PITTURA: I MAESTRI: Sebastiano del Piombo: Senso intelletto e pietÃ8 Gennaio 2019 di Carlo Volpe Sebastiano Luciani, detto Sebastiano del Piombo per la ca Ânea pontificia ottenuta nel 1531, iniziò la sua lenta, poderosa carriera a Venezia, sua patria, intorno al 1505. È una data che si può desumere da non poche indicazioni; innanzi tutto dalla fonte principale, il Vasari, che lo dice morto nel 1547 all’età di sessantadue anni, donde si ricava che egli sarebbe nato nel 1485; in secondo luogo osservando che qualche anno di ap Âprendistato è da anteporre alla prima importante commissio Âne pubblica: le ante d’organo di San Bartolomeo di Rialto, che le notizie inducono a datare fra il 1508 e il 1509. Ma se Seba Âstiano in quel tempo non poteva essere più un esordiente, vista I importanza della commissione, è anche vero che nessun ele Âmento ci autorizza a risalire più addietro di quell’approssima Âtivo 1505, limite conveniente del suo spazio generazionale, da anticipare sulle vicende filologicamente note e controllabili dell’artista. Sembra certo tuttavia che, con impegno non dilet Âtantesco, questi fu nei primi anni tutto dedito all’arte della musica. È sempre il Vasari che ce ne informa: “Non fu, secondo che molti affermano, la prima professione di Sebastiano la pit Âtura, ma la musica…”; e di seguito lo stesso biografo ci for Ânisce indicazioni che basterebbero a connotare un giovane mu Âsico di professione forse ben altrimenti impegnato di come lo erano stati, ad esempio, Leonardo o Giorgione. E mi doman Âdo se quella sua prima arte, poi sopraffatta dalla pittura, non sia stata davvero uno dei motivi dell’invito di Agostino Chigi a trasferirsi a Roma nel 1511 (“piacendogli â— è sempre il Vasari che ci informa â— oltre la pittura, sapessi così bene sonare il liu Âto, e fosse dolce e piacevole nel conversare…”), e ad inserirsi in un ambiente altamente raffinato per qualità di cultura e genti Âlezza di vita, in armonia con un ideale aristocratico e umani Âstico che ormai toccava il proprio apice e il proprio limite. Se, come è dunque verosimile, Sebastiano tardò qualche anno, ri Âspetto all’età consueta, per affermarsi nella pittura, ciò forse spiegherà meglio il maturo filtro mentale col quale egli sembra rileggere i dati della cultura pittorica veneziana che preesistono a ridosso del 1508 e che dovevano essergli ben noti. Tutta la critica ha opportunamente sottolineato come il Luciani, non già per timidezza o resipiscenza conservatrice, interpreti con l’accento di un convinto classicismo formale il modello di Giorgione, del quale era pure, con Tiziano, l” “eccellentissimo creato”. In realtà il Ritratto di giovane donna di Budapest, una delle sue prime opere, attendibile anche se di moderna at Âtribuzione, sembra emulare Giorgione, ma di fatto mira ad eluderlo, traducendolo con termini plastici in un ben diverso clima ottico e mentale, tra Bellini e un Tiziano che, tutto som Âmato, forse non esisteva ancora. Sebastiano, dunque, par che riveda la poetica giorgionesca dentro ritmi non solo più classici, ma già assestati e costruiti, proprio secondo il retaggio della tradizione che aveva sorretto per un secolo, mediante il fiorire di calme forme campite nello spazio prospettico, la cultura dei pittori, degli scultori e degli architetti veneziani. Si osservi intanto, e sia pure di sfuggita, che le irriducibili dispute tra disegno fiorentino-romano e colore veneto sono soltanto di età cinquecentesca post-giorgionesca e post-raffaellesca, imperanti Tiziano e Michelangelo. Mi sembra chiaro, insomma, che la cultura di Sebastiano del Piombo affonda in un terreno che è ancora quello quattrocentesco nel quale po Âtevano convivere il colore veneto e la forma prospettica del rinascimento toscano; la quale, anzi, proprio a Venezia aveva avuto il più fortunato sviluppo; affatto alterato, per contro, nella morsa dell’organicismo plastico dei fiorentini. Il ruolo che Sebastiano venne a svolgere nei brevi anni ve Âneziani che precedono il suo trasferimento a Roma fu dunque di alto mediatore, in qualche modo, fra l’antico e il nuovo; fra la tradizione (Bellini) e una rivoluzione (Giorgione) i cui enun Âciati sopravanzavano di tanto tutte le devianti conseguenze lo Âcali da interessare piuttosto il più illuminante avvenire, ancor più dei filtri veridici ed arcani di Lorenzo Lotto. È perciò necessario valutare bene come dovette apparire a questo discepolo l’arte di Giovanni Bellini e quella del tanto più giovane Giorgione. Il modello belliniano era quello â— del resto avanzatissimo anche se paragonato al Giorgione della paletta contemporanea di Castelfranco, non facile da capire e forse quasi ignota ai veneziani â— della pala di San Zaccaria. terminata