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La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

PITTURA: LETTERATURA: I MAESTRI: Picasso blu e rosa: Esplosione della maniera

7 Luglio 2018

di Alberto Moravia
[Classici dell’Arte, Rizzoli, 1968]

Guardiamo prima di tutto alle date. Nel 1910, a Trieste, James Joyce da inizio all’Ulysses. Nello stesso anno Igor Strawinsky fa rappresentare a Parigi L’oiseau de feu. Pablo Picasso, un po’ prima, tra il 1903 e il 1906, dipinge quadri come I giocolieri, La vita, i Mi ­seri in riva al mare, la Bevitrice di assenzio, La cop ­pia, l’Acrobata e giovane equilibrista ecc. Vale a dire, il secolo comincia esattamente come doveva poi pro ­seguire e come tuttora prosegue, con un’arte rifatta sull’arte, un’arte non più in presa diretta sulla realtà ma mediata dall’estetismo, un’arte convogliata dalla coscienza critica fuori dalle tempeste della creatività verso le lagune immobili della maniera e dunque, più tardi, del consumo. Contemporanei o appena prece ­denti, c’erano stati o c’erano tuttora artisti realistici, come Marcel Proust il cui progetto, in fondo, non era troppo diverso da quello di un Balzac; Vincent Van Gogh che aveva saputo raccontare addirittura la pro ­pria ‘escalation’ verso la pazzia; Richard Wagner che, con l’illusione di adombrare un mito eterno, aveva scritto con il Tristano un’opera di piccole proporzioni, ben cesellata e ben costruita, sull’amore borghese.

Che cosa accomunava Joyce, Strawinsky e Picas ­so? Che non avevano niente da dirci, o meglio non volevano dirci niente sopra se stessi e dunque sul loro rapporto con la realtà, ma moltissimo sull’arte e sul loro rapporto con l’arte. Indifferenti nei riguardi del mondo al quale rifiutavano qualsiasi partecipazione che non fosse mediata dall’arte, questi tre artisti era ­no caratterizzati da una genialità di specie riflessa, critica, tecnica, contemplativa. Prim’ancora che l’ani ­mo del creatore, avevano l’occhio dell’esteta, il fiuto del conoscitore, la mano dell’imitatore. Erano tre geni voraci e versatili che, dopo aver bruciato in pochi anni la carriera dell’artista tradizionale legato alla rappre ­sentazione della realtà, avrebbero saputo oltrepassare il limite un tempo invalicabile dell’esaurimento, spo ­stando la loro opera dalla vita alla cultura.

Per mandare ad effetto una simile operazione bisognava avere il coraggio, attraverso uno sperimenta ­lismo eretto a sistema, di negare validità di ispirazioni al già vissuto e attribuirla invece al già detto. In altri termini di sostituire al mondo il museo. È quello che hanno fatto Joyce, Strawinsky e Picasso che, a ben guardare, sono stati i curatori di un immenso inven ­tario per fini di appropriazione e di saccheggio.

Del resto era giusto che fosse così. A partire dai primo conflitto mondiale e dal conseguente crollo dei valori, tutta l’arte del passato, colpita da morte im ­provvisa, diventa istantaneamente museo. Ora, il mu ­seo a che serve, se non a stabilire dei paragoni impro ­babili, degli accostamenti riduttivi, dei cataloghi ca ­tastrofici? Con il museo, spunta l’idea della relatività degli stili, della pluralità delle forme, e della vanità dell’espressione. In ultima analisi, l’idea del consumo inteso come trasformazione della creazione in prodot ­to. Joyce, Strawinsky e Picasso sono, involontariamen ­te, i tre artisti geniali e disinteressati che hanno for ­nito al consumo, sinora ignobile e mercenario, le sue carte di nobiltà, facendolo scaturire non più dalla ri ­chiesta del mercato ma dall’esigenza culturale.

