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PITTURA: I MAESTRI: Segantini: Il primo a vedere le Alpi

12 Gennaio 2019

di Francesco Arcangeli
[Classici dell’arte, Rizzoli, 1973]

La prima necessità che si impone, a mio avviso, a proposito di Segantini è quella di toglierlo idealmente dall’isolamento materiale che egli si propose ostinata ­mente, si potrebbe dire fino all’eroismo. Il richiamo del ­le Alpi per lui, nativo, fu ben più naturale che quello della Provenza per Van Gogh o di Tahiti per Gauguin, e tuttavia non ha, sostanzialmente, un diverso signifi ­cato: quello, cioè, di uscire dalla civiltà lungamente elaborata nelle città e di ritrovare un’innocenza perdu ­ta. A un richiamo così potente non poteva non corri ­spondere un rinnovamento nel mezzo pittorico; e an ­che a questo, miracolosamente, Segantini fu presente. Gli aiuti esterni furono pochi, tramite ben noto Vitto ­re Grubicy: una monografia su Millet, qualche esem ­pio di Israëls e di Mauve, notizie, non più che notizie, sui puntinisti; più tardi, in un incontro a Como, pare, qualche stampa giapponese; così pochi, insomma, che la storia di Segantini sembra, più che altro e in gran parte, occorre dirlo, lo è, un esempio raro e magnifico di autodeterminazione. Milano-Brianza-Savognino-Maloja-Schafberg. Sembra l’itinerario d’un turista o d’uno scalatore; ed è facile – di questi tempi dotati so ­prattutto di cinismo ammantato di scienza – irridere al primo costume montano delle villeggiature o dell’al ­pinismo fine secolo; quando invece, ancora, una par ­tenza o un soggiorno in quei luoghi poteva voler dire la conquista di ‘qualche cosa’.

Poteva voler dire superuomismo (anche Segantini lesse Nietzsche), distacco e dominio sui comuni mor ­tali rimasti al piano; ma anche sete di un superamen ­to reale, di perfezione morale, risposta alla crescita moralmente ambivalente delle città; che sono già, nel ­la mente dei poeti, les villes tentaculaires. Ma, oltre al sospetto per una discutibile collocazione umana, si aggiunge, per l’arte, l’opinione solitamente corrente fra gli artisti di tradizione latina che le Alpi non siano buon tema per la pittura; e tuttavia questa non è, co ­me sempre, una verità assoluta. È, piuttosto, il luogo comune sublimato d’una determinata temperie di cultura, avvezza a un determinato tipo di rapporti di scel ­ta formale e sentimentale, semplici o semplificanti. Se ­gantini era nato alpino, e tale rimase fino al singolare sacrificio di sé che segna la sua morte; per lui era na ­turale non già il semplificato il tonale il ridotto, ma lo smagliante l’articolato il perenne tremare del natu ­rale. Tendeva, internamente, più a Bruegel che a Tiziano, alpino anche lui ma accolito sublime della civil ­tà classica.

Anche per questo, quando nel 1887 (in pieno diapason coi più moderni rivoluzionari del Nord, Van Gogh, Ensor, Munch) schiarì la tavolozza e inventò il suo personale divisionismo, travolgendo le delicate insinuazioni di Grubicy, fu il suo genio a metterlo in possesso di quella mirabile ‘tessitura’ di pennellate a fibra lunga, compressa, stretta, che gli era necessaria proprio per non perdere quella articolazione che era nel suo occhio e nella sua mente. Seurat, che non co ­nobbe, maturava la sua nevicata ‘a puntino’, in cui la – massima luce affiorava entro un singolare velo violetto, altamente selettivo ma destinato a fingere una immo ­bilità quasi funebre del mondo Come un Piero della Francesca visto in negativo, la luce troppo alta e vi ­brante dell’attimo impressionista vi è catturata dalla sua sorgente cosmica per entrare in una sorta di subli ­me laboratorio, in cui l’uomo è fermo nell’interroga ­zione di se stesso, e non avrà mai risposta se non quel ­la d’una arcana equivalenza di vita e di morte. Segan ­tini, invece, trovava, due-tre anni dopo e in perfetta indipendenza, la sua pennellata divisa; che vuoi dire tutt’altro, e, prima di tutto, indagine ottimistica del tessuto del mondo, come si presenta all’occhio spoglia ­to dalle mescolanze tonali: sotto il fulgore alto del sole della montagna intendere l’equivalente cristallino vi ­brare del filo d’erba e della vena rocciosa, del vello d’una pecora o del panno fibroso d’una pastora. La vi ­ta non si estroverte ma resta vivente anche nella lenta fatica della sua determinazione; e quella fibra di Se ­gantini è pronta a coglierne tutte le qualità particolari. ma portando ogni aspetto del mondo a un alto splen ­dore universale che non può non connotarsi come va ­lore di durata epica. È il valore epico che accosta il moderno Segantini – già lo abbiamo detto – all’im ­mensa portata ‘panoramica’ d’un Bruegel.