nel 1505: una gran vampa, ma contenuta e pacata: coloratissima e alitante, eppure prigioniera di una grande e se Ârena dimensione antica. Il Giorgione, per contro, che affasci Ânò Sebastiano, ma al quale questi prestò uno specchio terso e misurato quasi quanto esigeva il filtrante ideale della tradizio Âne prospettica belliniana, era il pittore puro della Laura e dei Tre filosofi, nonché del naturalismo magico della Tempesta; ma prima ancora, della Sacra Conversazione n. 70 dell’Accademia e della Madonna di Oxford; infine del Ritratto di Berlino: tutte opere che segnano il periodo della sua più rapida ascesa; tanto rapida che era per divenire insostenibile, dopo il “Fondaco” e la Venere di casa Marcello, per la segreta qualità del naturali Âsmo cromatico totale degli ultimi due anni. Né sarà mai ab Âbastanza deprecata la quasi completa sparizione di opere di quest’ultimo periodo (se si fa eccezione per il Ritratto Terris a San Diego e, forse, per le offuscatissime Tre età a Pitti) dove si celano davvero i romantici misteri di Giorgione. Giovi insiste Âre con queste osservazioni sulla forza innovatrice giorgionesca perché ne risulterà meglio il divario dal percorso di Sebastia Âno, che dopo qualche oscillazione (causa, oggi, di tante incertezze attributive), mi sembra ormai incolmabile al tempo della Salomé di Londra, nel 1510. La distinzione sarà tanto più evidente se si intende che giorgionismo” non vuoi dire soltanto paesaggio arcadico e crepuscolare, e profili di case e d’alberi contro un ciclo a strisce negli infiammati tramonti; e non vuoi dire nemmeno, ancora più banalmente, immersione dell’uomo nel paesaggio, come se si trattasse di due generi artistici che si fondono in uno. Sono questi, se si vuole, temi tra i più appariscenti di quell’af Âfascinante repertorio di immagini, ma nella misura in cui essi furono i più fortunati e divulgati, finiranno per essere anche i meno significativi e individuanti. Il “giorgionismo” è una nuova filosofia della natura, ovvero pittura pura concepita per scendere con quel certo “…fiammeggiare di colori” (Vasari) nella verità misteriosa della natura così riscoperta, e pertanto è ripulsa di ogni schema formale e di ogni metafisica, ossia di ogni concetto che non sia, in quella dimensione naturale, sot Âtilmente sperimentale e venato di nuovo. I veneziani suoi con Âtemporanei (lo si intende bene dal titolo stesso, affatto mo Âderno e impressionistico, che diedero alla Tempesta: “El paeseto in tela cun la tempesta…”, secondo la testimonianza del Michiel), e persino il fiorentino Vasari, lo avevano capito benissi Âmo. Ecco perché anche il più giovane Tiziano, dalla Schiavona, o dalla pala di Anversa fino al Concerto campestre e agli affreschi padovani, è tanto difforme, così nel contenuto come nello sti Âle, da ogni esito della variabile giorgionesca. Intanto la sottolineatura di talune fondamentali distinzioni tra i protagonisti già indicati di quegli anni veneziani è sicura Âmente il terreno sul quale varrà ancora la pena di insistere per trarre altre indicazioni, anche attribuitive, meno insicure. Per questa via si dovrebbe giungere ad intendere la varian Âte, rispetto a Giorgione, del presunto Ritratto di Francesco Maria della Rovere a Vienna, non identificabile col sottile naturalismo del pittore di Castelfranco. Qui l’immagine o la tipologia del ritratto è piuttosto di carattere belliniano-sebastianesco, sicché mi par giusto non dar torto al Pallucchini per quella sua indi Âcazione che aprirebbe sul primissimo tempo del Luciani, alla quale aggiungerei soltanto, per ora, il segno dell’incertezza, massime per quell’elmo e quelle mani mirabili, che sembran viste con l’occhio lucente di Giorgione stesso fra il 1505 e il 1506, se non più presto ancora, stante altresì l’età del perso Ânaggio. La intuizione del Pallucchini è tanto più verosimile in quanto prepara e rafforza la chiave di lettura, classica e belliniana per l’appunto, di un’opera centrale della giovinezza del Luciani, vale a dire quel Giudizio di Salomone di Kingston Lacy, che si può ancora intendere con i parametri mentali del Âla Venezia del Bellini, e che nel contempo, per quel suo puro spazio, dialoga ormai con un Fra Bartolomeo (giusto allora a Venezia), con un Raffaello o un Antonio da Sangallo il vecchio. Il culto dell’antico, consapevole restitutio antiquitatis, tocca profondamente anche Sebastiano, che soprattutto con que Âst’opera fornisce l’impressione di aver voluto cercare una con Âtinuità con la tradizione quattrocentesca, rivista tuttavia con umanistica dotta acutezza di rinnovato conio: una moneta che intanto si poteva spendere, meglio che in qualsiasi altro luogo, nella Roma di Giulio II e di Bramante. Né si