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«Quanti Btp abbiamo in portafoglio? ». Quei consigli del Monte ad alta tensione

27 Gennaio 2013

di Fabrizio Massaro
(dal “Corriere della Sera”, 27 gennaio 2013)

SIENA – A inizio settembre 2011, travolta dalla crisi del debito sovrano, Mps appare una banca in affanno: sempre meno liquidità, sempre più perdite causate dall’impazzimento dello spread e difficoltà crescenti a gestire la massa enorme di Btp in pancia. È in quei giorni che i consiglieri di amministrazione prendono coscienza che devono intervenire. Ma per farlo, prima devono capire che cosa succede davvero nei portafogli della banca, più di quanto non sapessero (o avrebbero dovuto sapere) fino a quel momento. E a poco a poco capiscono che «non è più consentito compensare eventuali inefficienze… con i rischi finanziari », come disse il 24 novembre 2011 il presidente Giuseppe Mussari riassumendo un ragionamento del consigliere Frederic De Courtois, numero uno della francese Axa, socio al 3,7 per cento.

I verbali del consiglio da settembre a dicembre 2011 – quando come segnale per il mercato il direttore generale Antonio Vigni lascerà la banca in anticipo rispetto all’aprile 2012 (quando lasciò Mussari) – mostrano le preoccupazioni per l’impossibilità di gestire un meccanismo intricatissimo di prestiti e titoli dati a garanzia degli stessi finanziamenti, nel quale il Montepaschi sembra avvitarsi. E poi c’è il timore per il monito dell’Authority europea (Eba), che a fine 2011 impone una ricapitalizzazione da 3 miliardi per coprire le perdite legate alle svalutazioni dei Btp in portafoglio. Dei derivati «Alexandria », «Santorini », «Nota Italia » e delle altre operazioni oggi sotto la lente della procura di Siena ufficialmente non c’è menzione nei verbali di quel periodo. Ma dalle domande si intuisce il sospetto dei consiglieri che qualcosa non girasse nel verso giusto.
«Quanti Btp abbiamo in portafoglio? », chiede secco Francesco Gaetano Caltagirone, vicepresidente e azionista con il 4%, al consiglio dell’8 settembre. Di lì a poco tempo Caltagirone venderà tutte le azioni e lascerà il board. Il capo del risk management Giovanni Conti, con accanto il direttore finanza Gianluca Baldassarri, spiega che reperire la liquidità diventa sempre più difficile, anche per la «necessità di integrazioni di collaterale in relazione ai pronti contro termine effettuati dalla banca, che hanno come sottostante titoli governativi italiani ». Insomma, si annaspava. E risponde a Caltagirone: 28 miliardi di titoli governativi, 21,6 dei quali dello Stato italiano, il 40% dei quali «si concentra su scadenza lunghe ». Caltagirone contesta: Il portafoglio è «marcatamente sbilanciato » sia per Paese sia per le scadenze «prolungate ». Baldassarri cerca di difendersi: se avessimo comprato altri Paesi «equipollenti » all’Italia ci saremmo trovati nella stessa situazione; se avessimo comprato Bund tedeschi saremmo stati più protetti, ma i guadagni sarebbero stati «nulli o addirittura negativi ». Insomma, bisogna rischiare.

«La situazione non è ulteriormente sostenibile », è la reazione di Caltagirone, «sia come rischiosità che come conseguenze di conto economico, si devono prendere opportuni provvedimenti per alleggerire queste posizioni ». Mussari prova a rabbonirlo: definisce «ragionevole » la posizione di Caltagirone e propone di non rinnovare i bond che vanno a scadenza o di venderli se il valore si allineasse «a quello facciale ».
Caltagirone insiste: ma quanti ne abbiamo, di bond, rispetto alle altre banche? «Più o meno siamo simili agli altri istituti come percentuale dell’attivo », risponde Baldassarri, ma «Mps ha scadenze medie più protratte nel tempo ». Poi sul tema chiede tempo per poterlo approfondire. Anche Turiddo Campaini (Unicoop Firenze) storce il naso: «La situazione attuale è il risultato di comportamenti troppo oscillanti in ricerca estrema di risultato economico », invece «c’è bisogno di procedere con maggiore linearità e minore concentrazione del rischio ». A metterci una pezza ci prova Lorenzo Gorgoni (soci pugliesi), chiedendo di non vendere in forte perdita: «L’unica possibilità è aspettare e vedere se ritorna un po’ di sereno ». A quel punto interviene Vigni a cercare di mettere ordine: la tensione nella liquidità dipende «non tanto e non solo dal portafoglio titoli » quanto dall’insieme di raccolta e impieghi, che sono stati fortemente ridotti: «La banca ha superato anche le giornate più critiche in maniera serena ».

Il 24 novembre sono ancora liquidità e investimenti al centro del dibattito. De Courtois torna sul punto: «La dimensione e la composizione del portafoglio hanno un impatto negativo sulla percezione del mercato riguardo alla Banca, con riflessi sul corso del titolo. Serve un’esposizione analitica titolo per titolo ».
Per il 16 dicembre il dossier è pronto ma di fatto inutilizzabile: la documentazione «è stata messa a disposizione dei consiglieri solo da poco tempo », attacca Alfredo Monaci (oppositore dell’ex sindaco di Siena Franco Ceccuzzi e ora candidato alla Camera per la lista Scelta Civica di Mario Monti). Si rinvia a un successivo consiglio. Ma pochi giorni dopo Vigni si dimetterà. E il nuovo amministratore delegato Fabrizio Viola avvierà un’altra revisione, più incisiva, ora al vaglio degli inquirenti.
Proprio sulla liquidità si concentrano le indagini della procura e del nucleo valutario della Guardia di Finanza: una liquidità che sarebbe stata difficile da reperire fin dai tempi dell’acquisizione di Antonveneta, in particolare per rimborsare Abn Amro dei 7,9 miliardi di prestiti interbancari concessi alla banca padovana. Le operazioni di finanziamento sono sotto esame per verificare se siano state esposte correttamente alla Banca d’Italia. E se per caso qualcuno, nei vari passaggi tortuosi, non vi abbia fatto qualche «cresta ».


