Libri, leggende, informazioni sulla città di LuccaBenvenutoWelcome
 
Rivista d'arte Parliamone
La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

PITTURA: I MAESTRI: Giotto e l’invito all’unità

27 Dicembre 2011

di Giancarlo Vigorelli
[dai “Classici dell’Arte Rizzoli”]

Credo, non è presunzione, di avere avuto per Giotto – oserei dire: con Giotto – un incontro privilegiato. Due o tre mesi dopo l’entrata in guerra, nel ’40, ero di passaggio a Padova, e arrivato di corsa nella cap ­pella degli Scrovegni la trovai tutta assediata da im ­palcature. Avevano messo mano da poco ai lavori di ingabbiamento e di protezione degli affreschi; ed io, disperato di non vederli, scavalcando travi e sacchi di sabbia, aiutandomi a una carrucola che portava su materiali, ero salito sui ponti, svelto come un carpentiere, e di colpo ecco che stavo a due passi da quella galle ­ria perpetua di figure, faccia a faccia, potevo allun ­gare le mani, toccarle. Nessuno venne a interromper ­mi; la visita durò l’intera mattinata, sino al mal d’oc ­chi. Gli operai andavano e venivano; forse avranno creduto che fossi un ispettore, tanto mi vedevano at ­tento ed intento; ma anche se ero un “non addetto ai lavori”, o un intruso, gli operai, soprattutto in quel ­le stanche giornate di guerra, avevano altro da fare e da pensare. Mi batteva letteralmente il cuore, per l’emozione di guardare Giotto così insperatamente, quando avevo temuto di non riuscire a vedere niente ; ma un po’ era anche la paura continua d’essere sbat ­tuto giù da un momento all’altro; e più tardi, tanto più vennero avanti le sciagure e le rovine, io ricordavo più volte, con maggiore struggimento, quella febbrile, quasi febbricitante, visita di guerra a Giotto.

 

È un errore, lo so, cominciare a parlare di Giotto dalla vetta degli Scrovegni. La buona regola di una lettura è di prendere le mosse, anzi, dai primi lavori, dagli esordi; e per Giotto, a dovere partire dalle radici e non dalla cima, e se volessimo dare credito anche noi alla leggenda, sarebbe d’obbligo risalire alla sce ­na, o piuttosto alla oleografia, del suo incontro con Cimabue, da ragazzo, lungo i pascoli del Mugello. Ma, anche senza fare torto a Dante, che fissò in un verso e mezzo il doppio destino di Cimabue e di Giotto, è bene tenere conto che la critica più documentata oggi ha allentato non poco i vincoli d’arte tra i due, pur lasciando sopravvivere quelli di bottega, che si svol ­sero intorno al 1272, a tal punto che il Berenson, come leggo nei suoi ultimi diari, sentenziò: ” Giotto non deve nulla a Cimabue, forse qualcosa a Cavallini”.

Non dico che il Berenson faccia ancora, e sempre. testo per tutti; ma, appunto leggendo il suo testamen ­to, Tramonto e crepuscolo, è sorprendente, ed è com ­movente, vedere questo venerando maestro, che do ­po avere passato tutta la vita a rivivere l’arte italiana dei secoli più portentosi, giunto all’età di novantatré anni, poco prima di morire, si lascia andare – proprio su Giotto – a questa cosciente confessione di esempla ­re umiltà: “Giotto – quale problema!… Giotto era un genio, semmai uno ve n’è stato … Come figura centrale della storia dell’arte, Giotto rimane un problema. Mi sento sconcertato ed umiliato e pronto a dire a me stesso: Goditi Giotto, e lascia i problemi agli altri”. È l’invito più giusto da accogliere, quello di tentare di ‘godere’ Giotto, magari da profani e certo non da specialisti: ma per goderlo, non basta ammirarlo ed esaltarlo; occorre capirlo, e per arrivare a capirlo bi ­sogna subito ammettere che in Giotto, come avviene del resto per il vero genio, permane qualcosa di inson ­dabile. Là dove il sublime e il banale forse si incon ­trano, l’arte non si lascia mai decifrare del tutto, d’ac ­cordo; ma l’arte di Giotto – “il più grande pittore medioevale e il maggiore artista romanico”, come In salutava sempre Berenson in una pagina di diario del 1947 – è di quelle, aperte e chiuse nello stesso tempo. che nella loro alta leggibilità persine didattica di fatto non danno troppa confidenza al lettore. Un’opera mo ­derna, anche la più ardua e incomunicabile, è addirit ­tura pettegola, tanto si mette in mostra o si tradisce da tutte le parti : un’opera antica resta un po’ sempre inviolabile, mantiene addosso un pudore oramai igno ­to. La pittura di Giotto, dice giustamente Berenson. è di quelle, “e così lo sono le grandi arti figurative”. che meritano in assoluto il titolo e soprattutto la misura di “quadri di esistenza” (‘Existenzbilder’, la pa ­rola l’ha coniata Jakob Burckhardt); ed infatti essa non facilita le interpretazioni, non sopporta simboli e messaggi, “non fa nessun appello” – conclude Berenson – ma “esiste solamente”.