diminuisce il si Âgnificato del classicismo del quadro di Kingston Lacy col rile Âvare che forse contemporaneamente Giorgione dipingeva, con sublimata lascivia, la Venere per casa Marcello, pensiero an Âch’esso senza precedenti se non nell’antico (Saxl). Ma chi non vede la divergenza interna profondissima della risposta di Se Âbastiano! Là un assopito torpore per esaltare una sensazione di peso carnale e di tenera consistenza vitale a svantaggio di valori più ideali e formali. Qui nel Luciani, per contro, la forma pro Âfilandosi si realizza quasi come una statua che, dentro o fuori della sua nicchia, esige un punto di vista che cristallizza e sezio Âna lo spazio, e stabilisce una sosta perenne nell’aurea ricerca di misure, di proporzioni e di consonanza delle parti. Anche Ti Âziano, lo si dica subito, ne sarà toccato esemplarmente negli affreschi di Padova, e per tutto il tempo che si dirà del suo “classicismo cromatico”. Ma quanto più congeniali potevano riuscire questi intenti nella Roma di Raffaello e di Bramante, dei Sangallo e del Peruzzi. Il soldato, incompiuto, a destra del quadro di Kingston Lacy, nell’atto di uccidere il fanciullo, sa Ârebbe stato letto con la chiave più appropriata: come un nudo tutto profilo, simile al marmo ellenistico di un atleta, o, che è lo stesso, non dissimile da un pensiero esemplare di Raffaello. Ma vedremo che la propensione classicista di Sebastiano segui Ârà in Roma altre vie, e si modificherà ispirandosi alla logica di altri contenuti. *    *    * II nuovo clima di una capitale come Roma nel 1511, quasi tutta da costruire, ma sulle vestigia superbe di una metropoli distrutta, dispersa fra larghissimi spazi deserti e spesso selvati Âci; dove la natura non sempre amica né salubre si congiungeva strettamente a fondali illustri ma rovinosi; dove membrature di dimensione favolosa apparivano imponenti e solenni quan Âto, nella loro inaccessibilità , oscure e misteriose; dove l’antico aveva dunque la funzione di commuovere e stupire piuttosto che di indottrinare; quel clima, dunque, non era per promuo Âvere un nuovo classicismo, ma ancor più per scendere ad infera con gli antichi padri in cerca di spirituali emozioni. Per quanto è della grande pittura, l’apice classico di Raf Âfaello, al tempo della prima e ancora della seconda Stanza, appariva certo come un miracolo di perfetto equilibrio per fortuna e per sentimenti, e fondava sull’incontro, in quel lu Âcido spirito, fra il patrimonio nobilissimo della cultura assi Âmilata fra Urbino e Firenze, assai più che in Umbria, e la di Âmensione epica dei modelli romani, che per giunta si presenta Âvano ai suoi occhi in un dialettico intreccio fra il mondo paga Âno degli antichi e quello non meno affascinante della enormità biblica di Michelangelo. Quel che si presentava al nuovo venu Âto era un materiale culturale non omogeneo, e perciò tutt’al-tro che facile da dominare; ma non è certo l’arte di Raffaello che tradirà mai quello sforzo. Per trarre inoltre nuova forza di fronte a questa dicotomia si prestava, limpido soprattutto ne Âgli esiti romani, il classicismo degli architetti, non meno di Bramante che dei Sangallo. È poi verissimo che quanto più Raffaello si inoltrerà verso la conclusione del suo breve de Âstino, e pur occupandosi sempre -più di archeologia e di archi Âtettura e sempre meno di pittura, tanto più si turba la antica limpida vena, e su quel mondo di forme illustri e di atteggiata superba retorica si accumulano nubi e si sollevano ombre che, anziché animarsi sotto il gonfiante scirocco romano, sembrano provenire dal fondo delle gelide ‘grotte’ che con la squadra de Âgli scolari il Sanzio andava esplorando. Non si dica che quello è segno di un limite o di una diminuzione, e non piuttosto l’u Ânica risposta possibile di quel classico spirito alla durezza dei tempi. Alla fine, nondimeno, del decennio dei miracoli, quan Âdo Raffaello muore nel 1520, e ancora nel pieno dell’età del Âl’oro di Leone X, sarà la ‘terribilità ’ di Michelangelo che finirà per congiungersi con la malinconia o la inguaribile nevrosi dei creati di Raffaello, da Giulio a Perino e a Polidoro; o di quanti altri artisti sopraggiungono in Roma, come il Parmigianino o il Rosso. In quel momento, pur riconoscendo ormai al Buo Ânarroti una posizione egemone sulle tre arti, il primo pittore di Roma è però il veneziano Sebastiano Luciani. *    *    * Abbiamo lasciato Sebastiano nel 1511, nell’atto di trasfe Ârirsi a Roma, in un clima lontano e quasi inimmaginabile per chi viveva nella specchiante dolcezza della città di Giovanni Bellini, di Giorgione, e da li in poi tutta di Tiziano. Il primo in Âcontro con i nuovi ambienti romani non poteva non essere mentalmente problematico, sia