PITTURA: I MAESTRI: Rembrandt: Il sangue di una perla11 Ottobre 2018 di Giovanni Arpino Diceva Marcel Duchamp che è impossibile, forse addirittura blasfemo, commentare un’opera d’arte. So Âlo gli occhi e un determinato atteggiamento mentale possono collocarci in giusta disposizione davanti a una tela, una scultura, un’incisione. La parola è non solo arbitraria ma insolente e ridicola, e rischia sem Âpre di sovrapporsi a quanto la tela o la scultura di Âcono. La parola può tradire. Inoltre: chi siamo noi, uomini d’oggi?, e con quali metri possiamo misurare il frutto d’un’arte antica? Tre secoli esatti ci dividono da Rembrandt, una distanza infinita. Noi abbiamo perduto la nostra misura, mentre un europeo del Seicento era davvero il signore dell’uni Âverso. Rembrandt e noi: corre una differenza come tra la sua Lezione d’anatomia del 1632 e il documen Âtario cinematografico d’una operazione sul cuore. Che è già un altro cuore. Il Seicento fu certamente l’ultimo dei secoli d’oro. Subito dopo, corroso e svanito l’oro, dovettero inven Âtare i Lumi. Il Seicento è il grande teatro, è la sicu Ârezza di un continente battagliero e soddisfatto, l’Eu Âropa. Quando Rembrandt muore, nel 1669, Newton ha appena scomposto la luce, Molière ha messo in scena il Misantropo, Milton concluso il suo Paradiso perduto. Un grande sipario sta per calare sugli orgo Âgli e le certezze dell’uomo europeo, anche se i suoi atti di dominio lo illuderanno ancora per lungo tempo. “Egli non aveva a suo credito che una profonda conoscenza della natura umana, uno di quei geni così rari dovunque, che si chiamano geni d’invenzione; e oltre a questo un’immaginazione tutta di fuoco”. Co Âsì scriveva il Baretti di Shakespeare, così possiamo ri Âpetere noi guardando a Rembrandt. Lo sforzo culturale per avvicinarsi a Rembrandt può esserci utile, ma non è indispensabile. Egli era nato in un contesto pittorico esaltante e tuttavia cat Âtedratico: i pittori olandesi dipingevano veritas e vanitas entro prospettive di specchi, minuziosamente obbedendo ai committenti ricchi e contenti, rispettando le scatole magiche degli interni facoltosi, con i pavi Âmenti ben quadrettati, le cuffie delle donne armoniche e dolci, le mani atteggiate perfettamente sulla spi Ânetta, le ombre suddivise lungo soffitti e porte e por Âtiere e scranni e lampadari ed else di spade e giusta Âcuori e velluti e argenti. Rembrandt nasce nell’ombe Âlico di questa perfezione geometrica, e non potrà spar Âtirne che la gioia artigiana, l’obbedienza ai dati del mestiere. Dovrà inventarsi un vento non tempestoso ma sublime, in grado di sconvolgere questa eccessiva armonia. E così inventò la luce non come colore ma come valore. Esponenti ricchi e lardosi delle corporazioni, don Âne cicciute e tuttavia come evanescenti, anelli e gal Âline, spade e stivali, pifferi e sciarpe, profili di singoli e interi gruppi vivono nei quadri del Seicento olan Âdese. Un’arte nobilissima ma mai ardita, che porge la sua testimonianza a persone, ceti, potenti, comu Ânità ben fiere di se stesse, consapevoli del loro peso sulla terra. Ma in Rembrandt ridiventano semplici elementi, dadi da giocare combattendo con la sorte. Per questo sarà ricco, poi dissestato, poi preso in uggia dai suoi stessi committenti, timorosi di non veder rispettate nei ritratti le proprie fattezze. In più: col Âlezionista feroce e fanatico, con intrighi e litigi per denaro che gli varranno denunce e scontri persino con le persone amate. Ma senza mai tradirsi o cedere o interrompersi, maestro di se stesso più che di allievi e imitatori. Rembrandt rimira i suoi personaggi con lo