La panna montata e lo scandalo di Siena
di Eugenio Scalfari
(da “la Repubblica”, 27 gennaio 2013)

LA CAMPAGNA elettorale cui stiamo assistendo, in attesa di esercitare il nostro diritto al voto come cittadini attivi, è una delle più terremotate della storia repubblicana: populismi di varia natura che hanno come unico obiettivo l’abbattimento totale delle istituzioni; agende futuribili che si prefiggono traguardi di crescita ambiziosi, ma sorvolano sui mezzi con cui recuperare le necessarie risorse; resurrezioni di personaggi che sembravano ormai politicamente spenti e che si ripropongono alla ribalta confidando nella corta memoria degli italiani; una legge elettorale che “porcata” fu chiamata dal suo autore e “porcata” rimane. Ma come se tutto ciò non bastasse, a turbare ulteriormente il clima elettorale scoppia lo scandalo Monte dei Paschi e diventa inevitabilmente dominante in una scena già così movimentata. Non starò a ripercorrerne la storia, da una settimana è al centro dell’attenzione ed è stata raccontata e variamente commentata per quanto finora era possibile; ma non tutti i fatti sono noti e la Procura di Siena sta indagando e salvaguarda scrupolosamente il segreto istruttorio su una materia così incandescente.
Le linee essenziali della vicenda sono tuttavia evidenti: un gruppo di mascalzoni si impadronì della fondazione e della banca, si dedicò ad operazioni arrischiate di finanza speculativa, falsificò i bilanci, occultò le perdite e probabilmente lucrò tangenti e altrettante ne distribuì.

I poteri di vigilanza fecero quanto era in loro potere scontrandosi con i suddetti mascalzoni i quali avevano nascosto i documenti compromettenti per rendere più difficile l’accertamento della verità.
Ora finalmente la situazione è più chiara, la banca è stata affidata a mani sicure, i mascalzoni hanno un nome, la magistratura è all’opera; 150 dirigenti dei settori più compromessi sono stati licenziati, l’assemblea degli azionisti si è riunita, ha votato all’unanimità un aumento di capitale ed ha chiesto alla Banca d’Italia di erogare il prestito denominato Monti-Bond che sarà utilizzato per l’aumento di capitale insieme alla sottoscrizione degli azionisti. Il titolo quotato in Borsa, che nei primi tre giorni dello scandalo aveva complessivamente perso il 21 per cento, è risalito venerdì dell’11 per cento.
La banca non è a rischio di fallimento e i depositi del pubblico sono al sicuro. Restano da individuare con esattezza gli errori, gli eventuali reati e le responsabilità, ma resta soprattutto da rivedere il problema delle fondazioni bancarie in genere e di quella di Siena in particolare.
Nel frattempo il tema Monte dei Paschi ha deflagrato come una bomba nella campagna elettorale; la destra con i suoi giornali e le sue televisioni lo usa come una clava contro i “comunisti” del Pd e anche Monti lo utilizza con molta spregiudicatezza; il Pd lo ritorce con altrettanta energia; i populisti se ne avvalgono come uno strumento contundente.
Tutto ciò è sotto gli occhi della pubblica opinione e c’è poco da aggiungere salvo che dietro questo assordante clamore alcuni punti non sono stati ancora chiariti. Si tratta di punti essenziali ed è su di essi che vogliamo oggi concentrare l’attenzione.

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La prima questione riguarda gli effetti che lo scandalo Monte dei Paschi determina nell’opinione pubblica internazionale. C’è molta perplessità tra gli osservatori qualificati, banchieri, operatori, giornali qualificati. Si riteneva che il sistema bancario italiano fosse il più solido e quello che meglio aveva tenuto nelle agitate acque della crisi iniziata quattro anni fa col fallimento della Lehman Brothers, ma la vicenda Monte dei Paschi – gonfiata oltre la realtà dalle zuffe elettorali – ha intaccato la fiducia che ci era stata accordata. Speriamo che le dichiarazioni della Banca d’Italia e la pulizia in corso da parte dei nuovi dirigenti di Monte dei Paschi dissipino le perplessità degli investitori esteri e dei mercati. Lo vedremo domani. Certo non ha ben disposto il fatto che proprio quel Mussari che è all’origine dello scandalo senese sia stato eletto un anno fa alla guida dell’Associazione delle Banche italiane (Abi) dopo esser stato estromesso dalla presidenza di Monte dei Paschi. I banchieri che lo hanno eletto non sapevano nulla di quanto era accaduto a Siena? Erano ciechi e sordi oppure non davano gran peso a così gravi errori e agli eventuali reati che ne sarebbero conseguiti?

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La seconda questione che va chiarita riguarda la fondazione che controlla il Monte dei Paschi. Unica tra tutte le fondazioni italiane essa nomina la quasi totalità del consiglio d’amministrazione della banca. E qui bisogna fare un passo indietro. Sulle fondazioni bancarie ci sono state due leggi, una fatta da Giuliano Amato nel 1990 e l’altra da Ciampi quando era ministro dell’Economia nel governo Prodi. Poi, nel 2003, una sentenza della Corte Costituzionale. Il tema principale delle leggi e della sentenza riguardava i compiti e i poteri delle fondazioni e l’assetto definitivo della proprietà delle banche. Ciampi mirava alla privatizzazione; nella sua visione le fondazioni rappresentavano un ponte in attesa che il mercato registrasse un interesse ad intervenire. Nel frattempo le fondazioni avrebbero dovuto rappresentare la presenza territoriale e professionale nella dirigenza delle banche, lasciando adeguato spazio ad altri azionisti privati.

