«Quanti Btp abbiamo in portafoglio? ». Quei consigli del Monte ad alta tensione27 Gennaio 2013 di Fabrizio Massaro SIENA – A inizio settembre 2011, travolta dalla crisi del debito sovrano, Mps appare una banca in affanno: sempre meno liquidità, sempre più perdite causate dall’impazzimento dello spread e difficoltà crescenti a gestire la massa enorme di Btp in pancia. È in quei giorni che i consiglieri di amministrazione prendono coscienza che devono intervenire. Ma per farlo, prima devono capire che cosa succede davvero nei portafogli della banca, più di quanto non sapessero (o avrebbero dovuto sapere) fino a quel momento. E a poco a poco capiscono che «non è più consentito compensare eventuali inefficienze… con i rischi finanziari », come disse il 24 novembre 2011 il presidente Giuseppe Mussari riassumendo un ragionamento del consigliere Frederic De Courtois, numero uno della francese Axa, socio al 3,7 per cento. I verbali del consiglio da settembre a dicembre 2011 – quando come segnale per il mercato il direttore generale Antonio Vigni lascerà la banca in anticipo rispetto all’aprile 2012 (quando lasciò Mussari) – mostrano le preoccupazioni per l’impossibilità di gestire un meccanismo intricatissimo di prestiti e titoli dati a garanzia degli stessi finanziamenti, nel quale il Montepaschi sembra avvitarsi. E poi c’è il timore per il monito dell’Authority europea (Eba), che a fine 2011 impone una ricapitalizzazione da 3 miliardi per coprire le perdite legate alle svalutazioni dei Btp in portafoglio. Dei derivati «Alexandria », «Santorini », «Nota Italia » e delle altre operazioni oggi sotto la lente della procura di Siena ufficialmente non c’è menzione nei verbali di quel periodo. Ma dalle domande si intuisce il sospetto dei consiglieri che qualcosa non girasse nel verso giusto. «La situazione non è ulteriormente sostenibile », è la reazione di Caltagirone, «sia come rischiosità che come conseguenze di conto economico, si devono prendere opportuni provvedimenti per alleggerire queste posizioni ». Mussari prova a rabbonirlo: definisce «ragionevole » la posizione di Caltagirone e propone di non rinnovare i bond che vanno a scadenza o di venderli se il valore si allineasse «a quello facciale ». Il 24 novembre sono ancora liquidità e investimenti al centro del dibattito. De Courtois torna sul punto: «La dimensione e la composizione del portafoglio hanno un impatto negativo sulla percezione del mercato riguardo alla Banca, con riflessi sul corso del titolo. Serve un’esposizione analitica titolo per titolo ». La panna montata e lo scandalo di Siena LA CAMPAGNA elettorale cui stiamo assistendo, in attesa di esercitare il nostro diritto al voto come cittadini attivi, è una delle più terremotate della storia repubblicana: populismi di varia natura che hanno come unico obiettivo l’abbattimento totale delle istituzioni; agende futuribili che si prefiggono traguardi di crescita ambiziosi, ma sorvolano sui mezzi con cui recuperare le necessarie risorse; resurrezioni di personaggi che sembravano ormai politicamente spenti e che si ripropongono alla ribalta confidando nella corta memoria degli italiani; una legge elettorale che “porcata” fu chiamata dal suo autore e “porcata” rimane. Ma come se tutto ciò non bastasse, a turbare ulteriormente il clima elettorale scoppia lo scandalo Monte dei Paschi e diventa inevitabilmente dominante in una scena già così movimentata. Non starò a ripercorrerne la storia, da una settimana è al centro dell’attenzione ed è stata raccontata e variamente commentata per quanto finora era possibile; ma non tutti i fatti sono noti e la Procura di Siena sta indagando e salvaguarda scrupolosamente il segreto istruttorio su una materia così incandescente. I poteri di vigilanza fecero quanto era in loro potere scontrandosi con i suddetti mascalzoni i quali avevano nascosto i documenti compromettenti per rendere più difficile l’accertamento della verità. **** **** Nel 2001 tuttavia questo criterio fu modificato da Tremonti, appena arrivato alla guida del Tesoro. Nella legge finanziaria di quell’anno fu stabilito che gli Enti locali avevano diritto di nominare tutti i dirigenti delle fondazioni. Si trattava di fatto di una pubblicizzazione delle fondazioni e quindi delle banche da esse controllate, del tutto opposto ai criteri di privatizzazione della legge Ciampi. La reazione degli interessati fu il ricorso alla Consulta la quale bocciò le disposizioni di Tremonti ripristinando i criteri della legge Ciampi. Ma perché Tremonti aveva scelto un criterio che dava tutto il potere agli Enti locali? Probabilmente glielo aveva chiesto la Lega ma su questo