per il richiamo della ‘storia’, pur sempre avvertibile come valore di civiltà fra quelle alonan Âti reliquie, sia per l’impatto con i portentosi fatti dell’arte con Âtemporanea, di Michelangelo innanzi tutto e di Raffaello. In realtà con i valori dell’arte romana coeva gli affreschi che Seba Âstiano realizza al suo arrivo nella villa chigiana hanno ben po Âco da spartire, e al contrario esaltano una condotta “…molto disforme da quella che usavano in Roma i valenti pittori di que’ tempi…” (Vasari). Ma non è negli affreschi degli “archetti che sono in su la loggia” che Sebastiano sfoggiò il riscontro esemplare della maniera moderna appresa da Giorgione, os Âsia di quel tanto vantato e misterioso “modo di colorire assai morbido” e unito. Il segreto di questa pittura sarà piuttosto rivelato nei quadri da stanza di cui presto diremo. In quelle lu Ânette, invece, con la stessa pratica dell’affresco che Michelange Âlo e Raffaello andavano strenuamente esperendo e portando a compiuti culmini di stile, Sebastiano offre semmai una varian Âte profonda di quella cultura veneziana dalla quale non era an Âcora mentalmente staccato; e per la verità , con tutta la forza della prima invenzione, promuove e realizza l’archetipo più e-loquente per quella ben definibile linea di gusto che i più in Âquieti temperamenti pittorici settentrionali svilupperanno più tardi sulla premessa giorgionesca e sul primo Tiziano. Non ve Âdo differenza sostanziale infatti fra i ridenti squarci d’azzurro delle mirabili lunette, sulle quali campiscono colori puri e sen Âtimenti di sensualità smemorata e incolpevole, e dove vibra una invenzione apparentemente senza norma per quel che at Âtiene al partito formale e la pittura che, con vesti arricchite o diversificate da singolari congiunture di gusto e dall’umore dei luoghi, anima le invenzioni, ad esempio, del bresciano Romanino, cresciuto fra Venezia e Padova, o del Dosso ferrarese; del veneto Pordenone e persino del piemontese Gaudenzio Ferra Âri. La lettura degli affreschi chigiani esige infatti parametri di giudizio che devono restare nell’area della cultura settentrio Ânale, e persine d’oltralpe; più precisamente in quella vasta zo Âna inquieta e fantastica che la storiografia solitamente aggrega alla vicenda più generale del manierismo italiano, ma che sa Ârebbe tanto più veritiero valutare nel contesto degli sviluppi della cultura veneziana e settentrionale degli anni ’10, alla qua Âle infatti non sfuggono neppure artisti prettamente lagunari poco più giovani di Tiziano, come Paris Bordon, bellissimo e di analoghi umori soprattutto nell’età giovanile. A caratteriz Âzare quell’ansia c’è una eccitazione di caldi sensi chiamati a rievocare, forse, il brillio e l’esultanza delle tinte inventate da Giorgione, e ancor più da Tiziano. Non a caso la avventura olimpica e pagana di Tiziano stesso durerà dal 1509 al 1516 circa, e non potrà comunque reggere a lungo, né avere un se Âguito; e lo stesso Vecellio si aprirà presto a nuovi contenuti di umana, e anzi religiosa tensione. Del resto, anche l’atteggia Âmento degli anticlassici veneti, fra i quali può iscriversi dunque lo stesso Sebastiano subito dopo il suo arrivo a Roma, era un altro modo di rispondere al clima generale dei tempi che già avvertivano dialettici confronti o esasperati antagonismi, mas Âsime nella contrapposizione fra mondo tedesco e mondo la Âtino, sullo sfondo di irreparabili calamità . La posizione di Se Âbastiano a questo punto appare in effetti paradossale e quasi sconcertante. Ciò che egli sembra dissacrare, in quell’anno an Âcora di grazia 1511, è la grammatica fiorentina che Raffaello. grande amico del Chigi, quant’altri mai sublimava; e non me Âno il dramma della umanità antica e senza tempo, ma pur sem Âpre superbamente ‘formata’, di Michelangelo. Al di fuori di quei due poli non vi era certamente spazio, nella Roma di Giu Âlio II e di committenti come il Chigi, per avventure di tipo onirico-mitologico venate di mondano sarcasmo. Peraltro dob Âbiamo credere che la richiesta esplicita era di offrire finalmente un buon saggio di quel “colorire assai morbido” di cui si fa Âvoleggiava a proposito di Venezia e di Giorgione. Proprio in risposta a queste richieste dovettero nascere i dipinti che se Âguono le lunette ‘ovidiane’, vale a dire l’affresco col Polifemo, la Morte di Adone degli Uffizi, e altre cose fino al mi Ârabile Ritratto del Carondolet; ma prima ancora io porrei la ben nota Sacra conversazione con San Sebastiano del Louvre, da intendere pertanto come una dimostrazione dei prodigi della pittura veneta offerti alla vista del pubblico romano; e del pari il Ritratto di armato di Hartford. Tutte queste opere (alle quali non sono