Nel 2001 tuttavia questo criterio fu modificato da Tremonti, appena arrivato alla guida del Tesoro. Nella legge finanziaria di quell’anno fu stabilito che gli Enti locali avevano diritto di nominare tutti i dirigenti delle fondazioni. Si trattava di fatto di una pubblicizzazione delle fondazioni e quindi delle banche da esse controllate, del tutto opposto ai criteri di privatizzazione della legge Ciampi. La reazione degli interessati fu il ricorso alla Consulta la quale bocciò le disposizioni di Tremonti ripristinando i criteri della legge Ciampi. Ma perché Tremonti aveva scelto un criterio che dava tutto il potere agli Enti locali? Probabilmente glielo aveva chiesto la Lega ma su questo tema il “superministro” è sempre stato coerente: il potere pubblico deve essere determinante nella politica bancaria e quindi nella proprietà degli istituti e nelle fondazioni. Per questo rifiutò sempre le richieste della Banca d’Italia (allora presieduta da Mario Draghi) di poter revocare gli amministratori delle banche quando si dimostrassero responsabili di illegalità particolarmente gravi. Si oppose altresì ad aumentare i poteri di vigilanza dell’Istituto centrale. Infine creò i Tremonti-bond, cioè prestiti alle banche che avessero bisogno di liquidità, convertibili in azioni e quindi all’ingresso diretto dello Stato.Tremonti, non a caso, è oggi uno dei protagonisti nella strumentalizzazione di questo scandalo. Il suo obiettivo è evidente e risulta dalle sue più recenti dichiarazioni: vuole coinvolgere Draghi nelle vicende Monte dei Paschi. In che modo?

La vicenda ebbe inizio con l’acquisto dell’Antonveneta da parte di Mussari (Monte dei Paschi). L’operazione doveva essere autorizzata dalla Banca d’Italia non tanto nel merito quanto nella capacità patrimoniale dell’istituto richiedente. Era l’autunno del 2007, non era ancora scoppiata la bolla immobiliare americana, i mercati erano tranquilli, Monte dei Paschi era la terza banca italiana ed aveva tutti i requisiti per estendere la sua influenza, ma Draghi per maggior prudenza condizionò l’autorizzazione ad un aumento di capitale, Mussari accettò, Monte dei Paschi fece l’aumento di capitale sottoscritto in massima parte dalla fondazione e l’operazione fu fatta. Il prezzo era alto? Certo, ma Mussari si aspettava che Antonveneta fruttasse un profitto annuo di 700 milioni con il quale in breve tempo Monte Paschi sarebbe rientrata da un investimento di quelle dimensioni. Comunque non spettava alla Banca d’Italia dare opinioni e tantomeno prescrizioni sul prezzo. Avanzo a questo punto una mia personale opinione: Tremonti ha un conto in sospeso con Draghi; il suo obiettivo oggi è di coinvolgerlo nella vicenda Monte dei Paschi. Farà il possibile per realizzare quell’obiettivo che è non solo infondato ma recherebbe gravissimo danno all’Europa e all’Italia. Spero di sbagliarmi e sarò lieto di poterlo constatare.

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Si pone tuttavia una terza e nient’affatto marginale questione che riguarda Mario Monti. Nelle campagne elettorali bisognerebbe evitare, come nella boxe, i colpi sotto la cintura, tanto più tra forze politiche destinate ad allearsi in un prossimo futuro. Ma Monti di colpi sotto la cintura ha cominciato a darne: giovedì scorso ha detto che la vicenda Monte dei Paschi riguarda direttamente il Pd. Contemporaneamente ha detto che il suo “movimento” farebbe volentieri alleanza post-elettorale con il Pdl purché epurato dalla presenza di Berlusconi. È evidente l’obiettivo: scomporre e ricomporre la vecchia “strana maggioranza” da lui presieduta dal novembre del 2011 fino al febbraio 2013. Bersani sì ma senza Vendola; Alfano sì ma senza Berlusconi e Monti federatore di moderati e riformisti. La vicenda Monte dei Paschi, purché fatta montare come la panna, aiuta; quanto a Berlusconi, lui è disposto a tutto purché gli si dia un salvacondotto giudiziario ed economico. E chi glielo negherà? Monti no di certo, Casini meno ancora perché vuole la presidenza del Senato e poi, chissà…


In fondo a sinistra c’è sempre una banca
di Vittorio Feltri
(da “il Giornale”, 27 gennaio 2013)

Una volta si diceva: «Ammazza ammaz ­za è tutta una razza ». E ci si riferiva a certe banche,che sono ancora d’attua ­lità. Altre sono state ingiustamente di ­menticate.
Per esempio la Banca del Salento, guarda caso acquistata – proprio con l’Antonve ­neta – dal Monte dei Paschi di Siena per un prez ­zo astronomico rispetto al reale valore. Ma allora è un vizio? Sissignori, un viziaccio della sinistra italiana, leggi Partito democratico, nato sulle ce ­neri (o carboni ardenti) del Pci. Il Pd in questi giorni di campagna elettorale fa il «piangina », i suoi dirigenti – Pier Luigi Bersani in testa – si atteggiano a vittime di non si sa bene chi, forse di se stessi; probabilmente sono imba ­razzati e non sanno come uscire dall’angolo in cui si sono cacciati. Nessuno li accusa di essere i padroni del terzo istituto di credito nazionale (Mps), ma è un fatto che agiscono come se lo fos ­sero, in quanto la nomina del management spet ­ta loro tramite il partito dominante a Siena, dove i democratici fanno il bello e soprattutto il cattivo tempo, incontrastati.