tema il “superministro” è sempre stato coerente: il potere pubblico deve essere determinante nella politica bancaria e quindi nella proprietà degli istituti e nelle fondazioni. Per questo rifiutò sempre le richieste della Banca d’Italia (allora presieduta da Mario Draghi) di poter revocare gli amministratori delle banche quando si dimostrassero responsabili di illegalità particolarmente gravi. Si oppose altresì ad aumentare i poteri di vigilanza dell’Istituto centrale. Infine creò i Tremonti-bond, cioè prestiti alle banche che avessero bisogno di liquidità, convertibili in azioni e quindi all’ingresso diretto dello Stato.Tremonti, non a caso, è oggi uno dei protagonisti nella strumentalizzazione di questo scandalo. Il suo obiettivo è evidente e risulta dalle sue più recenti dichiarazioni: vuole coinvolgere Draghi nelle vicende Monte dei Paschi. In che modo? La vicenda ebbe inizio con l’acquisto dell’Antonveneta da parte di Mussari (Monte dei Paschi). L’operazione doveva essere autorizzata dalla Banca d’Italia non tanto nel merito quanto nella capacità patrimoniale dell’istituto richiedente. Era l’autunno del 2007, non era ancora scoppiata la bolla immobiliare americana, i mercati erano tranquilli, Monte dei Paschi era la terza banca italiana ed aveva tutti i requisiti per estendere la sua influenza, ma Draghi per maggior prudenza condizionò l’autorizzazione ad un aumento di capitale, Mussari accettò, Monte dei Paschi fece l’aumento di capitale sottoscritto in massima parte dalla fondazione e l’operazione fu fatta. Il prezzo era alto? Certo, ma Mussari si aspettava che Antonveneta fruttasse un profitto annuo di 700 milioni con il quale in breve tempo Monte Paschi sarebbe rientrata da un investimento di quelle dimensioni. Comunque non spettava alla Banca d’Italia dare opinioni e tantomeno prescrizioni sul prezzo. Avanzo a questo punto una mia personale opinione: Tremonti ha un conto in sospeso con Draghi; il suo obiettivo oggi è di coinvolgerlo nella vicenda Monte dei Paschi. Farà il possibile per realizzare quell’obiettivo che è non solo infondato ma recherebbe gravissimo danno all’Europa e all’Italia. Spero di sbagliarmi e sarò lieto di poterlo constatare. **** In fondo a sinistra c’è sempre una banca Una volta si diceva: «Ammazza ammaz za è tutta una razza ». E ci si riferiva a certe banche,che sono ancora d’attua lità. Altre sono state ingiustamente di menticate. È noto: chi detiene il monopolio politico co manda. Anche sulle banche. Cosicché nel 2003 – cito a memoria la Banca del Salento, in diffi coltà per vari motivi, i soliti, fu acquisita dal Mps con un’ope razione di salvataggio assai onerosa. Ma la cosa, essendo stata condotta in famiglia (la sinistra), suscitò sì scalpore, ma non troppo e non troppo a lungo. Nell’affare ebbe parte e questa è una mera curiosità un tale che salì agli onori della cronaca perché socio nautico di Massimo D’Alema: i due comprarono la famosa barca, anni più tardi ceduta. Un det taglio. Chi volesse approfondire la questione della Banca del Sa lento graziosamente ritirata dal Monte dei Paschi, potreb be leggersi il libro di Alberto Statera, Fratelli d’Italia , e si fa rebbe due risate. L’autore del saggio, peraltro, non è uno sporco berlusconiano, bensì una penna di sinistra al servi zio della Repubblica . Morale della favola. C’è un preceden te alla schifezza emersa ora dai conti di Mps: ci riferiamo appunto alla follia di Antonve neta, «strappata » alla spagno la Santander per circa 10 mi liardi (nel 2007), tre mesi do po che questa l’aveva ingloba ta per quasi 7. Bel colpo: tre mi liardi, un miliardo al mese, non è robetta. Qualcuno so spetta sia girata qualche stec ca o steccona, ma finora nulla è stato accertato. Amen. Poi c’è la storia dei derivati, titoli tossici, bellamente presi dal Mps per un totale di 900 mi lioni di euro, così, tanto per as sicurarsi una figura di palta, dato che anche gli sprovvedu ti nel 2009 sapevano trattarsi di carta straccia. Che c’entra il Pd in tutto questo? L’abbiamo detto e lo ripetiamo: l’istituto senese è rosso per definizio ne, culo e camicia coi progres sisti. Un legame non di affetto, non di simpatia, ma di palan che: nella banca non si muove foglia se non per ordine del partito. Se il concetto è chiaro, si comprende ciò che è accadu to e persino quello che non è accaduto e sarebbe dovuto ac cadere. Per esempio qualche visita negli uffici di Siena dei si gnori addetti ai controlli. Che avrebbero trovato materiale interessante per aprire indagi ni serie. Invece, in Italia la Guardia di finanza è rigorosa e implacabile nelle verifiche contabili eseguite presso arti giani e