Trattando l’arte del passato come un repertorio di stilizzazioni manieristiche, ne hanno reso possibili lo smercio di massa. Ladri di forme, hanno ucciso la vita nelle forme, le hanno ridotte a schemi. Essi han ­no probabilmente chiuso per sempre l’era degli artisti che avevano qualche cosa da dirci; hanno iniziato l’era degli artisti che hanno qualche cosa da darci. Giochi di parole a parte, con loro comincia il grande manie ­rismo alessandrino di tipo atlantico, basato sulle società consumistiche dell’Europa Occidentale e degli Stati Uniti. Comincia il cimitero-museo-spettacolo-mercato-fiera-esposizione-emporio dell’arte ormai condannata ad essere per sempre contemporanea e d’avan ­guardia.

Tralasciando i suoi due compagni dell’avventura novecentesca, che cos’è che rivela in Pablo Picasso il grande, spietato, geniale manierista? Diremmo sopra tutto la trasformazione della visione del mondo particolareggiata, personale ed oggettiva in mera espres ­sione di generica vitalità. Prendiamo di nuovo come termine di confronto l’opera di Van Gogh. L’autobio ­grafia di Van Gogh è davanti a noi sulle sue tele, dall’adolescenza oscura fino all’oscurità della pazzia. Questa autobiografia si esprime direttamente e imme ­diatamente attraverso le seggiole dal fondo di paglia, i ritratti e autoritratti, i fiori di cardo e i girasoli, i paesaggi con i campi di grano e i filari di cipressi, le camere da letto e i bigliardi, le aiuole e i boschetti del manicomio. Van Gogh non può fare a meno di par ­larci di se stesso; questa esigenza gli impedisce di pas ­sare dall’espressione all’autoimitazione. D’altra parte lo stile di Van Gogh, pur così marcato, non diventa mai maniera: esso è una deformazione sentimentale, per ­versa, ossessiva, maniaca, mai estetizzante, mai contemplativa.

In Picasso, invece, l’autobiografia fa prestissimo a diventare, attraverso lo sperimentalismo, affermazione di vitalità e dunque maniera. Il mezzo di cui, incon ­sciamente, Picasso si serve per dissolvere la propria visione del mondo in puro vitalismo è la contemplazio ­ne della forma. Picasso sente le forme come prive di qualsiasi significato all’infuori di quello biologico. La contemplazione della pittura di tutti i secoli gli fa ab ­bandonare quasi subito l’autobiografia, ossia la storia di se stesso, per l’astorico ‘élan vital’. Picasso si accor ­ge molto presto che ciò che conta (a posteriori) nell’opera di un artista non è quello che ci ha detto ma il suo complessivo tasso di vitalità. Ma un conto è essere vitale senza saperlo; e un altro ricercare prima di tutto e sopra tutto la vitalità. Un’operazione simile non può infatti non portare all’idea che la forma sia vitale più o meno in quanto è più o meno stilizzata, ossia più o meno rivelatrice di una non bene precisata ‘forza’.   Il che equivale a dire che l’artista è vitale perché è vitale. Tautologia significativa. Dire infatti che la vita è la vita vuol dire, in fondo, escludere che la vita possa essere diversa da quella che è.

La vitalità esclude la visione del mondo, perché la visione del mondo si forma e si sviluppa a partire dall’abbandono del terreno sicuro della vitalità. E chi rimane fedele alla vitalità non può aspirare a forgiar ­si una visione del mondo. Al livello della vitalità, non c’è ancora il mondo degli uomini con le sue conven ­zioni e la sua storia; esso è sottinteso però nella vita ­lità, e per questo, a conti fatti, è inutile parlarne. Chi crede nella vitalità, non crede propriamente a nulla pur credendo a tutto. Cioè a nulla di veramente umano. Crede invece in un dato irriducibile, originario, primitivo e ferino che, curiosamente, porta, in arte, all’eclettismo, al culturalismo e soprattutto al forma ­lismo.

