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PITTURA: I MAESTRI: Veronese: Un mondo mentale

19 Marzo 2019

di Guido Piovene
[Classici dell’Arte, Rizzoli, 1968]

La vera linfa della critica è nelle osservazioni dei dilettanti di genio. Nella critica sul Veronese conti ­nuano a circolare, diventate irriconoscibili e tradotte in forma scientifica, le osservazioni annotate da Goethe nel suo Viaggio in Italia, in data 8 ottobre 1786. Acutissimo nell’intendere tutto ciò che gli piace, sbri ­gativo nell’eliminare tutto ciò che gli è estraneo, Goethe espone un’idea sulla pittura veneziana che ha ri ­cavato dal confronto tra le opere dei pittori e il luogo dove sono nati. Vorrebbe essere un’idea generale sulla pittura veneziana, ma è stata suggerita dalla visione ancora fresca di un’opera del Veronese, La famiglia di Dario davanti ad Alessandro, allora al palazzo Pi ­sani Moretta, adesso alla National Gallery di Londra. Goethe poi estende i caratteri propri del Veronese a quella che chiama ‘una scuola’. “Il mio antico modo di riguardare il mondo con gli occhi di quel pittore, i cui quadri hanno lasciato l’impressione più recente nel mio spirito, mi ha suggerito una riflessione singo ­lare ….Percorrendo le lagune nel pieno sfolgorare del sole e osservando sul fianco delle gondole i gondolieri, che sembravano scivolare via nelle loro movenze agili e nei loro costumi variopinti, mentre le loro figure si profilavano sullo specchio verde chiaro dell’acqua, sullo sfondo dell’aria di un azzurro profondo, ho ammirato il quadro migliore e più perfetto della scuola veneziana. La luce del sole dava un risalto affasci ­nante ad ogni zona di colore e le ombre spiccavano così nette, che a loro volta avrebbero potuto servire, in certo modo, di luci. Lo stesso si può dire dei riflessi verdi dell’acqua marina. Tutto era chiaro e dipinto sul fondo chiaro … Tiziano e Paolo possedevano il segreto di questa luminosità in grado sommo; se questo non appare nelle loro opere, vuoi dire che il qua ­dro ha sofferto o è stato restaurato”.

Ecco dunque tutta la ‘scuola’ veneziana veduta attraverso il pittore più consanguineo a Goethe. Le parole di Goethe si adattano perfettamente al Veronese e non ad altri. Goethe non poteva sapere, né gli interessava sapere, che il Veronese fu a Venezia un ‘foresto’. La sua pittura era diversa, ed in parte antitetica, rispetto a quella precedente e di Tiziano stesso. Il ‘dilettante di genio’, però, colpisce alcun; caratteri del Veronese con definizioni attinenti, che oggi possiamo avviluppare di un apparato critico. ma non modificare. Goethe perseguiva con esse una sua idea generale della pittura, non solamente vene ­ziana, e stabiliva principi che restano fermi. Nella buona pittura, salvo eccezioni, non esistono la vera ombra e il vero buio, ma solo ombre differenziate e buio trasparente, dove si scorgono gli oggetti in una luce diversa ma non meno tersa. La buona pittura rifiuta l’opaco, e un fondo nero cieco fa sempre du ­bitare del valore di un quadro. Un’ultima intuizione di Goethe non emerge dalla pagina riferita, ma da tutta la parte del viaggio che riguarda il Veneto : l’af ­finità tra il Veronese e il Palladio, Goethe l’avvertiva perché amava l’uno e l’altro, per le stesse ragioni, ed il Palladio anche di più.