certo che si debba aggiungere la Adorazione dei pastori di Cambridge, mal giudicabile per i guasti e forse ancor veneziana) stanno infatti come un discorde contorno alle lunette chigiane e all’altra opera di sicura data, eseguita di lì a poco, vale a dire la cosiddet Âta Fornarina degli Uffizi, del 1512, nella quale mi sembra innegabile che la dotta casta mentale che Raffaello quasi mitiz Âzava trovi finalmente una degnissima risposta (basterebbe, a confermarlo, l’uso significativo dell’oro: la collana, la ghirlan Âda, i bordi, ecc.). Anche allargando l’arco di questa rapida vi Âcenda di Sebastiano, che potremmo far partire dalla Salomé di Londra, che è datata 1510, o dalla Vergine saggia di Wa Âshington, per giungere alla Fornarina suddetta, sembrerà incredibile che in soli due anni il maestro veneziano sia potuto passare da una visione, e da una struttura tanto profondamen Âte costituita come quella della sua cultura d’origine, a quest’al Âtra, fiorentino-romana, dove sembra chiudersi in un circuito ben più interno e tutto mentale il rapporto fra modello di na Âtura ed idea, a tutto vantaggio di quest’ultima. È quasi ovvio affermare che, quanto da lì in poi il curriculum spirituale di Se Âbastiano sarà coerente ed omogeneo per convinzioni morali ed estetiche, altrettanto è movimentato per le non assestate in Âtenzioni durante il breve arco di tempo che segna il momento della sua crisi di crescenza seguita al passaggio da Venezia a Roma. Mi sembra d’obbligo additare per prima la Sacra conversa Âzione del Louvre, che talvolta la critica stenta ad accogliere fra le opere del Luciani, e che pure, a mio vedere, è utilissima proprio per intendere quel momento di crescita intorno al 1511, e che, eseguita che fosse a Venezia o a Roma, si fonda sullo stesso tipo di risposta che Sebastiano dava alla compostezza olimpica di Tiziano con una carnale, potente articolazione di ombrose tinte e di robusti impasti, proprio come, con la libertà della tavolozza e l’ardita vivacità del comporre, era per fare o stava facendo nelle lunette della Farnesina. È soltanto tra queste lu Ânette e il dipinto del Louvre che la consonanza è totale. Né dal Âla stessa matrice veneziana, ancora riconducibile alla pala di San Giovanni Crisostomo, mi pare che si discosti il mirabile e potente Ritratto di armato di Hartford, di spiriti ancora accesi e appassionati quanto un ritratto di Giorgione, anche se ormai di collocazione romana. Si sposta invece la ascendenza dei mo Âdelli culturali se si passa all’affresco del Polifemo, che a mio pa Ârere dovrebbe esigere una datazione differita, sia pure di poco, rispetto a quella delle lunette. Mi sembra, insomma, che come per l’Isaia di Raffaello in Sant’Agostino, del 1511-12, è neces Âsario valutare la sopraggiunta interferenza mentale di Miche Âlangelo. Nel percorso di quel gran michelangiolista che fu Se Âbastiano del Piombo affiora qui per la prima volta un rap Âporto diretto col Buonarroti, istituito sulla strapotente novità dei Profeti e degli Ignudi della Sistina, e tuttavia in perfetta sin Âtonia con Raffaello; con quanto di diverso doveva in ogni caso produrre la distinta origine culturale. In effetti, un empito di appassionato sentire, rivolto con nostalgia alla remota bellezza del mito, dove l’immaginazione cromatica è sovrana, parla di gusto veneto prevalente, insieme a una connotazione che po Âtremmo dire prebarocca, che piacerà un giorno ad Annibale Carracci, o a neoveneti in pieno Seicento come il Cortona o, ancor più, il Mola. La vivente dimensione simbolica della favo Âla antica vi si afferma come nelle più incantate ‘poesie’ mitologiche della pittura fiorite fra Tiziano e Poussin. Si direbbe che su questa via Sebastiano stia per battere ancor più felicemente di Raffaello un solare e trionfante cammino. Questa vena appena delibata può sembrare confermata dalla Morte di Adone degli Uffizi. In realtà l’artista non manca di volgersi, con un altro profondo scarto mentale, ad un richia Âmo poetico che ha già una diversa risonanza e un diverso signi Âficato. Nonostante la pagana profanità del tema, pochi dipinti in quel momento riflettono come questo altrettanta contenuta gravita di sentire e di pensiero, accorato e patetico sotto l’om Âbra che incombe, come quel crepuscolo che sa soltanto di not Âte imminente. Nella diversissima atmosfera culturale della città dei papi, quella visione lontana di Venezia, che per l’ultima volta si specchia in laguna in un silenzio triste e mortale, non potrà che dissolversi e rientrare nel nulla. Ne rimarranno blan Âdi e quasi funebri bagliori sul paesaggio che è nel fondo dei ritratti, come quelli di Budapest o di Dublino, entrambi bellis Âsimi e quasi a metà percorso fra il