È il modo singolare di Segantini, che già Previati in una lettera al fratello individuava perfettamente, di far convivere l’analisi d’ogni particolare – le origini veriste riscattate a un significato d’indagine essenzia ­le – con la potente sintesi delle strutture generali – già presenti nella Stanga â— a grandi andamenti orizzontali e obliqui; sono i mezzi, semplici all’enunciazione, ma la cui convivenza è affidata solo al genio personale, per cui il mondo sotto il pennello di Segantini è intero, non perde un personaggio un essere una pianta una vet ­ta, e in pari tempo è sinfonico come un grande corale. È il suo passaggio singolarissimo dalla visione episodi ­ca, spesso insidiata dal sentimentalismo tardo-roman-tico o dalle troppo ingenue fiducie del nascente socia ­lismo umanitario, alla scansione totale del motivo; e questo passaggio, realizzato fra F ’86 e F ’87, segna il suo distacco dalla temperie allora dominante in Ita ­lia. Soltanto il metro ‘barbaro’ del Carducci, arrivato al massimo della sua sapienza e della sua libertà, può per un breve momento tener testa alla potenza di Segantini, nella Elegia del Monte Spluga.

E mi trovai soletto là dove perdevasi un piano

brullo tra calve rupi: quasi un anfiteatro

ove elementi un giorno lottarono e secoli. Or tace

tutto: da’ pigri stagni pigro si svolve un fiume:

erran cavalli magri su le magre acque: aconiìto, perfido azzurro fiore, veste la grigia riva.

Segantini, al culmine della sua resa, che è quasi co ­stante per una dozzina d’anni, è pareggiato soltanto dalla forza severa di Verga, e, talvolta, dall’asciutta epicità di Fattori; ma questi sono artisti di tempra e di caratteri troppo diversi, e si può parlare perciò soltanto di equivalenze morali. Segantini porta con sé un carattere nordico che è lontano da ciò che più comunemente chiamiamo italiano, e che è anche più pronunciato che in Fontanesi; è quel carattere che porta, d’improvviso, la temperatura del verismo, come fioriva in Milano accanto e persin dentro ai fermenti della ‘scapigliatura’ a un tono eroico di sintesi mo ­derna da spezzare i termometri nostrani. ” Io guardavo questo movimento senza prenderne parte”, così affer ­ma il maestro nella fondamentale lettera al Tumiati del 29 giugno 1898 ed è la verità, come è realizzabile dall’esame parallelo della sua opera e di quella dei milanesi. C’erano, è vero, alle spalle di Segantini gran ­di richiami: c’era la ‘poesia del vero’ di Fontanesi; c’era l’intimità degli ultimi ritratti del Piccio; c’era il tremore ineffabile di Ranzoni. Ma per lui erano sol ­tanto voci stimolanti ma generiche; di gente che ave ­va elaborato una propria poetica sentimentale, di radi ­ce essenzialmente borghese; il meglio, e non era poco, del romanticismo di Lombardia; ma Segantini veniva da una radice popolare, nutrita di miseria, di solitudi ­ne, di ribellismo adolescente; era, in confronto a quegli introversi, robusto, esplicito.