Naturalmente, non si allude qui al formalismo cal ­ligrafico e decorativo, bensì al culto pluralistico delle forme intese come pure proliferazioni dello slancio vi ­tale. Mentre la simbiosi, poniamo, di un Manet con Velàsquez è raggiunta attraverso un delicato e mi ­sterioso processo di riallacciamento e di assorbimen ­to, per Picasso, il quale ha sostituito il culto della vi ­talità alla visione del mondo, sarà facile, nella sua lun ­ghissima carriera, trarre motivi di ispirazione via via dal Greco, da Lautrec, da Van Gogh, da Degas, da Bonnard, da Gauguin, da Cézanne, da Puvis de Chavannes, da Goya, da Dürer, dai vasi greci, dall’arte negra, da Matisse e da altri pittori suoi contempora ­nei, e infine da se stesso. Noncurante di quello che gli artisti hanno voluto dire, egli rapirà loro le forme di cui avrà via via bisogno come stimoli e provocazioni all’espressione della propria vitalità.

Che c’è di comune per esempio tra Picasso e l’art nègre? Risponderemmo volentieri alla maniera di Hemingway, altro grande ‘vitalista’: the guts. Ossia l’idea di una violenza espressiva sopra tutto biologica, anzi fisiologica, provata e dimostrata dalle vertiginose sti ­lizzazioni delle sculture africane. Sì, all’origine del manierismo moderno non c’è l’estenuazione dello slancio vitale come nel manierismo postrinascimentale, bensì lo sbrigliamento e scatenamento di quello stesso slancio attraverso il museo dell’arte di tutti i tempi. Nel manierismo tradizionale si esauriva un mo ­mento storico dell’arte; in quello di Picasso e degli artisti simili a Picasso, esplode la libertà forse illusoria del più vasto eclettismo e alessandrinismo di tutti i tempi.

Guardiamo ora al periodo blu e al periodo rosa; cioè al tempo in cui il culto della vitalità si pone an ­cora dei limiti, diciamo così, di contenuto, prima che venga la rivelazione (Le damigelle di Avignone) della vitalità come pura riflessione critica fusa con la pura volontà eversiva. Guardiamo, per esempio, ai quadri del periodo barcellonese, nei quali Picasso descrive con pietà, solidarietà e strazio (o almeno crede di far ­lo) la povertà, la fame e la destituzione, in un momen ­to in cui lui stesso era povero, affamato e destituito. La prima cosa che si osserva è lo sforzo continuo nel sottolineare con atteggiamenti affranti, umiliati, ad ­dolorati, mortificati, dolenti, avviliti le sofferenze dei miserabili. Ma, curiosamente, queste sofferenze sembrano tutte quante, per Picasso, portare ad un solo ef ­fetto: la mancanza di vitalità, la devitalizzazione, il venir meno, insomma, dell’ ‘élan vital’. Sì, le figure sono tutte ritratte in atteggiamenti eloquenti, atteg ­giamenti di creature vinte, oppresse, disperate: spalle reclinate, teste piegate, braccia conserte, corpi ran ­nicchiati, camminate esitanti, abbracci dolorosi, am ­plessi amari e via dicendo. Tutta un’umanità affranta, sulla quale si direbbe che Picasso getti uno sguardo impregnato di cristiana pietà.

Ma non è così. Picasso non è cristiano e non ha pietà. Quello che gli sta a cuore è qualche cosa di contradittorio e di lontano in ogni caso dalla parteci ­pazione sentimentale: esprimere il minimo di vitalità propria della miseria e della fame con il massimo di vitalità propria dell’arte. Così gli atteggiamenti di queste figure dolenti sono sempre studiati, eleganti, compiaciuti, accarezzati, stilizzati. La devitalizzazione è sentita come forma plastica, non come disperazione morale. Siamo nel ‘pietismo’, non nella pietà; nel miserabilismo estetizzante e misticheggiante di certi de ­cadenti, non nell’immedesimazione di un Dostoievski.

Del resto, si osservino i volti contriti e dolorosi di questi reietti di Picasso: gli occhi sono vuoti. Quanto dire che Picasso ha affidato l’espressione del dolore non già al volto, sede della psicologia che ne è il testi ­mone sincero e involontario, bensì all’atteggiamento del corpo, che non può non avere qualche cosa di stu ­diato e di recitato. I personaggi di Picasso, in altri termini, più che essere addolorati, recitano il dolore. Mentre non si può fare a meno di rimanere ammirati di fronte alla completezza, maturità e sicurezza espres ­siva di questo primo Picasso (se Picasso fosse morto o avesse cessato di dipingere nel 1906, sarebbe stato egualmente uno dei grandi pittori rappresentativi del ­l’epoca); mentre non si può non rimanere affascinati dal mistero della forma picassiana, si deve notare lo stesso che la maestria precoce di Picasso è strettamente connessa con la sua indifferenza sperimentale e ma ­nieristica.