ricordo di Venezia, per la pregnanza non sopita delle tinte, e la adesione alla partitura raffaellesca. Vero è che in questo momento del percorso di Se Âbastiano, che mi sembra giusto datare per approssimazione prima del 1515, il rapporto con Raffaello non è senza reciproca influenza, soprattutto nella ritrattistica sempre più severa e, nel contempo, non meno ricca di impegno pittorico anche in Raffaello. Prova ne siano, appunto nei ritratti, i frequenti scambi di paternità sempre a favore di Raffaello, nella vicenda critica di cedesti dipinti durante il secolo scorso e persine in anni re Âcenti. È il caso del Ritratto del cardinale Ciocchi del Monte di Buda Âpest, già citato, e persino del più noto capolavoro della collezione Thyssen, il Ritratto del cardinale Ferry Carondolet e del segretario, dove il raffaellismo di Sebastiano è ancora in perfetto equilibrio con l’atmosfera veneta che sembra nascere dalla quiete dorata del paesaggio degno di Tiziano, ma che in realtà intride tutta la nuova sostanza plastica della forma e rilu Âce nelle strutture nobili e illustri, o negli spazi proporzionati con misura ‘romana’, proprio come in una Stanza del Sanzio, tanto da conferire all’immagine quella polarità di contenuto culturale e stilistico in cui si nasconde l’indicibile fascino di quel dipinto. *    *    * Se il superbo e ancor classico Carondolet è da datarsi dentro il 1512, l’evoluzione mentale già indicata conduce rapidamen Âte verso atmosfere e riflessioni sempre più severe e, per dir cosi, meno ospitali, come si è visto poc’anzi nell’austero comporsi dei modelli Veneti e raffaelleschi nei ritratti databili intorno al 1515. Ma prima di questi più gravi? compiutissimi esiti sembra giusto incontrare il Violinista della collezione Rotschild (nonostante la sua data sicuramente mendace, 1517) e, con la sua data veritiera del 1514, il ritratto detto dell’Uomo ammalato degli Uffizi; quadro malandato e mal leggibile, che tut Âtavia troppo affrettatamente, a mio avviso, si tende ad espun Âgere dal catalogo di Sebastiano, se non altro perché la qualità che ancora si intravede altissima, e le ben verificabili coordina Âte culturali indicano con bella verosimiglianza il punto della si Âtuazione dell’artista proprio in quell’anno. Può tuttavia ben essere di poco posteriore, e non oltre il 1516 come ora propo Âne il Lucco, la celeberrima Pietà di Viterbo; il quadro sul quale Sebastiano ha fondato quasi tutta la sua postuma fa Âma, e che anche per la sua vicenda dovette costituire la base ro Âbusta e decisiva della sua crescente reputazione. La discussione intorno alla paternità michelangiolesca dell’idea di fondo o addirittura dell’intero disegno, che prende le mosse dal testo vasariano, sospetto e semplicistico insieme nella sua ansia pa Âlese di deferire a Michelangelo, è troppo nota per essere anche soltanto ricordata. Basti riandare alla corretta impostazione del problema quale è stata data dal Pallucchini e dal Dussler, e alle loro conclusioni sostanzialmente concordi, che mirano a riabilitare l’originalità dell’arte di Sebastiano e il suo essenziale margine di autonomia rispetto a Michelangelo, anche se è cer Âto che fra i due artisti intercorsero scambi di idee grafiche nella lunga frequentazione mentale che li legò in un geloso e sentito rapporto. Va detto, peraltro, che la questione dell’esistenza o meno dei famosi cartoni, in qualche caso filologicamente im Âprobabili o impossibili, costituisce un tipico pseudo-proble Âma. Ben altro è da intendere, semmai, intorno alla influenza mentale di Michelangelo, dove a dir poco occorre ravvisare l’accettazione di una norma di vita e di un modello etico sosti Âtutivo di ogni altro precedente valore. Se questo è vero per molti e sempre più numerosi artisti italiani col procedere del secolo e col crescere dei suoi disastri materiali e dei suoi trava Âgli politici, economici ed etico-religiosi, è vero sopra tutti per Sebastiano Luciani. Una profonda svolta spirituale era in atto, alla quale da tempo dava un volto figurativo non comparabile il solo Michelangelo, quando in sostanza nessun altro artista se ne accorgeva (si pensi alla totale mancanza di conseguenze che si può notare a Firenze dopo il Tondo Doni, che è del precocissi Âmo 1503!), tanto da incidere sul significato stesso, oltre che sulla linea dell’arte. “Questa opera â— il soffitto della Sistina â— è stata ed è veramente la lucerna dell’arte nostra”, scriveva il Vasari, portavoce, alla metà del Cinquecento, di tutta Roma e di tutta l’Etruria pittrice. Trasferito in un limbo platonico dove, anche per la crudez Âza dei tempi, si esaspera ogni ideale tensione, il mondo classico finisce per riproporsi in termini di celato misticismo trascen