notaires!”,     cantando   a squarciagola. E fu così che il buon Anatole fece cassa ­re il nome di Honoré Daumier dalla lista degli ingres ­si, e fece nascere la voce della predilezione del pittore per il vino. Tanto che ancora molti anni dopo, nel foyer dell’Opéra-Comique, essendo caduto il discorso sul celebre disegnatore, pur lodando la sua bontà, il suo genio e la sua modestia, vi fu qualcuno che disse: “Oui, mais pourquoi faut-il qu’un homme d’un pareil talent ait le triste défaut de boire!”. Nacque così que ­sta leggenda totalmente fantastica.

Daumier, comunque, non fu solo pittore rabbioso di quella realtà, spesso e volentieri triste e malinconi ­ca, della povera gente che lo circondava. In alcune occasioni fu trascinato dalle fantasie che certe sue let ­ture predilette gli suscitavano, La Fontaine, Omero, le leggende classiche, e soprattutto Cervantes: la ver ­ve caricaturale e le coloriture paesaggistiche del Don Chisciotte lo incantavano. Al famoso hidalgo e al suo servitore sono infatti dedicate molte litografie e qua ­dri. L’atmosfera che circonda i due personaggi è deci ­samente leggendaria: l’aria è dorata, il paesaggio quasi irreale, i tratti spesso indefiniti, il tono tra epico e fantastico. La sua tela più famosa, come è noto, è quel Don Chisciotte a cavallo conservato a Monaco: Ronzinante approssimativo e scheletrico, il volto dell‘hidalgo indistinto sullo sfondo azzurro del ciclo, la macchia in secondo piano di Sancio, danno alla pit ­tura il tono emblematico, fuori dal tempo, quasi la figura rappresentata fosse quella del ‘cavaliere erran ­te’ per eccellenza. Anche Don Chisciotte, dopo tutto, era un nemico dell’ “Ordre des Choses”. Come Balzac e poi Hugo e gli altri minori che descrissero nei loro li ­bri la Commedia Umana della Francia ottocentesca, con penne naturalistiche e più che realistiche, così Daumier volle fare in pittura: e in tutto il XIX secolo fu uno dei primi ad elevare a dignità di arte soggetti umilissimi. Rimase in genere solo fedele ai suoi càno ­ni, fu estraneo alle innovazioni che l’impressionismo andava preannunciando: in quegli stessi anni in cui egli raffigurava vagoni di terza classe e appassionati di stampe, interni di omnibus e macellai, bagni pubblici e sale d’aspetto, circhi e vagabondi, giocatori di scac ­chi e lavandaie, avvocati e artisti nel loro studio, ap ­parvero le opere di Manet, Monet, Cézanne, Degas, Pissarro. La definizione della corrente è, caso strano, dovuta proprio al “Charivari”, il giornale che tanto m avvalse delle litografie di Daumier: in un articolo del 1874 (anno in cui già cominciavano a manifesta i m nel pittore i sintomi di quella cecità che gli avrebbe poi impedito di continuare il suo lavoro) Louis Leroy, recensendo la prima mostra collettiva del gruppo dei pittori sopra citati, li chiamò dispregiativamente ‘im ­pressionisti’, prendendo lo spunto da un quadro di Monet dal titolo appunto di Impression: soleil levant. Ma la definizione piacque agli ‘accusati’, che subito si autodefinirono così ed intitolarono la loro terza mostra nel 1877 (due anni prima della morte di Daumier) proprio “Exposition des impressionnistes”.

Una delle prove della grandezza di un artista (non la sola né la più importante) è la sua capacità di vedere le cose del mondo come fossero nuove e di imporre questa sua visione ai successori, ai discepoli e ai seguaci così come agli indifferenti che hanno guar ­dato l’opera sua con occhio distratto od ostile. Questa capacità fu senza dubbio un dono di Daumier, docu ­mentabile dagli studiosi. Non si rivelò subito. Isolato. pittore grottesco a memoria, in un’epoca in cui invece i colleghi più bravi scoprivano il sole, l’aria, la natura. la gioia di piccole cose spensierate, non sembrò gran ­de ai contemporanei, salvo a pochi affezionati amici. La fama dei conoscitori lo raggiunse un anno prima della morte, nel 1878, quando Durand-Ruel raccolse quasi tutte le sue tele per una grande esposizione per ­sonale. Daumier era oramai quasi completamente cieco, in miseria, rintanato in una casetta a Valmondois che Corot aveva messo a sua disposizione. La fama universale lo raggiunse ventun anni dopo la morte, nel 1900, quando l’Ecole des Beaux-Arts gli dedicò una mostra retrospettiva. Ma la sua vera fama è nel ­l’influenza che trasformò la caricatura europea fino al “Simplicissimus” e oltre, e fece del disegno satirico una forma minore di arte: e l’influenza che è chiaramente visibile nei pittori più complessi che hanno seguito i primi impressionisti; in Van Gogh, per esempio, o in Toulouse-Lautrec, amante anche egli della notte, delle lame di luce cruda a sghimbescio, delle stamber ­ghe, degli infelici, delle fisionomie stravolte dal vizio e dalla miseria.


Letto 5824 volte.


Nessun commento

No comments yet.

RSS feed for comments on this post.

Sorry, the comment form is closed at this time.

A chi dovesse inviarmi propri libri, non ne assicuro la lettura e la recensione, anche per mancanza di tempo. Così pure vi prego di non invitarmi a convegni o presentazioni di libri. Ho problemi di sordità. Chiedo scusa.
Bart