Avevo constatato coi miei occhi, quella lontana mattina di guerra, davanti all’insieme e ai dettagli tangibili del Sogno di Gioacchino, della Strage degli innocenti, delle Nozze di Cana, dell’Ingresso a Geru ­salemme, del Cristo davanti a Caifa, delle allegorie dei Vizi e delle Virtù, e infine davanti al dantesco Giudi ­zio universale, avevo verificato palmo a palmo su quei muri minacciati la validità della piena ed unica ‘esi ­stenza’ della pittura di Giotto: quell’esistere quotidia ­no ed eterno, privato e storico, dell’uomo dentro la sua pittura. Ma domandiamoci : da dove viene, e co ­me, e perché sussiste, quella persistente consistenza figurale e plastica, ma prima di tutto morale) non solo di ‘essere’ ma di ‘esistere’? Troppe volte a noi uomini moderni è dato ancora di essere vivi, ma spes ­so il nostro esistere di ogni giorno è così logorato e logorante… Ha ragione Montale: oggi possiamo uni ­camente dirci tra di noi “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”; mentre, allora, nei giorni a ciclo in ­tero di Dante e di Giotto, e non così quotidiani come oggi, il vivere era sempre un andare plenario “a di ­versi porti – per lo gran mar dell’essere”. In altre pa ­role, più semplici, la pittura di Giotto, in quella sua fisica facoltà di esistere e basta, e di mantenere nel ­l’arte l’identica forza naturale della vita (che è poi quella, appunto, d’essere viva e di bastare a se stessa), a volerla capire, per quel poco che una pittura così totale può essere spiegata, non cerca e non trova altra illustrazione, anzi corrispondenza ed equivalenza, se non in quella ‘unità’ metafisica che presiedeva l’intera vita, singola e corale, ecclesiastica e civile, di tutto il Medioevo.

 

La realtà, per un uomo e per un artista medioevale, era pur sempre, e primamente, una realtà reli ­giosa. La pittura di Giotto è fondata sulla realtà, e pare persine fondare essa stessa il reale là dove invece lo altera in archetipo o addirittura in ‘fioretto’ e in allegoria : ma è l’unità, a fare la realtà. La poetica medioevale ha avuto, appunto, il suo culmine nel Can ­tico delle creature, che è un inno tridimensionale in ­carnato su Dio, l’Uomo, la Natura, quasi in rapporto paritetico, certo mai interrotto; o se gerarchia c’è tra Dio e l’Uomo e la Natura (la dipendenza cioè tra il Creatore, le Creature, il Creato), non è mai a svantaggio della coralità e meno che meno a danno del ­l’unità. Il rapporto religioso, è sempre rapporto unita ­rio. La pittura di Giotto è unitaria perché è religiosa, e viceversa. L’unità – pariteticamente religiosa ed arti ­stica – è la condizione e la risultante, la radice e il fiore della pittura di Giotto; e no, non vale, come fan ­no certi critici, non basta riconoscergli soltanto una unità estetica, un’unità formale. Esattamente come Li poesia di Dante, che nasce vive ed è immortale secon ­do una unità, dove Dio e l’Uomo si mantengono in rapporto incessante : in tal senso, la poesia di Dante e la pittura di Giotto sono religiose, anzi restano inte ­gralmente cristiane.

Il paragone, e vorrei dire l’identità, tra Giotto e Dante, non è una forzatura, tutt’altro. Da quando la critica contemporanea, soprattutto la poesia moderna, ha riscoperto Dante, quasi di pari passo e conseguen ­temente ha rivalutato Giotto ; così che se si tracciale la parabola della fortuna e della disfortuna del poeta finiremmo, quasi con coincidenza di date, e nell’arco di un comune mutamento del gusto, a descrivere quel ­la del pittore. Ma c’è un punto, a mio parere, dove il parallelo Giotto-Dante va in parte sospeso o almeno trattenuto: ed è quando, sulla scia di tanta critica il ­luministica ed idealistica, si vogliono affrettare i tem ­pi, anzi saltarli, cercando ad ogni costo di intravedere e di indicare in Dante, e in Giotto, due artefici o quan ­to meno due anticipatori del Rinascimento.