Richiamo in breve qualche fatto. A Verona, dove operò fino a una data incerta, il Veronese mise in ­sieme caratteri locali, bresciani, mantovani, parmensi, indirettamente romani. Si trasferì a Venezia, pittore già formato, non lontano dai venticinque anni, in pieno manierismo, e continuando a elaborare un suo speciale manierismo da cui, a contatto con Venezia, ricavò una pittura inconfondibile con quella dei ma ­nieristi o influenzati dal manierismo che operavano intorno a lui. Se, giudice Tiziano, a ventotto anni. prevalendo su altri più noti, vinse il concorso per i tondi nel soffitto della Libreria Marciana, è segno. come fu notato, che il geloso Tiziano non lo stimava un concorrente, ma un venuto da fuori, che praticava una pittura di genere diverso, ed inferiore, dalla sua. I! disegno, agli antipodi di Tiziano, predominava sul colore, secondo il precetto dei manieristi. Fin qui l’osservazione di Goethe rimane calzante, sebbene non sia vero che nel Veronese il disegno predomini sui colore. Il colore nel Veronese è splendente come in Tiziano. Solo, nel Veronese i colori non hanno nes ­suna tendenza a disfarsi e sgranarsi, come in Tiziano, in una “mitica materia trasudante luce”, che sembra essere l’essenza stessa del mondo. Anzi, ogni colore riempie una zona netta (le “zone di colore” di Goethe), quella occupata dall’oggetto, che il disegno con ­torna con i suoi confini precisi. Prevalgono le gamme fredde, preziose, sulle calde ; masse cromatiche di ­stinte sono accordate per contrasto anziché fuse per impasti tonali. Si ha “un cosmo a struttura cristalli ­na” (Pallucchini, da cui ho preso altre osservazioni), dai colori nitidi e gemmei, di un’assoluta tersità, mai sfumante. Le ombre sono colorate, e vi si guarda dentro (“a loro volta avrebbero potuto servire, in certo modo, di luci … Tutto era chiaro e dipinto su fondo chiaro. “) Fin qui si rimane nei limiti di quello che ha notato Goethe. E i buoni restauri recenti (San Sebastiano) ci confermano che, se non è così, “vuoi dire che il quadro ha sofferto” o è stato restaurato precedentemente da una mano maldestra.

Non bisogna però prendere in senso letterale il rapporto, che Goethe sembra istituire, tra la pittura veneziana e il colore e la luce di Venezia città. Prova ne sia che le sue riflessioni si adattano interamente a un solo pittore, formatosi in un altro luogo. E Goe ­the stesso forse rifiuterebbe un’interpretazione testua ­le delle sue parole. Quando egli chiede all’arte d’es ­sere naturale, le chiede di produrre con la verità, semplicità e grandezza delle opere naturali, non certo di trascriverle. Se mai, una certa qualità di luce ve ­neziana poteva penetrare per via indiretta nel modo di immaginare del Veronese, come l’ambiente in cui viviamo concorre al colore dei sogni. Vi è poco ‘na ­turale’ nel Veronese, nel senso che si da abitualmente alla parola. ‘Artificiale’, ‘artificioso’ sono parole che ritornano sempre quando si discorre di lui, molto prima che lo strutturalismo ed il neo-formalismo si diffondessero tra noi. Il pericolo è che siano prese in senso restrittivo, secondo il lungo equivoco che ci al ­lontana sempre più dall’intelligenza dell’arte. Nel no ­stro caso, ‘artificiale’ non indica solo un carattere, ma un merito particolare che il Veronese ha forse più di qualsiasi altro artista. Significa che il mondo dei suoi quadri, dove i colori brillano come gemme, il suo “cosmo a struttura cristallina”, si vede solo nei suoi quadri, e non fuori. Uno studioso, Terisio Pignatti, osserva che nei quadri del Veronese non esiste ombra o luce che cadano seguendo le regole naturali. Vi è sostituita una luce artificiale, i cui angoli di incidenza sono calcolati in modo che strisci sulle superfici, esal ­tando i contrasti, provocando riflessi, illuminelli e lu ­minescenze cangianti. Questo artificio non significa che di fronte a un dipinto del Veronese si abbia mai un sentimento d’irrealtà; se così fosse, perderebbe il potere d’attirarci dentro. Quasi tutti i suoi innume ­revoli personaggi sono ritratti, mai fatti di maniera, come spesso nel Tiepolo: ogni particolare è rubato al vero. Ma questo tessuto di pezzi di realtà naturale è trasportato in un mondo che non lo è, perché ha una materia, una luce, una struttura, e insomma una natura propria. Lo riempiono in modo tale, quei visi e corpi e particolari dal vero, che dovunque si posi l’occhio non si trova mai nulla che non sembri simile a quello che vediamo nel nostro mondo; siamo quasi tratti in inganno; il realismo dei particolari non è che un mezzo per farci passare, credendoci, senza staccarci da noi stessi e senza farci sentire nessuno strappo, in un mondo di perfezione organizzato per suo conto. Qui occorre anche ricordare che furono quelli i tempi del massimo avvicinamento tra pittura ed architettura, e che in nessun artista come nel Ve ­ronese la congiunzione fu così manifesta. Non è pos ­sibile parlare del Veronese senza citare il Sanmicheli, il Sansovino, soprattutto il Palladio. In lui non si trat ­ta più solo d’una collaborazione con l’architetto, per cui l’invenzione pittorica si adatta a quella architet ­tonica e diventa complementare, come nella villa Bar ­baro a Maser, un esempio che credo unico di crea ­zione a due, dove l’architettura e la decorazione si direbbero facce diverse d’una stessa mente. Si tratta di una consanguineità vera e propria, per cui la stessa regola dell’architettura è interiorizzata e riappare sot ­to altra forma anche nei quadri sciolti che non si devono adattare a un’invenzione architettonica. È pro ­prio dell’architettura creare organismi nei quali ci muoviamo e viviamo sentendoci dentro il mondo, che però non somigliano a niente che esiste in natura, e formano uno spazio artificiale immesso in quello na ­turale. La pittura del Veronese porta la stessa regola nei suoi mondi animati di innumerevoli figure simili a noi.