Già il giovanilissimo Coro della chiesa di S. Anto ­nio, dipinto a ventun anni, è schietto e squillante nei chiari contro la tavolozza bruna, e riscatta il verismo aneddotico alla Mosè Bianchi con un piglio luministico diretto, quasi da pronipote del grande antico lu ­minismo italiano piuttosto che da accolito del verismo fotografico corrente. I bianchi della cotta del chieri ­chetto suonano quasi più come reviviscenza (incon ­scia? ma Segantini conosceva Brera) di una vigorosa pittura del Settecento, dei tempi, per modo di dire, del Piazzetta o di Galgario, più che come deliquescenze ‘scapigliate’; assunti, tuttavia, in un intuitivo plein air. D’altra parte, l’Eroe morto o l’Autoritratto giova ­nile confermano, ingenuamente ma non senza una te ­tra efficacia, le vaghe aspirazioni di Segantini a una grandezza che lo distaccasse dalla verità circostante, trasportandolo verso F ‘eroico’ o magari verso il ‘dia ­bolico’. Del resto, anche nell’assumere la realtà del cir ­costante verismo, in certe nature morte d’insegna o in qualche ritratto popolare, assai più che nella bravura ostentata della Ninetta del Verzée, egli mostra una im ­provvisa forza di presa, sconcertante e quasi fuori del tempo, quasi da Courbet senza radici culturali.

Se mai, il clima milanese lo insidia proprio nel suo aspetto deteriore di verismo sentimentale negli anni della Brianza; ma, anche allora, con una ingenuità che è tutta sua, e che dalle sottigliezze ‘borghesi’ dei cam ­pioni del tardo romanticismo lombardo decade, spesso, in un idillio rustico così scoperto da sfiorare la cartoli ­na illustrata. Tuttavia, anche in quegli anni Segantini tocca qualche gran segno, in cui la sua confessata poe ­tica (“tentai di riprodurre dei sentimenti che provavo, specialmente nelle ore della sera, dopo il tramonto, quando il mio animo si disponeva a soavi malinconie”) fioriva d’un sùbito, senza mediazioni, nel capolavoro. Può essere il Paesaggio serale a Pusiano della raccolta Grassi, dove il diapason naturale (una landa, un oriz ­zonte spianato, un lungo sentiero, un ciclo vasto) è minimo, ed è invece supremo, nella larva quasi informale della nube al tramonto, il filo amaro come di muto pianto, nel silenzio dell’animo. Oppure, è raccolto mi ­rabilmente, tra le paglie già ‘divise’, il tacito sussulto prima della fine del Capriolo morto. Sono sentimenti elementari e scoperti, senza sentimentalismo. Ma è nell’Ave Maria a trasbordo, fin dalla prima edizione, che traspira al massimo la grandezza di questo sentire, sospeso in un momento di quiete eterna, intatta, epica anche nell'”ora che volge il disio”: un momento se ­reno come in Manzoni, grandioso come in Millet.

È, appunto, attraverso le riproduzioni del grande Millet che Segantini comincia a padroneggiare la fra ­se. Qualche cosa del maestoso idillio delle Spigolatrici, di quel dramma rasserenato nelle dimensioni lontanan ­ti in una pace quasi poussiniana, resterà sempre a dar metro alla composizione aperta, ‘panoramica’, e sem ­pre più personale, di Segantini. Di fronte alla meta, per quei suoi anni di Brianza spesso troppo ardua, di una captazione di sentimenti diretti, e tali da farlo scadere in un idillio illustrato, l’esempio solenne del fa ­moso francese costituì la prima vera dotazione cultu ­rale di cui Segantini aveva bisogno; e fu dopo quel contatto che insorse in lui, a stimolare la sua potente capacità di autoeducarsi, il bisogno d’una nuova ogget-tività, la cui modernità era proporzionale alla necessità che ne sentiva. “Pensai allora di studiare e conquistare la Natura, uscendo quasi dal mio sentimento intimo”. E ciò che significa quella maiuscola lo dice Segantini stesso in una lettera non datata al signor Soisson: ” Io non credo di far cosa che non sia strettamente ed impe ­riosamente volontà del fato e stabilita nell’armonia ge ­nerale dell’universo nel tempo e nello spazio”. Gli ulti ­mi capolavori ‘all’italiana’ di Segantini sono A messa prima e Alla stanga, impregnati ancora, pur nella mae ­stà della frase, di atmosfere incerte o crepuscolari. Le antiche verità paesane, della religione e della natura, trovano uno sfogo nell’ampiezza panoramica del ta ­glio, che rende solitario e quasi eroico il tema dome ­stico; di cui tuttavia è ancora il tono a guidare la chiave sentimentale: il tono sospeso, incantato da quel ­la luna smorente sul ciclo diafano, della Messa; o quello profondo, a verdi imbevuti d’aria e di terra, quasi fatto d’umana fatica e di affascinanti distanze, della Stanga. Si potrebbe dire che niente era stato più dipinto di simile, dopo i Belleotto della Gazzada, nella pittura italiana.