Questo, per me, è un errore. Quando la smettere ­mo di credere che il Medioevo sia un’epoca di bar ­barie, e soltanto il Rinascimento l’età delle arti civili. L’idea di un Medioevo primitivo o addirittura incolte. conventuale ma pur sempre catacombale, penitente e flagellante, non sta più in piedi per nessuno e da nes ­suna parte. L’architettura e la struttura romanica e gotica bastano da sé ad esaltare un’epoca, e le recenti spedizioni filologiche sui terreni sprofondati del Me ­dioevo latino e barbarico hanno gloriosamente com ­provato che la cultura europea ha lì tutte le sue ori ­gini, le radici più sacrali. Anche quel fiorire, nella vita e nell’arte, riscontrato da tutti dopo l’anno Mil ­le, non va scambiato del tutto per una primavera an ­ticipata del Rinascimento: sarebbe come sostenere che il francescanesimo non è più un fatto medioevale, ma è un antefatto umanistico. E non è vero : perché la terrestrità e la corporeità francescana è pienamente religiosa, l’uomo e ogni creatura prendono inizio e han ­no fine in Dio. E infatti la pittura giottesca è medioevale, ed è francescana; e sarebbe davvero un abba ­glio storico, e critico, interpretarla come una pittura al di là del Medioevo e già in vista dei padiglioni, non più sacri, del Rinascimento. Non è più giustificabile, e non ha più senso, questo scavalco residuamente ro ­mantico (quando non è addirittura ignorantemente antireligioso), compiuto sul gran corpo organico del Medioevo. Nessuno nega le precedenze, là dove si riscontrano, da accordare al Rinascimento; ma non sov ­vertiamo le carte, non scambiamo i sintomi coi risultati.

L’area dove si muove Giotto è ancora e sempre medioevale, non è umanistica. Sul piano formale, è vero che ha soppiantato bizantinismi e goticismi (Malraux, in una pagina della Métamorphose des Dieux, ha distinto bene: “Lorsque Giotto rompt avec la tradition byzantine, il l’abolit; dans la mesure où il rompt avec la tradition gothique, il l’accomplit”); ed è vero anche che Giotto inaugura un naturalismo che pare a volte già quattrocentesco, tanta è l’anticipatrice genia ­lità di invenzione e di rappresentazione, e tanto l’ico ­ne viene abolita dalla figura. L’icone bizantina era statica, e ieratica, mentre le persone e già i personaggi di Giotto sono creature vive; e, per usare un’imma ­gine medioevale, “currunt in via Dei quasi sine ullo labore”: eccole che corrono sulla via di Dio, o dell’uo ­mo che per un medioevale è la stessa cosa, senza fa ­tica, anzi con felicità, in pieno “gaudium de veritate”, nella gioia cioè dell’identità, creduta e vissuta, tra la Realtà e la Verità.

Questo, non altro, è l’esatto medioevalismo di Giotto; e l’avere detto, e ripetuto, che Giotto è medioevale, non è stato certo per retrocederlo: è la strada, al contrario, più diretta, per riconoscerne e condivider ­ne la modernità. Oltretutto quei critici che hanno troppo lavorato a distaccare Giotto dal Medioevo per incanalarlo in fretta e furia verso l’Umanesimo, fini ­scono di fatto a non vedere quanto egli sia un anticipatore, indiretto e involontario ma effettivo e folgo ­rante, di tanta pittura da Cézanne in avanti, non fosse altro nel senso che gran parte della pittura moderna ha guardato più verso i ‘primitivi’, che non verso i ‘classici’. Non è un’appropriazione indebita dire che il medioevale Giotto è un pittore moderno : alla stessa stregua che Dante, tra tanti poeti antichi, si è fatto per noi il più contemporaneo.

 

Lasciamo Padova, e portiamoci ad Assisi, dove a trent’anni Giotto intonò il ‘cantico’ francescano della Basilica Superiore, e lo rinnoverà nella cappella Bardi della chiesa di Santa Croce a Firenze, a più di cinquant’anni, nel 1317. Il suo itinerario di pittore, ed anche di scultore e d’architetto, ha altre tappe, a Roma, Rimini, Ravenna, Napoli, Milano; ma il suo ro ­veto ardente è da cercare ad Assisi e a Padova, dove davvero il suo genio è all’apice. Della di lui vita si sa ben poco, e la sua non è per niente di quelle da dram ­matizzare: ma gli anni degli Scrovegni devono esseri-stati quelli capitali, tanto della vita quanto della sua arte; siamo al poema globale, alla ‘summa’.