sguardo di un iddio che non li ama però li comprende, non li giudica però li colloca su un palcoscenico difficile da percorrere. E li investe di luce per meglio sottolinear Âne la presenza sulla terra. Caravaggio fu l’Ulisse di quest’avventura pittorica, ma Rembrandt è un Enea. più colto e più avveduto. “Appresso di me un pittore valentuomo è uno che sappi dipingere bene et imitar bene le cose naturali “, aveva detto Caravaggio, e noi sappiamo ormai come fosse, la sua, un’illusione, quasi un alibi verbale, per Âché tra le “cose naturali” il genio di Caravaggio sce Âglieva proprio le più diverse e difficili e ostiche, atteg Âgiandole poi secondo un ordine rivoluzionario. Rembrandt non ha neppur bisogno di scegliere. Egli vede. I suoi ritratti non riguardano persone, ma briciole e schegge grandiose di un universo accalorato, tenebro Âso, percosso da un moto perpetuo, da una intima sma Ânia ambulatoria. Rembrandt adora il particolare: la punta di una scarpa, un anello, i baffi di un archibugiere, un col Âletto pieghettato, una cintura di cuoio, i chiodi di un elmo: soltanto, però, i particolari che lo interessa Âno â— e che quindi diventano essenziali â— come colpi di luce da distribuire sulle forme in sfaldamento. Del resto, questa adorazione non lo distoglie mai dal con Âcetto. È l’idea a dominare il quadro, è una concezio Âne della vita e del mondo a far valere, casomai, il sin Âgolo oggetto perfettissimo ma mai determinante. Non per nulla, verso la fine dell’esistenza, la luce di Rem Âbrandt prevarrà , annegando ogni elemento che non possa diventare protagonista delle sue apparizioni. Nell’Olanda opulentissima dei suoi tempi, patria di mercanti che avevano tutto, ori smalti stoffe tap Âpeti, egli era un maestro. Trattava con rispetto ma anche con punte di altezzosità rivali e committenti, si faceva pagare a caro prezzo. Per la Ronda di notte, i personaggi della compagnia degli archibugieri si tas Âsarono raggiungendo la somma complessiva di milleseicento fiorini, e Rembrandt li gettò nel buio del qua Âdro senza cedere alle pressioni e alle lusinghe di co Âloro che avrebbero voluto un posto in prima fila, come sempre era stato fatto da ogni pittore di gruppi. Nes Âsun fiorino poteva distogliere il maestro dal suo qua Âdro-idea. Rembrandt rende apparente ciò che è invisibile, così come Shakespeare rende logiche certe situazioni irreali che solo un genio drammatico può condurre per mano e far sembrare veritiere e esemplari. Rembrandt inventa la luce non per illuminare ma per rendere inavvicinabile il suo mondo. Un sangue notturno circonda i suoi santi, i suoi capitani, i suoi autoritratti, i suoi Sansoni e vecchioni, ed è il san Âgue segreto delle cose, un liquido nato per alchimia, sottratto alle chiome degli alberi, ai tagli delle nu Âvole, ai minerali, alle stoffe, ai metalli, alle quinte delle case, fatto sprigionare da chissà quali conchi Âglie, chissà quali perle, chissà quali pietre filosofali. I suoi personaggi assomigliano a creature di questo mondo, ma non gli appartengono: sono fantasmi, sim Âboli, emblemi, cifre di uomini e di donne e di guer Ârieri e di mercanti che escono per un attimo a farsi vedere tra gli squarci permessi da un fantasia in tu Âmulto. Si ha l’impressione che debbano di colpo rien Âtrare nel buio luminoso della tela, sparirvi per sem Âpre. Tra un attimo qualcosa succederà , e i fantasmi della Ronda di notte verranno sepolti per l’eternità da un mutamento di luce, quella mano non sarà più un nuovo atteggiamento di mano ma solo una par Âvenza che ritorna nell’oscurità originaria, e così ritor Âneranno nella culla solenne