Credo però che posso spiegarmi meglio se arrivo a queste osservazioni dalla mia storia personale, es ­sendo io un veneto non veneziano, e non di formazione veneta in senso generico, ma di una formazione ben definita, palladiana-veronesiana, con appendici tiepolesche. Riesco così a spiegarmi il Veronese con me stesso. Prima dell’età di viaggiare, quando non cono ­scevo nulla fuorché nei libri, vedevo già quasi ogni giorno qualche opera del Veronese, e specialmente due, L’adorazione dei Magi in Santa Corona a Vicenza e la Cena di san Gregario Magno nel santuario vicentino di Monte Berico. Gli affreschi di Maser mi divennero invece familiari più tardi, ed ebbi anche la fortuna di dormire vicino ad essi per alcune notti. Il quadro di Santa Corona, trascurato allora dai critici, produsse in me forse per primo l’effetto, oggi si direbbe di droga (l’unico effetto, a mio parere, che si deve chiedere all’arte), che offre il Veronese a chi lo guarda attentamente. Quel cielo e quelle nuvole già notturni del fondo, notturni ma chiarissimi, rischia ­rati da una speciale luce-ombra o luce-oscurità, diversa ma non meno luce di quella diurna, quel raduno sfar ­zoso di rasi e velluti cangianti, in scorci e prospettive inventati, per cui bisogna rinfrescare l’aggettivo mera ­viglioso, componevano la visione di una cosa mai vista, che però non contrastava col vero, e aveva la virtù di tirarci dentro di sé senza darci la minima sensazione di cambiare vita. Anzi, vi si stava benissimo, con il nostro cervello e il nostro corpo consueti. Si ripeteva in noi la stessa operazione che il Veronese compie con i suoi per ­sonaggi, presi dal nostro mondo e portati in un altro. Nessuno ci potrebbe dire dove appoggi i piedi, na ­scosti dall’assembramento, il cavallo che regge il ca ­valiere sovrastante col cimiero a piume ; pure quel ca ­valiere, così collocato perché lo vuole la composizione, raggiunge un certo genere di sublime. In quanto alla Cena di Monte Berico, l’associo a quelle che ho ve ­duto più tardi, all’Accademia di Venezia, al Louvre, alla Pinacoteca Sabauda di Torino, a Brera, senza preoccuparmi di quale sia la meglio riuscita. Queste Cene del Veronese sono per me prodigi. Delle archi ­tetture di sfondo, e dei cieli, parlerò dopo. Ora voglio solo notare che in tutti i pittori del tempo, e prima di quel tempo, l’anacronismo era la norma, ma che in nessun altro pittore è così pieno e volontario. E non si dica, come si è soliti dire, che il Veronese ha ‘preso come pretesto’ una cena evangelica per ritrarre un sontuoso banchetto di signori del Cinquecento. Pretesto’ è una parola sbagliata; vi è molto di più e di più arcano. I personaggi sono evangelici o storici, il Cristo in primo luogo, ma essi riappaiono in un altro ordine e in un’altra storia. Si pensa ad alcuni racconti moderni, secondo i quali gli uomini di questa terra conducono simultaneamente una vita diversa in un altro universo. Così quei personaggi vengono tra ­sferiti in un’altra storia, in cui il Cristo non è forse nemmeno il più importante. È come una vicenda con le stesse persone e nomi che avviene un’altra volta e con altri nessi in un universo possibile, diversamente strutturato. Tuttavia sembra verosimile, e po ­ssiamo andarvi anche noi.