È noto: chi detiene il monopolio politico co ­manda. Anche sulle banche. Cosicché nel 2003 – cito a memoria ­la Banca del Salento, in diffi ­coltà per vari motivi, i soliti, fu acquisita dal Mps con un’ope ­razione di salvataggio assai onerosa. Ma la cosa, essendo stata condotta in famiglia (la sinistra), suscitò sì scalpore, ma non troppo e non troppo a lungo. Nell’affare ebbe parte ­e questa è una mera curiosità ­un tale che salì agli onori della cronaca perché socio nautico di Massimo D’Alema: i due comprarono la famosa barca, anni più tardi ceduta. Un det ­taglio.

Chi volesse approfondire la questione della Banca del Sa ­lento graziosamente ritirata dal Monte dei Paschi, potreb ­be leggersi il libro di Alberto Statera, Fratelli d’Italia , e si fa ­rebbe due risate. L’autore del saggio, peraltro, non è uno sporco berlusconiano, bensì una penna di sinistra al servi ­zio della Repubblica . Morale della favola. C’è un preceden ­te alla schifezza emersa ora dai conti di Mps: ci riferiamo appunto alla follia di Antonve ­neta, «strappata » alla spagno ­la Santander per circa 10 mi ­liardi (nel 2007), tre mesi do ­po che questa l’aveva ingloba ­ta per quasi 7. Bel colpo: tre mi ­liardi, un miliardo al mese, non è robetta. Qualcuno so ­spetta sia girata qualche stec ­ca o steccona, ma finora nulla è stato accertato. Amen.

Poi c’è la storia dei derivati, titoli tossici, bellamente presi dal Mps per un totale di 900 mi ­lioni di euro, così, tanto per as ­sicurarsi una figura di palta, dato che anche gli sprovvedu ­ti nel 2009 sapevano trattarsi di carta straccia. Che c’entra il Pd in tutto questo? L’abbiamo detto e lo ripetiamo: l’istituto senese è rosso per definizio ­ne, culo e camicia coi progres ­sisti. Un legame non di affetto, non di simpatia, ma di palan ­che: nella banca non si muove foglia se non per ordine del partito.

Se il concetto è chiaro, si comprende ciò che è accadu ­to e persino quello che non è accaduto e sarebbe dovuto ac ­cadere. Per esempio qualche visita negli uffici di Siena dei si ­gnori addetti ai controlli. Che avrebbero trovato materiale interessante per aprire indagi ­ni serie. Invece, in Italia la Guardia di finanza è rigorosa e implacabile nelle verifiche contabili eseguite presso arti ­giani e piccole imprese, che magari fregano 1.000 euro, ma trascura le banche che – a quanto pare- mandano al ma ­cero (si fa per dire) miliardi e miliardi. Poi c’è chi se la pren ­de con l’antipolitica. Ma anda ­te all’inferno, non al seggio a votare Pd.


Mps, storia di uno scandalo
di Gianluca Paolucci
(da “La Stampa”, 27 gennaio 2013)

Due filoni nel mirino dei magistrati: l’acquisizione di Antonveneta e le operazioni sui titoli tossici della banca. L’ipotesi di tangenti e le indagini sui manager dell’istituto. Falso in bilancio e ostacolo alla vigilanza i reati ipotizzati

L’acquisizione della banca Antonveneta è, secondo molti analisti, il «peccato originale » di tutta questa storia che ha portato a Giuseppe Mussari a dimettersi dalla presidenza dell’Abi, travolto dallo scandalo dei «titoli tossici » sottoscritti dalla banca senese quando lui era il numero uno di Mps.

L’operazione Antonveneta
Il 7 novembre 2007 Montepaschi annuncia l’acquisizione di Antonveneta dagli spagnoli del Santander. E’ una mossa storica per la banca senese, che prende l’istituto padovano in una fase in cui i suoi principali concorrenti cercavano aggregazioni. Un anno prima era nata Intesa Sanpaolo, Unicredit perseguiva la sua strategia di crescita all’estero e dalle ceneri della PopLodi di Fiorani era nato il Banco Popolare. La banca padovana era finita nel frattempo al Santander, che aveva preso parte allo «spezzatino » di Abn Amro, all’epoca controllante di Antonveneta. Siena paga circa 10 miliardi, un prezzo giudicato troppo elevato. E’ il prezzo per uscire dall’isolamento, si dirà allora. Solo più tardi emergerà che l’acquisizione venne decisa in fretta, senza una vera due diligence e a fronte di un valore reale, si dirà, molto inferiore.

Il vincolo del controllo
Per capire come si arriva da Antonveneta a oggi, è necessario spiegare alcune peculiarità della struttura di controllo della banca senese. La maggioranza delle azioni (nel 2007 il 56%) delle azioni è in mano alla Fondazione Mps. Il consiglio della Fondazione, 16 membri, è nominato da Comune (8), Provincia (5), Regione (1), Università di Siena (1) e Arcidiocesi (1). Dalla sua istituzione nel 1995, il mandato «politico » è chiaro: mantenere il controllo in mani senesi.

L’intreccio con la politica
Tra banca e Fondazione esisteva una rigida spartizione politica delle poltrone. Le poltrone della Fondazione di nomina politica erano spartite secondo criteri di «rappresentanza ». La maggioranza, Pds poi Ds, lasciava una quota alle forze di minoranza, compresa Forza Italia, tenendo per sé la presidenza. Mentre la presidenza della banca era tradizionale appannaggio delle forze cattoliche. Giuseppe Mussari, allora giovane avvocato di area Pci-Pds-Ds, arriva alla presidenza della Fondazione nel 2001 in virtù di questa regola. Con il passaggio di Mussari al vertice della banca, nel 2006, alla Fondazione arriva il cattolico (ex Dc poi Margherita) Gabriello Mancini.

