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PITTURA: I MAESTRI: Stradone, lupo mannaro

12 Gennaio 2013

di Leonardo Sinisgalli
[dal “Corriere della Sera”, domenica 5 aprile 1970]

Anche i quadri di Stradone bisogna leggerli e ri ­leggerli per afferrarne il senso. Ricordo come fosse ieri quando a vent’anni con un amico che aveva una camera sotto la mia in un istituto gestito dai frati in piazza degli Zingari a Ro ­ma ci accorgemmo di aver capito di colpo « L’infinito » di Leopardi. Particolari a prima vista insignificanti diventano importantissimi: la congiunzione « e » ripe ­tuta undici volte nel giro dei quindici endecasillabi, i determinativi questo questa queste quello quella presen ­ti otto volte nell’idillio.

A prima vista le operine di Stradone â— perché si tratta raramente di pezzi più larghi o più alti di un paio di palmi â— possono fortemente deludere. Specie le sue cose tipiche che par ­tono dal 1950 e arrivano con una coerenza impressionan ­te fino a oggi: dipinte, dun ­que, in vent’anni sembrano tutte fatte in un giorno. Ra ­re volte mi è capitato di trovarmi davanti un gruppo di tele così somiglianti, non proprio nel disegno o nel motivo ma nella sostanza. Ecco perché bisogna diffi ­dare della prima impressio ­ne e guardarle bene dentro, queste opere, proprio dentro la cornice, come si guarda in un cannocchiale. Allora ci si accorge di che vista spettacolosa è dotato Stra ­done, la vista, possiamo az ­zardare, che a noi miopi sembra di recuperare in so ­gno, la vista dall’alto, lon ­tana nello spazio e remota nel tempo.

Non credo che Stradone quando gira in bicicletta nelle ore impossibili, alla prima alba o nel cuore delle notti di luna, come un son ­nambulo o un lupo manna ­ro, abbia poi tanta voglia di tirare fuori inchiostri o colori, penne o pennelli.

Stradone rumina, rimu ­gina le sue visioni e ha bi ­sogno continuamente di ci ­bo nelle ore che trascorre come un clandestino in ca ­se-studio sempre tappate, dove egli deve ingannare se stesso con gl’intrattenimen ­ti più curiosi per garantirsi di avere tutto a portata di mano al momento della fol ­gorazione, della scarica.

Sono sicuro che i suoi quadri più belli sono stati dipinti in una mezz’ora. Per questo egli è forse anche più rapido di De Pisis, con la differenza che De Pisis poteva dipingere uno e an ­che due opere al giorno, mentre Stradone è riuscito a malapena in trent’anni a finire una ventina di pro ­totipi e un centinaio di va ­rianti.

In una recente ristretta antologia ha presentato al ­cuni pezzi capostipiti, i ca ­polavori, Colombo in volo, per es., Straccivendolo in periferia, Notturno in villa, Mattino. Non sono titoli ri ­cercati o sofisticati, alla Klee per intendersi o al ­la maniera delle ultime schiappe concettuali. Forse Stradone lascerebbe le sue tele senza titolo così come le lascia senza firma o sen ­za data. Queste fisime per lui non sono serie.

Spetterà ai filologi distin ­guere i pezzi primogeniti dai consanguinei, perché l’autore per istinto non si piega volentieri a queste dif ­ferenziazioni e neppure col ­labora a dirimere eventuali abbagli. Per lui la pittura è manifestazione vitale, non un mestiere, una « routi ­ne ». Ha rischiato tutto per evitare equivoci e compro ­messi, vive da isolato, da disperato, eternamente col cuore in gola, sempre stra ­volto, braccato, proprio co ­me i pochi poeti e i pittori entrati nella leggenda. So benissimo che queste paro ­le saranno da lui respinte, ch’egli teme ogni volta di essere tradito, sfregiato.

Non credo che egli si compiaccia di fare il tene ­broso. Credo di più a una sua fondamentale delicatez ­za e forse perfino inettitu ­dine. Conosco casi del ge ­nere: meridionali che a cinquant’anni restano con le paure, le ansie, la superbia degli adolescenti. Perché ci sono fanfaroni e impediti, ed è proprio da questi ulti ­mi che possono improvvisa ­mente venir fuori scatti e parole spropositate, come spesso è accaduto a Stra ­done e a qualche altro ani ­male difficile.

Egli si vanta di aver sal ­tato a piè pari postimpres ­sionismo e cubismo, di ave ­re come modelli Scipione e il Greco, di essere arrivato per virtù propria a dar ri ­gore al suo «élan », al suo istinto plastico, e di sentir ­si più vicino a Fautrier, a Pollock che non ai « con ­discepoli disciplinati e in ­freddoliti » tornati, come lui dice, a fare carte da parato con lo spruzzatore e il tira ­linee o nuvole e nuvolette vaganti su cieli di cartavelina.

Ma non ho detto ancora proprio niente sulle sue vi ­sioni o esplorazioni o esplo ­sioni, che diventano miti ­che, scoppiano di felicità e di disperazione in pochi ac ­centi. I suoi fiori sembrano stelle, percorrono in pochi attimi spazi profondissimi di memoria. E le sue larve sono messe al riparo den ­tro un bozzolo.


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