È in quest’aura, ormai staccata dalle contingenze che avviliscono spesso il valore della nostra pittura ot ­tocentesca, che matura in Segantini la decisione irrevocabile della sua vita: quella scelta del suo itinerario geografico che coincide puntualmente con la sua cre ­scita spirituale e, con l’elaborazione d’un nuovo mezzo stilistico, anche con la conquista d’un orizzonte più alto. Da pittore milanese o lombardo, sia pur singolarissimo, egli diviene pittore alpino-europeo, e si matu ­rerà presto, per lui, quella sorta di limbo di una sua collocazione, per così dire, apolide. Non tornerà più a Milano che per brevi intervalli, sarà più ammirato in Svizzera in Austria in Germania che in Italia, e fra noi avrà qualche contatto quasi soltanto con pittori di avanguardia, anch’essi superatori del momento tardo-romantico e veristico; con Previati e soprattutto con Pellizza. A questo proposito, per quanto la critica di oggi, impegnata in ideologismi di varia specie, abbia cercato, consciamente o meno, di diminuire il ruolo di Segantini nei confronti degli altri due, ciò non può cancellare il fatto che è con alcuni decisivi anni di anticipo che scatta il suo momento risolutivo. La pittu ­ra italiana brucia in lui, d’improvviso, ogni ritardo, e col lavoro di questi anni dal 1887 in avanti egli si alli ­nea coi grandi europei che vengono dopo l’impressio ­nismo; alla pari, almeno problematicamente, con Van Gogh con Ensor con Munch, in anticipo su Hodler. Sarà duro ammetterlo per i conservatori o ripetitori delle classifiche ufficiali e scontate; resta il fatto che egli schia ­risce la tavolozza nello stesso anno 1887 che è cruciale nello stesso senso anche per quei nuovi e grandi euro ­pei. È nello stesso momento che, è notorio, su poche informazioni indirette egli crea il suo personalissimo divisionismo a fibra di colore giustapposta e fiera ­mente intessuta. “Qui a Savognino la mia arte prese quel carattere che ancora conserva. Quel misterioso divisionismo dei colori che voi vedete nell’opera mia, non è che naturale ricerca della luce”.

Certo, in confronto ai grandi protoespressionisti del Nord, egli è meno libero nel deformare l’immagine; ma egli non voleva deformarla, voleva formarla in mo ­do nuovo, così che la verità ne venisse quasi ‘raddop ­piata’, esaltata in quella purezza specchiante che già il paesaggio alpino offriva all’occhio sensibile. Si può dire, allora, che Segantini ha visto per primo le Alpi, come si può dire che Cézanne ha visto per primo la Provenza, o Van Gogh la Crau, o Munch i fiordi del ­la Norvegia.

È la potentissima ingenuità del suo occhio che vin ­ce con la forza pura dei colori l’analisi cui è portato il suo temperamento nordico; e ogni cosa, panoramica ­mente, sbalza intensa all’occhio entro quei grandi an ­damenti che rispondono, pur meno ‘costruiti’, alle architetture dell’a lui sconosciuto Seurat (“le linee fon ­damentali dell’idea che io intendo fissare”). Ciò acca ­de attraverso il colore puro, che Segantini sapeva esse ­re praticato veramente da pochi (almeno nell’area d’arte che gli era cognita) e che egli vedeva come la dominante semplice ed esaltante di un infinito conte ­sto sinfonico. Scrive a Neera, proprio da Savognino, nell’aprile del ’93: “… l’occhio si assorbe nella contem ­plazione del ciclo azzurro, e poi si abbassa nei candori delle cime nevose, vede il bianco e sente l’azzurro, poi discende al grigio delle rocce, per riposarsi nel verde che lo circonda”.