Ma anche conferendo il primato agli affreschi degli Scrovegni – devo ancora trascrivere un passo del diario di Berenson: “Ma i Giotto nell’Arena! Sicura ­mente l’arte non ha mai raggiunto niente di più per ­fetto nella esecuzione, nei colori che sono come delle gioie, di più nobile nella composizione, di più profon ­do nel modo di intraprendere le storie dei Vange ­li!” -, non si deve togliere niente, pur nel legittimo alto e basso di una carriera artistica, alle altre opere, proprio perché anche in un’opera minore di Giotto. come nella maggiore, sussiste e permane quella co ­stante dell’unità di fondo che quasi non fa neppure avvertire le eventuali regressioni, e le cadute, ed è come se tante frecce fossero tirate con maggiore o minore veemenza, o più alto stile, ma l’una per l’altra tutte fanno sempre centro: non siamo mai al di qua o al di là, come spesso avviene in un’opera moderna.

I risultati ovviamente variano, ma se noi oggi lavoria ­mo per ‘stati d’animo’, allora quei grandi maestri ope ­ravano sempre, nonostante tutto, in ‘stato di grazia’.
Ed una ragione c’è, infatti, se un frammento medioevale resta tuttora unitario, mentre anche una ‘summa’ moderna risulta o almeno appare incompiuta e scheggiata.

 

Alle soglie del Duemila, che forse potrebbe affacciarsi con terrori maggiori di quelli dell’anno Mille, questo rimisurarci a tastoni nell’unità etica e poetica di tutto il Medioevo – e sull’esempio così tangibile di Giotto: dal Giotto lirico di Assisi a quello tragico d; Padova – è una profonda lezione, può essere un invito alla salvezza. Il nostro tempo, e più ancora il nuovo millennio che sta per nascere da questa attuale doglia planetaria, pare annunciarsi più medioevale, a bene intenderci, che classico o rinascimentale. Né Joyce né Klee, per fare due alti esempi, non sono eroi umani ­stici: quella che è in entrambi l’assoluta ‘modernità, è in ognuno l’assoluta ‘spiritualità’, e la comune ‘pri ­mitività’, anche sotto alle diverse investiture intellet-tualistiche; e sarebbe il più grave sbaglio classificarli come innovatori unicamente di forme e di tecniche.

Non voglio contestare i valori, correttivi e anche depurativi, della critica formalista; ed è ovvio che tutto quel che un artista fa, non vale se non si incarna in una forma, non si struttura in un linguaggio e in uno stile; ma non è conseguibile una unità tecnica e formale, se non preesistei un’azione (quanto meno, una volontà) di unità di sangue e di idee. L’etica, viene sempre prima della poetica; e in Giotto, come in tutti gli artisti del Medioevo, questa precedenza era natu ­rale, veniva di pari passo dal cuore e dall’intelletto, la respiravano nell’aria: e tutto il resto era un incrocio, sublime e normale nello stesso tempo, tra la Grazia e il mestiere, tra l’Arte e l’artigianato. Come si spiega, altrimenti, il fatto che in una stessa ‘bottega d’arte’ medioevale il lavoro del maestro rischiava talvolta di non distinguersi da quello dello scolaro, se non tenendo conto che tra di essi più che una uniformità di scuola e di tecniche faceva da vincolo una comune unità di fede, di dottrina, di visione del mondo?

Senza accertare ed accettare la visione religiosa di Giotto – e avviene lo stesso per Dante – non se ne può interpretare a fondo la realizzazione artistica. Il Me ­dioevo, se lo ricordino i superrinascimentalisti, a di ­stanza di appena cinquant’anni e soltanto in Italia ha dato tre ‘summae’, quella filosofica di Tommaso d’Aquino, quella poetica di Dante, quella pittorica di Giotto; e forse sarebbe più giusto dire un’unica ‘summa’ in tre smisurate misure.

Anche l’età moderna, pur nel meritorio gioco perpetuo delle ricerche e delle crisi, ha già dato più di una ‘summa’, magari dissacrata ma reintegrante. Ma se, sino a ieri, eravamo appena capaci di una ‘summa’ soltanto univoca ed unilaterale, che puntava cioè ver ­so valori tuttora isolati, forse domani – come Giotto -torneremo a essere propensi e pronti a darci, e a dare, una ‘summa’ nuovamente unitaria e plenaria.

 


Letto 5493 volte.


2 Comments

  1. Commento by Michele Francesco Schiavon — 30 Dicembre 2011 @ 13:13

    Per vostra conoscenza.
     http://www.youtube.com/watch?v=yEouwRuC9WQ

    http://www.youtube.com/watch?v=yEouwRuC9WQ

     
     

    http://www.youtube.com/watch?v=yEouwRuC9WQ

  2. Commento by Bartolomeo Di Monaco — 30 Dicembre 2011 @ 15:20

    Grazie.

RSS feed for comments on this post.

Sorry, the comment form is closed at this time.

A chi dovesse inviarmi propri libri, non ne assicuro la lettura e la recensione, anche per mancanza di tempo. Così pure vi prego di non invitarmi a convegni o presentazioni di libri. Ho problemi di sordità. Chiedo scusa.
Bart