Si prenda d’altra parte il quadro intitolato, in mo ­do tipico: La vie, La vita. È un quadro, in fondo, re ­ligioso; ma della sola religione che Picasso riconosca. La stilizzazione da vetrata di chiesa non deve ingan ­narci: la vie è la vitalità, intesa in senso meramente biologico. E infatti la famiglia umana che ci presenta Picasso è la famiglia biologica, che non è possibile rap ­presentare se non attraverso una stilizzazione simboli ­ca e manierata. L’argomento qui è trattato, in fondo, come nel quadro delle tre età della donna del quasi contemporaneo Klimt. A conferma si veda come Pi ­casso, sullo sfondo del quadro, abbia messo due quadri raffiguranti due coppie diversamente abbracciate. Perché due quadri? Perché non siamo nel mondo reale bensì nel mondo dell’arte, cioè non siamo di fronte ad una visione del mondo, bensì di fronte ad una ricerca della vitalità attraverso le forme. Picasso stilizza, sim ­bolizza, contempla. Il dolore della vita scompare: ri ­mangono le figure del dolore atteggiate elegantemen ­te nella loro pietà di maniera. La famiglia di Picasso non è la famiglia umana. Strappata dalla storia e re ­stituita alla biologia, essa è anzitutto la famiglia blu.

Già, perché, a questo punto, bisognerà pur dire che significa il colore unico, il blu, il rosa. Perché il blu? Perché il rosa? Perché, insomma, la monocro ­mia? Arrischiamo qui un’ipotesi che a molti forse non garberà: la monocromia è il passo più importante verso la maniera, cioè verso l’indifferenza sperimen ­tale nei riguardi della ricchezza e complicazione di un’autentica visione del mondo. Monocromia vuol di ­re semplificazione, stilizzazione, unificazione. La mo ­nocromia sta a indicare un’idea strettamente formale del mondo, addirittura un’idea colorata. Non si trat ­ta qui del prevalere graduato e comunque parziale di un colore, come il verde nei quadri del Greco; si tratta dell’immersione del mondo in una sola tonalità; della frapposizione, tra gli occhi e il mondo, di un unico occhiale illusorio. In realtà, il mondo non è blu: il mondo è povero, oppresso, affamato, miserabile come Picasso stesso riconosce oggettivamente nei suoi quadri del periodo blu. Ma per l’appunto il blu nega la miseria e la fame nel momento stesso in cui il pittore le presenta. Afferma invece la volontà di Picasso di met ­tere in prima linea se stesso, cioè la propria generica vitalità, fuori d’ogni giudizio e di ogni scelta morale, attraverso un colore totalitario e demiurgico.

L’estetismo, il manierismo, il vitalismo, la stilizzazione di Picasso si rivelano d’altronde nella sua predilezione, in quegli anni, per l’argomento dei saltimban ­chi. Il saltimbanco è una figura di moda durante tutta la seconda metà dell’Ottocento. Perché dunque i saltimbanchi? Diremmo proprio perché altri artisti (per tacere dei poeti e in genere dei letterati) li avevano già disegnati e dipinti in passato. Per lo stesso motivo per cui più tardi Picasso rifarà i tori di Goya, i nudi dei vasi greci, le maschere negre. Non ci sono nel mon ­do degli oggetti verso i quali Picasso si senta irresistibilmente, patologicamente attirato come Van Gogh dalle sue seggiole col fondo di paglia e i suoi girasoli e i suoi fiori di cardo; ciò che attira Picasso è quasi sempre ciò che ha attirato altri prima di lui. O me ­glio, gli oggetti non l’attirano affatto in quanto ogget ­ti, bensì in quanto forme di oggetti, ossia oggetti già di secondo o di terzo grado.