Casse vuote
Il pagamento di Antonveneta viene finanziato con un aumento di capitale da 6 miliardi euro, al quale si aggiunge l’operazione Fresh, un’emissione di titoli subordinati che più avanti torneranno in questa storia. La Fondazione, fedele al vincolo del mantenimento del controllo, spende 3,4 miliardi di euro. Nel frattempo però è scoppiata la bolla dei subprime. Le quotazioni dei titoli bancari vanno a picco in tutto il mondo. Il titolo Mps, che viaggiava intorno ai 4 euro a novembre 2007, nel marzo 2008 scende sotto i 2 euro. A questo punto, le casse della Fondazione sono vuote, ma la situazione è ancora sotto controllo.

La finanza allegra
Nella prima metà degli anni 2000 vengono realizzate una serie di operazioni di finanza strutturata, allora di gran moda. Ovvero, titoli, come obbligazioni, il cui valore è legato all’andamento di altri titoli detti sottostante, che posso essere altre obbligazioni, pronti contro termine, titoli su mutui come nel caso dei subprime e altro, in un grado di sempre maggiore complessità. Si tratta, tra le altre delle famigerate Santorini, Alexandria e Nota Italia. Il crollo di Lehman fa tremare le Borse e rende questi prodotti «tossici », tali da maturare forti perdite. Si pone l’esigenza di ristrutturarli. Trattandosi di veicoli spesso fuori bilancio, la ristrutturazione ha consentito di posticipare in avanti le perdite, facendo risultare in bilancio un avanzo, come nel caso di Santorini. Ma questo si capirà solo dopo.

La crisi e il crollo
La situazione precipita nel 2011. Nella crisi generale della finanza, Mps non se la passa bene. Ricorre ai Tremonti-bond per rafforzare il suo capitale, 1,9 miliardi. Nella prima metà dell’anno lancia un aumento di capitale da 2,4 miliardi. Sarebbero dovuti servire a rimborsare i Monti-bond. Condizionale d’obbligo, perché poi scoppia la crisi sul debito italiano. Il portafoglio della banca è pieno di titoli di Stato e la banca affonda. La Fondazione partecipa all’aumento e per farlo, fatto senza precedenti, s’indebita. Bankitalia, intanto, già da fine 2010 segnala una serie di pesanti anomalie nella gestione dell’area finanza della banca. Tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012 viene mandato a casa il direttore generale, Antonio Vigni. Nella primavera il rinnovo del cda lascerà fuori Mussari, che però nel frattempo si è insediato all’Abi, l’associazione della banche italiane, dove verrà riconfermato nel giugno 2012.

Le inchieste
Sono due, distinte ma intrecciate. La prima riguarda l’operazione di Antonveneta e vedrebbe indagati i vertici della passata gestione. In questo filone, gli inquirenti sarebbero alla ricerca di pagamenti «anomali », realizzati dalla banca o da intermediari, tali da far presagire il pagamento di mazzette. Al momento, peraltro, non risulterebbero importi miliardari, come ipotizzato da fonti di stampa. L’altro filone riguarda i derivati e gli altri prodotti strutturati fuori bilancio. Le ipotesi sono ostacolo alla vigilanza – per aver occultato a Bankitalia l’onerosità delle operazioni – e falso in bilancio e anche in questo filone sarebbero indagate una serie di figure di spicco degli ex vertici dell’istituto. Il legame è rappresentato dal Fresh del 2008. Se venisse provato che le operazioni sono servite a mantenere un piccolo utile tale da pagare la cedola sul Fresh, scatterebbero nuove accuse per i responsabili.

I correntisti
L’esposizione mediatica della vicenda, a un mese dalle elezioni, ha creato apprensione tra i correntisti della banca. In realtà, secondo quanto assicurato da Profumo e Viola, i 3,9 miliardi di Monti-bond dovrebbero essere sufficienti a coprire le eventuali perdite. L’operazione di pulizia dovrebbe anche eliminare il rischio di ulteriori «sorprese ». Cruciale, nei prossimi giorni, sarà il mantenimento della linea di trasparenza inaugurata di recente per evitare fughe di notizie tali da creare altre turbative del mercato con conseguente fuga degli investitori dal titolo.


MontePaschi, Bersani all’attacco: “Se ci attaccano li sbraniamo”
di Ugo Magri
(da “La Stampa”, 27 gennaio 2013)

ROMA. Lo scandalo MontePaschi fornisce munizioni alla destra, fa un gran comodo a Pdl e Lega per spostare l’attenzione dalle magagne proprie (nuova inchiesta sul Campidoglio, Formigoni nel mirino) a quelle degli avversari. Per cui nessuna sorpresa che Maroni e Berlusconi medesimo tentino di cavalcare la polemica . Monti no, dopo la legnata a Bersani dell’altro ieri («Il Pd è coinvolto ») lui si è defilato un tantino. L’unico a pronunciarsi da quella parte è il ministro Riccardi, che invita a «fare luce sulla connessione tra banche e politica », tema in auge fin dallo scandalo della Banca romana sul declinare dell’Ottocento. Prudenza non sufficiente a dirottare le bordate di Alfano, che chiama il Prof a «giustificare la barca di soldi » disposti per il salvataggio di Mps, «l’equivalente dell’Imu ». Né il ritrovato riserbo del premier lo pone al riparo dall’ira Pd, dove se la sono legata al dito perché nulla fa più male della bastonata nel momento del bisogno. Ricambia velenoso Bersani: «Chi si è opposto al ricambio dentro MontePaschi ora è candidato con Monti », vale a dire l’ex esponente senese della Margherita, Monaci. Forse all’insaputa del premier, ipotizza ironico D’Alema. Tabacci, alleato di Bersani, va a fondo della questione: «La lista Monti dimostra di essere stata costruita cercando di includere i poteri che contano », e in questo caso non si tratta certo di un complimento.