e nera ch’era in principio le spade e i cappelli piumati, il tamburo e le alabar Âde, le barbe e i pizzi e le sciarpe, perché la divina va Âcanza d’apparizione è scaduta. Per questo Rembrandt ridiventa misterioso, ai no Âstri occhi, come una piramide, come una formula eso Âterica, come un monumento megalitico il cui signifi Âcato è raggiungibile attraverso faticosi dati di cul Âtura ma il cui accesso è ingombro, sovraccarico di mistero. Tutto sembra lampante, preciso, ordinato, traducibile, tutto si avvia verso i nostri occhi mo Âstrando i segni di una civiltà e di un gusto ben model Âlati. E tutto, a un certo momento, sfugge allo sguar Âdo, al calcolo, a una definitiva e familiare presa di possesso. Evapora, si scioglie, togliendoci anche l’il Âlusione d’aver capito. Non ci sfugge Velázquez, che in quegli stessi anni dipingeva nani di corte, cani e infanti di Spagna, ma ci sfugge Rembrandt. O forse bisognerebbe dire che è lui, Rembrandt, che non ci vuole. Velázquez ha bi Âsogno d’essere guardato, vive in quanto si rivela, in quanto da. È un genio perché ha voluto comunicare anche con noi. Rembrandt è un genio che non ha pen Âsato a comunicazioni di sorta, il suo luogo non è il museo ma la sala d’armi di una corporazione del suo tempo o il municipio della sua Amsterdam, lo amas Âsero o no, lo riverissero o meno. Per Rembrandt sem Âbra che la storia non esista, e noi guardandolo dubi Âtiamo della storia come macchina di conseguenze e di logiche. Velázquez aveva orrore della storia e dei suoi protagonisti, e questo ci è visibile, ci raggiunge e ci fulmina. Rembrandt ha inventato da se stesso un suo sogno, dove vivono come prigionieri uomini e co Âse di un altro mondo, di una misura perduta. Più la sua minuzia diventa calligrafica, più sfugge tra le quinte dell’astrazione; più il quadro acquista un mo Âvimento umano, una passione umana, più si allon Âtana da noi, inermi e sprofondati di fronte a una clas Âsicità che ci travolge. Possiamo leggere la vita di Rembrandt, condita di miserie, di cecità , di disordini, di egoismi: ma an Âche questa sua vita ci divide dall’opera. Più veniamo a conoscere gli aneddoti di Rembrandt, più la sua arte si allontana e come si avvolge entro una pellicola dif Âficile, che ci esclude. I Sindaci dei drappieri e la Spo Âsa ebrea vivono di se stessi, non abbisognano di spet Âtatori, di gente assiepata davanti. Funzionano in se Âgreto e altissimo rapporto d’autonomia, come un al Âbero o uno specchio lavorato dal tempo o un angolo di ciclo notturno, indifferenti allo sguardo e al com Âmento umani. No, Tempo, tu non ti potrai vantare che anch’io muti: Così Shakespeare in un sonetto, e forse è questo il risibile orgoglio da cui dobbiamo dimetterci prima di tornare a guardare, a credere di saper guardare. Quando la classicità ci irrita, è perché oscuramente ci rendiamo conto di essere zoppi e storpi e ciechi e impotenti. Allora il nostro cervello vendicativo e af Âfannato escogita trincee e sbarramenti per opporsi al Âla classicità . Che tuttavia seguita a vivere in se stessa. indifferente alla critica come lo era stata all’elogio. È tra i marmi e le nuvole di questa classicità che abita Rembrandt, un “antico spettacolo” che non si può rivivere attraverso nuovi allestimenti. Anche un eccesso d’amore può tradire, non solo il cuore ma gli occhi. E tutto ciò che di Rembrandt non ci raggiun Âge, ci scavalca : il minuscolo bersaglio che siamo non ha strutture e fondo sufficienti per contenere e fer Âmare tanto uragano di raggi. Letto 914 volte.  Nessun commentoNo comments yet. 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