Poi le architetture di sfondo, e qui non parlo so ­lamente delle Cene, ma anche di quadri con altro soggetto, esempio Marco e Marcelliano condotti al martirio in San Sebastiano a Venezia. Gli anni in cui guardavo i primi Veronese, e anch’io vedevo il monde attraverso quel cannocchiale, erano quelli della mia esaltazione palladiana. Non ho mai potuto vedere il Palladio altrimenti che come un grande visionario. non un imitatore ma un visionario dell’antico, che tra ­sferiva in un mondo diverso, come fa il Veronese con Cristo e i personaggi storici; ed anche lui, il Palla ­dio, con lo speciale modo di essere visionari di alcun: grandi Veneti, che non è né allucinato né mistico, ma un’altra cosa ancora, e in più ha qualche cosa ci: doppio, perché si manifesta in forme che sembrane vicine ad un’esperienza comune. Sentivo come affini il Veronese ed il Palladio, ossia provavo nel guar ­darli sensazioni affini. L’affinità a Maser si presene spiegata. Gli affreschi di Maser sono quelli in cui il Veronese sembra arrivato al massimo della tersità chiara, della negazione dell’ombra. “Ho visto gli dèi”, si può dire come uno scrittore francese sotto gli ef ­fetti di una droga, di fronte a quei corpi tagliati in una luce cristallina; ma senza ansia né sorpresa, come figure naturali in una seconda natura di cui guardia ­mo il panorama. La figura presso la quale ho dor ­mito era quella del battitore che si affaccia a una porta per invitare il padrone alla caccia; non mi pa ­reva strana; non mi dava il modo di accorgermi eh’ mi appariva naturale soltanto perché mi ero già im ­paginato nel suo mondo che non era il mio. La con ­sanguineità tra il Palladio ed il Veronese si rivela del tutto in quel grande artificio doppio che è la villa Barbaro. Una stessa legge governa l’organismo di vani formati dall’architettura e i limpidi spazi interni degli affreschi che li decorano. Anche il Palladio, e in modo speciale a Maser, aborre il buio, anzi nega la sua esistenza. La luce naturale esterna penetra da ogni parte, obbedendo però a una regia che calcola gli effetti luminosi non meno di quelli spaziali: le finestre hanno l’ufficio di riflettori, che dirigono ac ­cortamente la luce per costringere ogni punto ad en ­trare in uno splendore diffuso, che non sembra pii; avere una sorgente luminosa determinata. Le ombre non sono vere ombre, ma zone di colore poste a con ­trasto. Lo stesso avviene negli spazi dipinti del Veronese, dove la luce gioca non come in natura, ma come negli spazi dell’architettura in cui sorgenti lu ­minose ed effetti vengono predisposti dall’architetto. I colori puri, decisi e brillanti del Veronese trovano poi nel Palladio un equivalente, che è la sua arte di raggiungere il massimo del colore con le superfici bianche. Vi è però un altro lato di questa affinità Ve ­ronese-Palladio che m’interessa anche di più. È quan ­do il Veronese, interiorizzato il Palladio e giovandosi del suo mezzo spiccio, sembra realizzarne i sogni. Negli sfondi monumentali, per esempio, delle sue Cene. Non so se una parte degli elementi di quelle città immagi ­narie richiami di più altri architetti che il Palladio, ma questo è per me trascurabile. Palladiano è il com ­plesso, e lo speciale carattere visionario. In mano a committenti più ambiziosi che ricchi, il Palladio ese ­guì solo una piccola parte dei suoi progetti. Non riuscì, ch’io ricordi, a completare mai un cortile ; alcuni suoi palazzi sono una scaglia di ciò che dovevano essere, molte ville e palazzi rimasero sulla carta. Ma la sug ­gestione di quello che gli lasciarono eseguire è forte anche perché dietro ad esso si scorgono città dagli edifici bianchi che salgono in alto nel ciclo, simili a quelle spalancate dal Veronese dietro i suoi perso ­naggi. La volontà dell’architetto non trova più limiti pratici, ed il Veronese ci da un universo palladiano mai realizzato. Talvolta collaborò col Palladio, tal ­volta ne fu il medium.

Si usa per il mondo del Veronese l’aggettivo ‘se ­reno’. Ma è un aggettivo fuori posto, se gli si vuole dare significato psicologico, e altrettanto sarebbe fuori posto il contrario. Così anche il dire che la sua pit ­tura non è drammatica. Certo manca nel Veronese qualsiasi elemento di quelli che furono più tardi chia ­mati espressionistici. Le sue figure non si sforzano di dirci nulla, non fanno nessuna pressione su chi le guarda, non cercano di proiettare in noi qualcosa che hanno dentro mediante la violenza e tanto meno la deformazione espressiva. Non sono né serene, né calme, né drammatiche; semplicemente sono, hanno la pie ­nezza dell’essere, nel loro mondo parallelo e altret ­tanto grande del nostro. Vi sono contenuti anche quelli che chiamiamo drammi, mai impiccoliti ed ad ­dolciti, ma pieni e non drammatizzati una seconda volta dall’intenzione del pittore, visti nel loro esistere, avvenimenti nella loro natura, che non è il nostro ‘na ­turale’.