Tace Monti, dunque. In compenso dice la sua il Cavaliere. Che sulle prime era sembrato prudente al punto da far ipotizzare il solito conflitto d’interesse tra Berlusconi politico e Berlusconi imprenditore: l’uno interessato a picchiare duro sul Pd, l’altro appeso ai fidi Mps, senza i quali le aziende del Biscione sarebbero in affanno. Ecco invece Silvio prendere posizione all’edizione serale del Tg1. Senza ferire la più antica banca del mondo, anzi invocando «soluzioni concrete per mettere al riparo dalle conseguenze i risparmiatori », forse anche se stesso. Ma con un affondo contro il Pd che marca, almeno sul piano propagandistico, un punticino a suo favore. Argomenta Berlusconi dai teleschermi: «Se la sinistra non è in grado di gestire una banca, non può certo gestire il Paese… ». A differenza di Ingroia, della Santanché, di Gasparri e, per certi aspetti del montiano Della Vedova, Berlusconi non evoca ipotetiche mazzette, non ne fa certo una questione morale, semmai di capacità imprenditoriali. Come amministratori, sorride soddisfatto l’uomo di Arcore, questi signori della sinistra non valgono granché…

Bersani se l’aspettava. Tanto che già nel pomeriggio aveva lanciato un altolà: «Destra e Lega non si azzardino a insinuare che su Mps siamo stati scorretti, perché li-sbra-nia-mo ». Proprio così, sillabando per rimarcare meglio. Adesso quel «li-sbra-nia-mo » impazza su Twitter, perché pure di queste battute «virali » è fatta la nuova campagna elettorale, o perlomeno quella che appassiona chi passa le sua giornate sui «social network ». Se dipendesse da lui, Bersani darebbe poteri commissariali al presidente Viola e all’amministratore delegato Profumo, in modo che possano usare la ramazza. Tremonti, l’ex-ministro, gli affibbia dell’incompetente, «esiste il commissariamento ma non esistono per il diritto i poteri commissariali ». D’Alema, invece, giudica inutile agitarsi troppo. «Non credo che questa storia ci nuocerà dal punto di vista elettorale », pronostica l’ex-premier, in quanto «ormai l’opinione pubblica è mitridatizzata, è abituata a scandali che nascono e che muoiono… ». Diagnosi cinica e tremenda, quella di D’Alema, il quale la pone così: «In questa campagna elettorale ci sono partiti che non hanno nulla da dire e si gettano su questa storia come avvoltoi ». Da destra, pesanti ironie contro «Baffino ». Le riassume tutte in una battuta Cicchitto: «D’Alema e compagni sono vissuti sugli scandali altrui; ma quando riguardano loro, diventano di colpo cose che lasciano il tempo che trovano ».


Tangente Antonveneta, ecco i bonifici sospetti
di Paolo Bracalini e Gian Marco Chiocci
(da “il Giornale”, 27 gennaio 2013)

Ma quanto è costata veramente l’operazione Antonveneta al Monte dei Paschi? Il sovrapprezzo potrebbe essere ancora più alto di quello noto, già esorbitante visto che l’istituto senese ha sborsato, a favore di Banco Santander, 10,3 miliardi di euro per una banca (o meglio, per una parte, la meno remunerativa) che al momento dell’acquisto possedeva, a detta dell’ex presidente del collegio sindacale, professor Tommaso Di Tanno, «un valore patrimoniale di 2,3 miliardi » (sull’operazione firmata dall’ex presidente Mussari indaga la Procura di Siena). Un alto dirigente del Monte dei Paschi, sotto anonimato, rivela l’esistenza di altri pagamenti cash miliardari. Identiche informazioni sono poi comparse su un blog cittadino molto noto, l’Eretico di Siena, oggetto di preoccupate analisi da parte di piccoli azionisti e associazioni di soci intervenuti nell’infuocata assemblea straordinaria di venerdì coi nuovi vertici di Mps, Profumo e Viola.

IL GIALLO DEGLI OTTO FLUSSI
Il dettaglio dei bonifici partiti da Mps verso l’estero racconta di altri sette e rotti miliardi di euro usciti dalla cassaforte della banca tra il maggio 2008, quindi alcuni mesi dopo la chiusura «dell’affare » (per Santander…) Antonveneta, e l’aprile 2009. Si parla di «otto bonifici effettuati tra il 30 maggio 2008 e il 30 aprile 2009 di cui cinque diretti al Banco Santander (parte venditrice di Antonveneta, ndr) per un totale di euro 5.116.739.652,78. Altri due bonifici diretti alla Abbey National Treasury Service PLC di Londra (collegata al Banco Santander) per un totale di euro 2.623.368.402,78 e infine un bonifico a favore della Abn Amro Bank di Amsterdam (principale azionista di Antonveneta) a fronte della rivitalizzazione da questa effettuata a favore di Antonveneta ».
Se sommassimo queste uscite al costo messo in bilancio per Antonveneta, arriveremmo alla cifra monstre di quasi 18 miliardi (già indicata da alcuni retroscena dell’Espresso), per una banca che ne valeva molti ma molti di meno. Ma a cosa si riferiscono quei bonifici?
Un alto funzionario del Monte ci spiega, sempre sotto anonimato, che quei sette miliardi «sono al 99% il rimborso di finanziamenti presi in precedenza da Santander e da Abn Amro anziché dall’interbancario ». Gli azionisti hanno chiesto chiarimenti a Giuseppe Mussari, nell’ultima assemblea da lui presieduta, ma la risposta è stata di andarsi a leggere il bilancio, dove quelle cifre sono riportate, anche se questo non chiarisce granché. E anche la Procura ha messo a fuoco quei bonifici. Anche perché lo scorso giugno l’ex numero uno di Mps è stato interrogato e ha riempito i verbali di «non so, non ricordo ».