Âdentale e di religioso mistero. Un senso antico ed elementare, ma proprio per questo più potente e drammatico, della in Âconoscibile grandezza del creato non si scioglie, per Michelan Âgelo, in luminosità e splendore, bensì in una ricerca di verità interiore che scarta ogni orpello, ogni minuta apparenza, e si fissa nella nudità della condizione umana più prossima alla sua origine divina. Di fronte a quella maestà ogni ornamento sem Âbra vanità , meschinità e menzogna. L’uomo della tradizione antropomorfica fiorentina nella quale il Buonarroti era pur cresciuto studiando Giotto e Masaccio, apparirà affatto solo, ;n un duro deserto, come nel silenzio del primo giorno o nel clamore e nel terrore dell’ultimo. L’arte, che cresce su queste premesse sarà perciò, come già quella inobliata di Masaccio, un’arte “sanza ornato”; sarà povera, non preziosa ma possente, non abbellita ma veritiera, non descrittiva ma di nuovo illu Âminata da significati simbolici. L’uomo di Michelangelo sarà ancora protagonista del mondo della visione, ma di nuovo sot Âtomesso alla dimensione di una realtà metafisica; non misura di tutte le cose e termine fisso, ma protagonista indifeso di un rapporto col divino dal quale soltanto riceve un senso e una misura. Questa filosofia non era sicuramente per favorire una attitudine mentale classica giacché ciò che in Michelangelo può sembrare ancora equilibrio bilanciato delle forze dell’e Âsperienza nella maestà dell’esito stilistico, in sé contiene tutti i germi del dubbio o della disperazione, o della speranza nella conquista di nuovi valori esistenziali e quindi di una nuova di Âmensione dell’arte. Ecco allora, nella logica che storicamente accoglie la grande ‘maniera’ â— o si dica pure simpliciter lo stile â— di Michelangelo, il derivato, senza scampo intellettualistico o spiritualistico, che per comodo chiamiamo ‘manierismo’. Sul finire della gran voga platonica che aveva coinvolto il XV secolo, il sentire di Michelangelo, che si può ben dire reli Âgioso in senso ultimativo e, storicamente, riformato (ma alla luce di quella che vien detta la “Riforma cattolica”) si risolve quasi in pura teologia, ogni immagine in simbolo. Non vi è dubbio che il concetto michelangiolesco di bellezza rispecchia remoti e favolosi paradigmi, ma la forza che ne riscatta la gran Âdiosa purezza è in una critica dei testi classici, sia del pensiero che dell’arte, dai quali può rinascere tutta l’antica dignità mo Ârale mediante l’esaltazione di ciò che in essi appariva anticipa Âzione, di tipo socratico e stoico, della virtù e della spiritualità cristiana. Era un modo anche quello di risalire alla purezza e alla ricchezza delle origini coinvolgendo l’antichità in un’aura sacramentale o, inversamente, allargando i precedenti evange Âlici in una prospettiva che potentemente risuona di antichi vaticinii. Tutto questo appare in termini sconvolgenti e definitivi, vorrei dire esasperati, nel soffitto della Sistina. I più, è vero, tardano ad avvedersene nonostante il gran rumore e il generale applauso. Lo stesso Pontefice si lamenta col Buonarroti or Âdinando “che la cappella si arricchisca di colori e d’oro, che l’è povera”. Al che il maestro rispondeva con una perifrasi non sospetta né facilmente confutabile: “Padre Santo, in quel tempo gli uomini non portavano addosso oro, e quegli che son dipinti non furon mai troppo ricchi, ma santi uomini, perché gli sprezzaron le ricchezze”. Gli ideali estetici di Giulio II non e ran certo i medesimi del pittore, che identici non erano neppure i principi su cui fondarli, anche se somma era la stima in cui il pontefice teneva l’artista. E lo stesso si dica per il raffinai Giulio de’ Medici, suo successore, cui fu piuttosto domestico congeniale Raffaello; sicché il seguito della vicenda non è da esperire su questa via, bensì su quella ben più intrinseca del rapporto fra gli artisti e del clima culturale che li avvolge. Sebastiano al tempo della Pietà di Viterbo ha già eletto la sua nuova estetica; e abbiamo visto che ciò significa innanzi tutto una nuova filosofia, una nuova morale. Ancor più si appalesa la svolta del pittore valutabile nei termini di una religiosa conversione, nel contesto della decorazione della Cappella Borgherini in San Pietro in Montorio, che come nessun’altra opera di quel decennio costituirà l’archetipo mille volte invocato per molti anni a venire, fino al Muziano e agli Zuccari. Ciò dovrà far riflettere giacché anche di Sebastiano, parafrasando Vasari, molti artisti avrebbero potuto dire che egli fu “veramente la lucerna dell’arte”. Non meno che per Michelangelo, il tavaglio di Sebastiano si illumina e si storicizza, in primis, mediante il chiarimento dei moventi morali cui