Così i saltimbanchi. Ecco la Famiglia d’acrobati con scimmia; ecco l’Acrobata e giovane equilibrista; ecco l’Arlecchino seduto; ecco L’attore; ecco il Lapin agile (Autoritratto da Arlecchino al caffè); ecco I gio ­colieri; ecco il Giovanetto nudo a cavallo; ecco il Gio ­vane Arlecchino e bambino con cane … Che cosa si nota a prima vista in questi quadri tra i più belli di quel periodo, nei quali, ancora una volta, Picasso cer ­ca di esprimere la sua pietà per i miserabili? Che questi miserabili per Picasso non sono che pretesti per degli elegantissimi e prestigiosi contrappunti. Si pren ­da per esempio il quadro dell’Acrobata e giovane equi ­librista, quadro emblematico del periodo e senza dub ­bio uno dei più affascinanti. Il contrasto tra la graci ­lità graziosa e miracolosamente equilibrata dell’acro ­bata che giunge i piedi sulla palla è messa a confron ­to con le spalle enormi, le gambe massicce dell’atleta seduto su un cubo. Quello che interessa Picasso è il rapporto tra le due figure, rapporto strano al quale Picasso attribuisce un vago, misterioso significato sim ­bolico del tutto ‘particolare’ cioè lontano da qualsiasi generalità sentimentale. È un rapporto isolato, auto ­nomo, interno al circo, al mondo dei saltimbanchi, al loro tipo di lavoro. Questo rapporto, manco a dirlo, è un rapporto tra un certo tipo di vitalità diciamo così aerea dell’acrobata e quella tutta terrena dell’atleta.

Lo sfondo è un paesaggio pelato, collinoso, nel quale, tra vaghi rilievi ocracei, bruca un cavallo bian ­co, forse uno dei cavalli che, poi, bardati e impennac ­chiati, gireranno per la pista del circo. La cavallerizza è forse la donna che tiene un infante in braccio e si accompagna con una bambina dal vestito rosso. Siamo in periferia, dove appunto si accampano i saltim ­banchi, ai margini di una campagna desertica, pro ­babilmente spagnola. È un momento di calma, di eser ­cizi, di intimità, di contemplazione, di rilasciamento. Ma tutto questo è allontanato da Picasso, e per così dire estraniato a causa della sua attenzione ai rappor ­ti, come abbiamo già detto, interni della scena. Rap ­porti di volumi, di forze, di attitudini. E il blu del panno sul quale siede l’atleta, insieme col blu del suo slip, richiama il blu più chiaro del corpo dell’acroba ­ta, così come il nero dello slip dell’acrobata richiama il nero dei capelli dell’atleta.

Picasso ha dipinto, insomma, un quadro sul modo come dipingere un quadro che riguardi il riposo dei saltimbanchi. La dimensione critica del manierista è presente in questo dipinto come in tutti gli altri.

Siamo nel 1905. Manca un anno solo ai primi qua ­dri cubisti nei quali Picasso si libererà della pietà an ­che come pretesto manieristico e mirerà unicamente ad esprimere la propria vitalità. Picasso è alla vigilia delle Damigelle di Avignone, cioè alla vigilia del fran ­co riconoscimento che la vitalità come solo valore della vita si esprime sopratutto fondendo coscienza critica con istinto eversore. Picasso andrà fino in fondo al ­l’eversione con l’esperimento cubista; quindi, esaurito il cubismo, tornerà al museo. E quindi di nuovo al ­l’eversione. E poi di nuovo al museo.

Alternando eversione e museo, Picasso riuscirà a coprire con il suo genio manieristico e proteiforme tutta la prima metà del secolo e oltre. Il secolo che passerà probabilmente alla storia come il secolo della morte dell’arte in presa diretta sulla realtà. Dell’arte rifatta sull’arte. Dell’arte composta di ritmi, di rap ­porti, di iterazioni, di strutture, di armonie, di corri ­spondenze e di contrappunti. Dell’arte, insomma, che parla di se stessa e unicamente di se stessa.

 


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Bart