Tuttavia, prima di ricomporre la sua nuova visione moderna nel grande panorama che gli sarà congeniale, alcuni dipinti fra 1′ ’87 e 1′ ’88 si pongono quasi al punto di rottura dalla visione più atmosferica, pleinairistica che precedeva. È la Mucca bruna all’abbeveratoio della Galleria di Milano, dove lo spazio è buttato d’un sol fiato, sfondando dal corpo imminente, pulsante di vita e d’avida sete, su lontano, là fino alle nevi, all’im ­mane fumare cosmico delle nubi; ma già nello straor ­dinario Cavallo al galoppo del 1888, nella stessa rac ­colta, il distacco da ogni precedente è definitivo: i ver ­di-gialli, i bianchi d’avorio e d’argento, i neri, i blu profondi, facendo scattare l’impeto demoniaco della bestia, rispondono dalle Alpi ai miracoli dell’estate di Arles. Presto, si ripete, l’occhio moralmente iperteso di Segantini compone questi mirabili studi in nuovi pa ­norami; è Millet, ancora, insieme col crescere della nuova ondata del socialismo (la nascita del partito so ­cialista è del 1892), a portare l’immaginazione segantiniana entro una vasta sollecitazione, di eventi, di cose, di speranze, che fa crescere il racconto di genere umi ­le, pastorale e contadino, in una epica solenne. Che importa se gli ideali del maestro possono parere gene ­rici? Non c’è epica senza entusiasmo, senza inclinazio ­ne ottimistica, e Segantini ha una fede profonda nella bontà ineluttabile della natura e della vita; se legge Nietzsche o Tolstoi o i poemi indiani, tutto è assorbito da lui per una visione dell’essere dove il male e la morte sono soltanto il contrappunto non evitabile del ­la vita perenne. È proprio questo sentimento totale che nutre dal profondo le sue epiche narrazioni, che le sal ­va dalla deformazione o dall’amplificazione retorica.

Il vocabolo in Segantini maturo è così riscattato dall’interno, dalla sua ferrea presa d’occhio, che, nello stesso momento che egli analizza già ricava il nerbo essenziale degli esseri e delle cose; e questo gli per ­mette di scavalcare la cronaca e di comporre brano a brano, senza fatica, il mosaico del grande racconto moderno. È, forse, quello che gli italiani del tardo Otto ­cento hanno tentato con più ingenuità in confronto ai grandi stranieri, forse per un’oscura atavica eco della grande composizione d’altare o di parete. Ma, mentre, non dirò nel Michetti pur prestigioso del Voto o della Figlia di Jorio, cronache disperatamente dilatate, ma nello stesso Fattori delle grandi e pur memorabili com ­posizioni di butteri, qualche cosa di invincibilmente grafico fa scricchiolare qualche nesso del grande rac ­conto, in Segantini invece è al punto di pronuncia del vocabolo figurativo che è accaduta la presa di stile; allora, in quel mirabile ferreo contesto, dove dallo stra ­to geologico all’accumularsi d’una nube tutto equiva ­le, l’uguaglianza della superficie rende imparziale, neo-bruegheliana appunto, la grande narrazione. Non c’è cosa nell’opera segantiniana di gran dimensione che non faccia coro; e allora sarà più facile accostare la mirabile Raccolta del fieno o il superbo trittico finale della Natura, della Vita, della Morte, alle composizio ­ni più alte di Van Gogh, di Seurat, di Munch, piutto ­sto che all’accento paesano delle maggiori aspirazioni italiche.