Quella del Veronese è una semplicità illusoria, come la semplicità dell’Ariosto. Si presta ad aggettivi come ‘sereno’ o ‘favoloso’, che sembrano essere atti ­nenti, e invece slittano sulla sua superficie lasciando inesplicato il grosso, cioè la parte sommersa, la sua lucida organizzazione orchestrata. È un’arte più com ­plessa di quella di Tiziano, il che non vuoi dire più grande; certo è più intellettuale. Si svolge in vasti spazi mentali astratti, e ci da figure concrete; sembra ‘naturale’, e non lo è; fabbrica un mondo surreale, ma tutti gli elementi che lo compongono provengono dal reale osservato e fissato da un obiettivo minuzioso. Inventa un mondo artificiale, ma non potrebbe essere nato fuori del suo momento storico; ha con il tempo storico lo stesso rapporto del fiore con la pianta, che è un organismo diverso, di una materia e di un colore diversi, ma potrebbe sbocciare solo su quella pianta a cui non somiglia. Evoca un mondo che non c’è, non c’è stato e non ci sarà mai, eppure realisticamente vivibile; mi ci sono trovato dentro; è il genere di mondo nel quale vorrei vivere. Uno spazio mentale, una specie di eternità, in cui niente dimagra, e i corpi rimangono intatti. Niente dissoluzione, neppure in luce. Vi è nell’arte del Veronese una qualità d’arcano, a cui le parole con cui vogliamo definirla passano sem ­pre accanto sfiorandola appena. Se si tenta di dire che quel mondo è illusorio, sentiamo che ci sfugge la sua sostanza. Un’arte illusionistica è quella che pro ­duce artifici parziali, i quali prendono le mosse da una realtà comune, a cui ci vogliono sottrarre me ­diante l’inganno, e in cui sono appunto artifici; per ­ciò sono spinti, marcati e tendenti al massimo effetto. Ma nel mondo del Veronese non c’è altro che quel mondo; è intero, completo, compatto, non inganna e non simula; si compiace di esistere, seriamente, na ­turalmente, senza lacune né fessure da cui si guardi altrove. Quella che chiamiamo illusione è la legge della sua esistenza. Nemmeno la parola allucinazione si adatta. Nelle immaginazioni del Veronese, niente è discontinuo, sofferente, o nevrotico; non sono flash provenienti chissà di dove ; nascono a mente sveglia, l’intelletto le elabora e la ragione le sorveglia. Pos ­siamo richiamare il mistero teatrale, perché anche il teatro inserisce nel nostro brani d’un mondo diffe ­rente; ma il mondo totale del Veronese non si esi ­bisce, non si recita. È il panorama di una seconda natura; i personaggi vivono dentro di esso, e guar ­dano nel suo interno, e mai fuori verso di noi.

Questa forma di arcano si condensa nei cieli del pittore, forse i più belli che mai siano stati dipinti; e soprattutto i cicli dell’artista maturo, quando non sono più diurni, e diventano crepuscolari, o piuttosto entrano in un’ora che appartiene soltanto a loro e non è notte né giorno. La luce vi continua, ma è d’un mondo che rimane chiaro per una sorgente di luce diversa da quella del sole. Spesso il loro strano cele ­ste ed i loro lembi di nuvole si aprono tra le appari ­zioni di alti edifici bianco argento, come nel fondo della Cena di san Gregario Magno. Sono arcani, ma se tentiamo parole come ‘mistico’, o anche soltanto religioso’, sentiamo subito d’essere fuori strada. Nien ­te di mistico in quei cicli seròtini che mai si squarce ­ranno per mostrare visioni di angeli e di santi; il loro è un infinito mentale senza traguardi né aldilà trascendenti. Ma non è questo il vero arcano? Essi ci danno il brivido di un altro aldilà, la scossa del meta ­fisico o dell’iperfisico; la stessa che si trova in fono: a tutto questo grande artificio inventivo, e in fondo a tutti i grandi artifici inventivi che accettano d’essere tali, ma creano un loro mondo in cui cambiano nome e diventano leggi. Sono certo esistiti pittori anche più grandi del Veronese, ma nessuno per me ha esposto così chiaramente, con la sua opera, in che cosa l’arte consista.

 


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Bart