l’arte deve dare un volto. Non è qui il luogo per indagare sui rapporti che potevano essersi instaurati con l’area della “Riforma cattolica”, come la Congregazione del Divino Amore o il circolo d Vittoria Colonna ma è certo che, mentre ben poco in ciò che i vivo nell’arte di quegli anni si muove in diverse direzioni, artisti come Pontormo a Firenze, o piuttosto al Galluzzo, il Moretto in Lombardia, Sebastiano a Roma, si affaticano per definire la forma più pregnante di una riscoperta dimensione sacrale dell’arte. Ma ciò non fu già in senso neoprimitivistico, come taluno invocherà più tardi (Gilio), bensì appassionatamene inverato dall’aderenza stessa al tema (che dunque non è più un mero pretesto per artistiche esibizioni), riscoprendo l’umanità dell’arte proprio nel fondo dello smarrimento e dell’angoscia dell’anima contemporanea di fronte ai religiosi misteri. Che inoltre la pittura di Sebastiano in Roma abbia offerte una variante originale rispetto all’arte di Michelangelo, ogni lettore lo intenderà non appena, storicizzando, tragga le conse Âguenze da quanto già si è detto, e non soltanto intorno alla sua origine veneziana. Né Venezia, io ritengo, né suggerimenti mi Âchelangioleschi potrebbero spiegare, ad esempio, lo spazio su Âperbamente esemplare e insostituibile che occupa, nel registro dei valori cinquecenteschi, la ritrattistica di Sebastiano (se la si può separare, e in qualche misura mi sembra lecito, dal resto dell’opera dell’artista). Il Rinascimento, col suo pensiero con Âcentrato sulla dignità dell’uomo, sembra ritrovarvi la più esaltante espressione; ma non vi è dubbio che dinanzi a tali risultati, dove riconosci talvolta superuomini modellati in un solo blocco di inumana statura, gioverà saper cogliere l’esito di una sorta di realismo morale che è pure il medesimo per mezzo del quale il pittore affronta in dimensione di dramma u-manamente solenne e incombente il tema sacro, sia esso una “Deposizione”, una “Flagellazione”, o una “Resurrezione di Lazzaro”, o ancora una “Madonna col Bambino”. Cosa sareb Âbe stata, provi il lettore a immaginarlo, una “Crocifissione” di Sebastiano del Piombo, negra e illividita nella luce funebre, nel colore di aspro timbro, persine avaro e indurito. Col pro Âcedere degli anni l’arte di Sebastiano cresce e si afferma in di Âspregio al concetto veneziano del colore e della compagine formale, giacché ogni attributo dell’immagine, ogni suo plastico connotato, persine fisionomico, diventa scorcio che costruisce, struttura che regge e si aderge. Sono corpi, sia nelle grandi composizioni che nei ritratti, di cui senti soprattutto lo sche Âletro e le giunture, fatti per durare come monumenti. Lo sa Ârebbero infatti se fossero tradotti in scultura (e non è insensato immaginarlo!) l’Anton Francesco degli Albizzi di Houston e il Clemente VII di Napoli, che, senza pari fra tutti i ritratti di quel secolo di ferro, sembrano sfidare e reggere la violenza morale dell’umanità del Buonarroti. A commento della grande arte religiosa (che di questo si tratta nella più specifica e storicizzabile accezione a dispetto delle idealistiche categorie che non tollerano simili attributi) difficile sarebbe modificare il giudizio e il pensiero dello Zeri 1957), che proprio in Sebastiano additò l’artista che, in Roma, più altamente interpretò il mutare dei tempi con una pittura in cui è “un senso di gravezza asciutta e dolorosa, un concen Âtrasi sul tema sacro con intenti inequivocabilmente meditativi, che segnano un distacco ben risoluto dalla libera idealizzazione formale dei suoi dipinti giovanili”. Ed è sempre lo Zeri che ha saputo indicare con forza come, alla metà del secolo, dalla po Âlitica della Controriforma ben poco fu imposto alla dottrina degli artisti che non fosse già negli effetti di una produzione che aveva cause spirituali più remote, sentita fin dall’inizio del Cinquecento. In definitiva il Concilio tridentino si asterrà dall’imporre una vera normativa obbligante e ultimativa allo spazio creativo degli artisti dal momento che, nel vivo repertorio dell’arte sa Âcra, esistevano già affermatissimi esiti di una devota ispirazione e, per conseguenza, un coerente registro iconografico e forma Âle. Alla metà del Cinquecento, ed oltre, capolavori di funziona Âlità e aderenza allo specifico del tema come la Pietà di Viterbo, o il Cristo di San Pietro in Montorio, o il Cristo portacroce nelle tre redazioni autografe, erano scontati paradigmi iconografici, quasi liturgici luoghi figurati Âvi. Né avrebbe avuto senso discuterli o “rileggerli”, così come non si rilegge il mormorio interiore di una pur solenne pre Âghiera mandata a memoria fin dall’infanzia.
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