LE MAIL SBIANCHETTATE
Anche perché di misteri, nella vicenda Antonveneta, non ne mancano affatto. Non solo bonifici e miliardi usciti e magari rientrati con lo scudo fiscale, ma anche mail sparite dal computer personale dell’ex presidente di Mps Mussari, quelle tra il giugno e l’ottobre 2007, cioè proprio il periodo caldo che ha preceduto l’acquisto di Antonveneta, perfezionato nel novembre di quell’anno. Nell’informativa della Gdf contenuta nell’inchiesta sull’aeroporto di Ampugnano, dove è ancora indagato Mussari, si segnala che «durante la consultazione della copia certificata su hard disk esterno in cui sono stati inseriti tutti i dati presenti nel server di posta elettronica e del computer sequestrato nel corso della perquisizione a carico di Giuseppe Mussari presso la sede del Monte dei Paschi di Siena, emergevano dei dubbi circa il fatto che siano state rimosse volontariamente e-mail nell’arco temporale che va dal 29.06.2007 al 13.10.2007 ».

«L’INTESA » DELL’ADVISOR SPUNTA BENESSIA
Un altro mistero nell’intricato caso dell’Antonveneta. Ma chi era l’advisor legale di Mps in quella spericolata operazione? Angelo Benessia, dominus dello studio Benessia, Maccagno e Associati di Torino. Un nome che conta nel mondo della finanza, visto che Angelo Benassia è il predecessore di Sergio Chiamparino (ex sindaco del Pd di Torino) alla presidenza di un’altra pesante fondazione bancaria, la Compagnia di San Paolo (azionista di Intesa San Paolo). E Benessia si è sempre mosso tra Torino e Siena, seguendo entrambi i due colossi bancari.
Una coincidenza che alimenta le fanta-teorie su disegni finanziari occulti e incroci di poteri che molti senesi, scossi dallo scandalo Mps più dei cavalli al Palio, stanno costruendo in questi giorni sotto la torre del Mangia. E che trovano almeno una conferma giudiziaria. «Lo studio Benassia – ci conferma lo stesso avvocato – è stato perquisito dalla Gdf nell’ambito dell’inchiesta su Antonveneta in quanto advisor, come altri studi legali che si sono occupati della vicenda. Abbiamo fornito il materiale che cercavano, siamo assolutamente sereni ».


L’ex impiegato Mps che negli anni ‘90…
di Dimitri Buffa
(da “L’Opinione”, 27 gennaio 2013)

I problemi del Montepaschi cominciarono con la pessima legge Amato che privatizzava e accorpava le banche di interesse nazionale.
C’era qualcuno che lo ha sempre saputo, sostenuto e urlato a tutti gli azionisti, qualcuno che si chiamava Mauro Aurigi. E che nei propri indimenticabili interventi in assemblea, l’ultimo è dell’ottobre 2012 ed è riportato sul sito del Movimento 5 stelle di Siena, esordiva sempre così: «Mi chiamo Mauro Aurigi. Ho passato 42 dei miei 74 anni al Monte, tra il 1957 e il 1999. Sono soprattutto gli anni della costruzione del Grande Monte banca pubblica, ricca, stimata e potente che nel recentissimo passato tutti abbiamo conosciuto. Una costruzione corale senza geni d’impresa o di finanza e soprattutto una costruzione silenziosa, schiva dei clamori che invece l’hanno subito caratterizzata non appena privatizzata. La piccola città di Siena, isolata fisicamente e culturalmente da tutto il mondo che conta, con le sue sole forze aveva compiuto un’impresa che probabilmente non ha eguali: la sua banca era una delle più grandi d’Italia, la più solida tra le grandi banche europee, quella con la massima valutazione da parte delle agenzie anglo-sassoni. Di quell’incredibile cinquantennio postbellico io sono stato testimone e, oserei dire, modestissimo protagonista, anche se protagonista non è il termine giusto, perché in mezzo millennio di protagonisti il Monte non ne aveva mai avuti fino a Mussari. E s’è visto come è andata a finire ».

La teoria di Aurigi è semplice: la privatizzazione ha consegnato una banca che prima era dei cittadini senesi alla fondazione che è sempre stata controllata dal Pds, poi dai Ds e infine dal Pd. Quando nel 2003 scoppiò la prima grana, quella della perdita di tutta la liquidità che prima la banca aveva in eccesso, oltre 2500 miliardi, a causa del pessimo affare della compravendita della Banca del Salento, la famigerata Banca 121, proprio uomini vicini ad Aurigi e al suo movimento cittadino tappezzarono Siena con volantini di questo tenore: “D’Alema a Siena è persona non grata”. Uno smacco, quasi un oltraggio che fece parlare, anzi sparlare, tutti i bravi cittadini senesi per mesi.