È ormai, qui, il caso di rispondere a quanti, e sono molti, hanno voluto vedere uno scadimento della sua arte quando egli accetta le suggestioni della cultura simbolistica rapidamente crescente in Europa e, insie ­me, elabora più complesse grafie secondo spire e anda ­menti che non sono immuni dalla civiltà di nuova se ­cessione, o floreale, dilagante nell’ultimo decennio del secolo; anzi ne partecipano attivamente. È vero che qualche episodio segantiniano può dare in una astruse ­ria che è meno propria della fondamentale elementa ­rità del suo spirito; ma Segantini si muove così preco ­cemente in questa direzione che, almeno in Italia, an ­ziché subirla, contribuisce a crearla. Prima furono, sembra, le stampe giapponesi tramite il Grubicy; poi, credo molto importante, la visione della Maternità di Previati, alla mostra milanese del ’91; più tardi le ri ­viste della secessione tedesca e austriaca, per finire nel famoso ‘Ver sacrum’ che ospitò anche un suo scritto. Si ammira la tempestività, dunque, della sua inclina ­zione in questa direzione, ben lungimirante cultural ­mente in colui che, pur segregato nei Grigioni, sapeva chiaramente che esisteva un ‘movimento’ dell’arte mo ­derna. Scrive, infatti, al Tumiati nel ’98: “un serio giudizio sull’arte contemporanea non ve lo posso dare, vivendo troppo lontano dal movimento”. Non sbaglia ­va nelle scelte e nemmeno nelle amicizie (Pellizza, Liebermann, Cuno Amiet); e, d’altra parte, salvo alcune evasioni mitologiche in cui riaffiora, attraverso la spira del liberty, quasi un lontano sapore neoclassico, an ­che molti dei suoi quadri simbolici (dalle Cattive ma ­dri all’‘Angelo della vita) sono così accaniti e lucenti nell’analisi, così elevati nell’immaginazione, da rievo ­car quasi l’arte d’un Runge, che Segantini certo non conosceva, o da porgere, come è stato riconosciuto più d’una volta modernamente, la mano, cosa abbastanza naturale in terra svizzera, a certe prime applicate im ­maginazioni di Klee.

Ma già nell’Amore alla fonte della vita il tema sim ­bolico si va liberando dalle implicazioni stilistiche più ricercate, e si distende secondo una strofe grandiosa, gremita, riboccante per un verso di germinazione vege ­tale come in un naturalista informale, ma, lì accanto, distesa così grandiosamente nelle candide ali dell’an ­gelo che tutti i Bistolfi, che ne provengono, resteranno ben lontani da quel sospeso chiarore. Segantini, insom ­ma, è troppo coinvolto con la vita nella sua profondità e sacertà perché il Jugendstil in lui resti dato di moda. E come era essenzialmente simbolico il tema solo appa ­rentemente sentimentale delle Due madri, in realtà contesto di bruna logorata emozionante pittura, quasi come in un Permeke, così man mano gli spunti simbo ­lici lo aiutano a maturare la sintesi suprema della sua visione di paesaggio, accostandosi a una sempre più profondamente riscoperta semplicità. Ora non è più l’occhio smagliante e oggettivo di Savognino, anzi quel ­lo, solenne, mestamente inclinato, presago, del Ritorno al paese natio o del trittico ultimo. Il panorama del mondo è ancora capace di sopportare un infinito rac ­conto, ma la presenza epica del tempo di Savognino, che sembrava regolata dalla legge semplice e quotidia ­na della vita pastorale, ora si approfondisce in pause, in gesti più misteriosi e simbolici, in inclinazioni che hanno la grande cadenza mesta d’un coro supremo. Eppure niente sa d’artificio, perché i significati sono pregnanti, essenziali come i nodi essenziali dell’esisten ­za: la nascita, il trascorrere della vita, la morte.

Prima della sua materiale scomparsa dal mondo Segantini ha fatto in tempo a esprimere, per immagi ­ni le più profonde ed elementari, qualche cosa di gra ­ve e di eterno. Qui anche il suo ottimismo da luogo a un sentimento più nascosto, che imbeve i colori puri e freddi: freddi anche nell’oro del sole, nel verde degli abeti, nell’azzurro del ciclo e nelle vaste ombre azzur ­re sulla neve. Chi dirà la malinconia sacrale del passo dell’alpigiano che, nella Natura, si interna, parando l’armento, verso qualche meta carica di tristezza? una casa solitaria? una famiglia lontana? O chi dirà la vastità sospesa, epica ma inquietante, della grande tela della Morte, tutta bianca, grigionera, celeste? Seganti ­ni sembra stremarvi la sua grafia nella ragnatela delle palizzate o della slitta ancora vuota, quasi relitti sulla neve, o rialzarla nella dentatura potente della catena alpina: tutto a indicare l’indimenticabile apparizione della nube che s’affaccia alla sella montana, gonfia di fato minaccioso, come non fu mai così minaccioso -perché intellettualistico al confronto – nessun Redon; come soltanto è minacciosa e incombente la notte nera di Munch. Chi non conclude sulla grandezza totale di Segantini da questo suo preparatissimo esito, non sa ­prà collocarlo, come si è fatto per labili tentativi, come noi italiani certo non abbiam saputo fare, con i grandi europei della sua generazione.

 

 


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Bart