Da abile funzionario bancario, Aurigi aveva subito capito chi fosse Mussari, che veniva considerato l’artefice della distruzione della banca come patrimonio dei senesi. Ed era il bersaglio prediletto di tutte le intemerate che faceva nelle assemblee degli azionisti. Una sorta di “proto Grillo” locale. Che avevano tentato di far tacere in tutte le maniere. Anche dandogli del fascista, che in una città rossa come quella senese è sempre un insulto che fa impressione. Da qualche tempo però la città famosa per la battaglia di Montaperti e per il Palio si è dovuta ricredere: Aurigi aveva proprio ragione e le sue invettive contro i sindaci senesi che si sono succeduti dalla fine degli anni ’90 a oggi adesso le persone se le vanno a ristudiare su internet o sulle vecchie collezioni del giornale locale, il Cittadino. Come la lettura ragionata del bilancio 2003 con la quale per la prima volta denunciò la possibilità di una vera e propria bancarotta. O “banca rossa fraudolenta”, per usare l’ottimo titolo del Giornale di ieri. Per anni l’establishment locale ha cercato di dipingere Aurigi come una sorta di “scemo del villaggio” o come un ex impiegato frustrato e rancoroso. Invece semplicemente aveva ragione. Sapeva che i dirigenti, che avevano già dissipato 2500 miliardi comprandosi una banca “sòla” come la 121, avrebbero finito per portare il Monte alla rovina. Allora in città gli davano tutti della Cassandra, sperando che lo fosse davvero. Oggi, troppo tardi, i senesi hanno aperto gli occhi. Anche perchè lui terminava tutti i propri interventi nelle assemblee del Mps dicendo che «alla fine questa situazione è colpa dei cittadini che non trovano la forza di ribellarsi ». Parole sante. Con il senno di poi.


Il ritorno di Dalemoni
di Marco Travaglio
(da “il Fatto Quotidiano”, 27 gennaio 2013)

Massimo D’Alema  ha molti difetti, ma non la mancanza di franchezza. Trattandosi del principale azionista politico del Pd e della segreteria Bersani, le sue parole vanno prese estremamente sul serio. L’altro ieri, presentando a Torino il suo ultimo libro dal titolo spericolato  Controcorrente, ha preannunciato le linee guida della prossima “riforma della giustizia” (anzi dei pm, in perfetta continuità col berlusconismo). Non una parola sulla durata di processi e prescrizioni, sulla necessità di ripristinare il falso in bilancio (tipo Mps), mandare in galera gli evasori, punire i rapporti dolosi con la mafia, l’autoriciclaggio e la corruzione sbaraccando la legge-fuffa Severino.

 

Ben altre sono le priorità dalemiane: eliminare “la confusione tra indipendenza della magistratura e difese corporative” che consente “a ogni sostituto procuratore di fare quel che vuole: questo è anarchismo distruttivo, altro che indipendenza. Bisognerà mettere mano a una riforma” puntando “sulla responsabilità dei capi degli uffici, perché se ogni pm fa come vuole non serve avere i capi”. È la fotocopia della “riforma epocale della giustizia” (cioè delle procure) annunciata due anni fa da B&Alfano e fortunatamente abortita. Il potere “diffuso” di ogni pm di aprire indagini su ogni notizia di reato è il naturale corollario dei principi costituzionali di indipendenza e autonomia di ogni singolo magistrato e di obbligatorietà dell’azione penale: ma è già stato duramente limitato dall’ordinamento giudiziario Castelli-Mastella, approvato dal centrosinistra con la complicità della destra nel 2007-2008. Quella controriforma – votata anche dall’allora ministro D’Alema, forse a sua insaputa – già aumenta a dismisura il potere dei capi delle procure a scapito dei sostituti, secondo il modello verticale degli anni ’50, quelli dei porti delle nebbie e delle sabbie, quando bastava controllare un pugno di capi per imbavagliare tutti i pm: infatti si indagava solo sui delitti dei poveracci e mai su quelli dei colletti bianchi.

Il programma minacciato da D’Alema è ancor più pericoloso se si pensa che il futuro ministro (“non mi dispiacerebbe far parte del governo, se qualcuno mi verrà a cercare”) stava parlando di  Ingroia, definito “quintessenza della peggiore cultura dell’estremismo e del moralismo basato sul ‘tanto peggio tanto meglio’”, entrato in politica “col nobile scopo di impedirci di avere la maggioranza al Senato per costringerci all’alleanza con Monti e poi gridare che siamo traditori”. Ora, a parte il fatto che il Pd con Monti è alleato da 15 mesi, non è stato Ingroia, ma  Bersani e Fassina  ad annunciare che il Pd governerà con Monti anche se avrà la maggioranza. Ed è stato  Violante  a chiedere sottobanco  al pericoloso estremista di ritirare le liste al Senato in cambio di 4-5 “senatori mascherati” nelle liste Pd. Ancor più preoccupante (almeno per gli elettori Pd) è il giudizio di D’Alema sul pm che ha fatto arrestare decine di mafiosi e condannare Dell’Utri e Contrada: sulla trattativa Stato-mafia Ingroia “ha usato il suo ruolo per processare la storia del nostro Paese”. Ecco: uomini dello Stato han trattato sotto banco con la mafia, consegnandole le chiavi della Seconda Repubblica, ma Ingroia  doveva voltarsi dall’altra parte  in barba alla Costituzione per non infangare “la storia del nostro Paese”. Come se a infangarla non fosse chi trattò con i boia di Cosa Nostra, ma chi l’ha scoperto. Segue l’accusa, anch’essa copiata da B., di aver “concluso l’inchiesta con una candidatura”.

Forse D’Alema confonde Ingroia con qualcun altro. Anni fa un pm di Bari,  Alberto Maritati, indagava su un politico illegalmente finanziato con 20 milioni di lire da un imprenditore malavitoso. L’accusa finì in prescrizione e il pm in Parlamento. Lo candidò lo stesso politico indagato e prescritto, che poi lo portò nel suo governo. Era un certo Massimo D’Alema.


Berlusconi dichiara che il fascismo ha anche fatto cose buone. Nascono polemiche; così precisa lo storico Giordano Bruno Guerri, video.


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Bart