piccole imprese, che magari fregano 1.000 euro, ma trascura le banche che – a quanto pare- mandano al ma cero (si fa per dire) miliardi e miliardi. Poi c’è chi se la pren de con l’antipolitica. Ma anda te all’inferno, non al seggio a votare Pd. Mps, storia di uno scandalo Due filoni nel mirino dei magistrati: l’acquisizione di Antonveneta e le operazioni sui titoli tossici della banca. L’ipotesi di tangenti e le indagini sui manager dell’istituto. Falso in bilancio e ostacolo alla vigilanza i reati ipotizzati L’acquisizione della banca Antonveneta è, secondo molti analisti, il «peccato originale » di tutta questa storia che ha portato a Giuseppe Mussari a dimettersi dalla presidenza dell’Abi, travolto dallo scandalo dei «titoli tossici » sottoscritti dalla banca senese quando lui era il numero uno di Mps. L’operazione Antonveneta Il vincolo del controllo L’intreccio con la politica Casse vuote La finanza allegra La crisi e il crollo Le inchieste I correntisti MontePaschi, Bersani all’attacco: “Se ci attaccano li sbraniamo” ROMA. Lo scandalo MontePaschi fornisce munizioni alla destra, fa un gran comodo a Pdl e Lega per spostare l’attenzione dalle magagne proprie (nuova inchiesta sul Campidoglio, Formigoni nel mirino) a quelle degli avversari. Per cui nessuna sorpresa che Maroni e Berlusconi medesimo tentino di cavalcare la polemica . Monti no, dopo la legnata a Bersani dell’altro ieri («Il Pd è coinvolto ») lui si è defilato un tantino. L’unico a pronunciarsi da quella parte è il ministro Riccardi, che invita a «fare luce sulla connessione tra banche e politica », tema in auge fin dallo scandalo della Banca romana sul declinare dell’Ottocento. Prudenza non sufficiente a dirottare le bordate di Alfano, che chiama il Prof a «giustificare la barca di soldi » disposti per il salvataggio di Mps, «l’equivalente dell’Imu ». Né il ritrovato riserbo del premier lo pone al riparo dall’ira Pd, dove se la sono legata al dito perché nulla fa più male della bastonata nel momento del bisogno. Ricambia velenoso Bersani: «Chi si è opposto al ricambio dentro MontePaschi ora è candidato con Monti », vale a dire l’ex esponente senese della Margherita, Monaci. Forse all’insaputa del premier, ipotizza ironico D’Alema. Tabacci, alleato di Bersani, va a fondo della questione: «La lista Monti dimostra di essere stata costruita cercando di includere i poteri che contano », e in questo caso non si tratta certo di un complimento. Tace Monti, dunque. In compenso dice la sua il Cavaliere. Che sulle prime era sembrato prudente al punto da far ipotizzare il solito conflitto d’interesse tra Berlusconi politico e Berlusconi imprenditore: l’uno interessato a picchiare duro sul Pd, l’altro appeso ai fidi Mps, senza i quali le aziende del Biscione sarebbero in affanno. Ecco invece Silvio prendere posizione all’edizione serale del Tg1. Senza ferire la più antica banca del mondo, anzi invocando «soluzioni concrete per mettere al riparo dalle conseguenze i risparmiatori », forse anche se stesso. Ma con un affondo contro il Pd che marca, almeno sul piano propagandistico, un punticino a suo favore. Argomenta Berlusconi dai teleschermi: «Se la sinistra non è in grado di gestire una banca, non può certo gestire il Paese… ». A differenza di Ingroia, della Santanché, di Gasparri e, per certi aspetti del montiano Della Vedova, Berlusconi non evoca ipotetiche mazzette, non ne fa certo una questione morale, semmai di capacità imprenditoriali. Come amministratori, sorride soddisfatto l’uomo di Arcore, questi signori della sinistra non valgono granché… Bersani se l’aspettava. Tanto che già nel pomeriggio aveva lanciato un altolà: «Destra e Lega non si azzardino a insinuare che su Mps siamo stati scorretti, perché li-sbra-nia-mo ». Proprio così, sillabando per rimarcare meglio. Adesso quel «li-sbra-nia-mo » impazza su Twitter, perché pure di queste battute «virali » è fatta la nuova campagna elettorale, o perlomeno quella che appassiona chi passa le sua giornate sui «social network ». Se dipendesse da lui, Bersani darebbe poteri commissariali al presidente Viola e all’amministratore delegato Profumo, in modo che possano usare la ramazza. Tremonti, l’ex-ministro, gli affibbia dell’incompetente, «esiste il commissariamento ma non esistono per il diritto i poteri commissariali ». D’Alema, invece, giudica inutile agitarsi troppo. «Non credo che questa storia ci nuocerà dal punto di vista elettorale », pronostica l’ex-premier, in quanto «ormai l’opinione pubblica è mitridatizzata, è abituata a scandali che nascono e che muoiono… ». Diagnosi cinica e tremenda, quella di D’Alema, il quale la pone così: «In questa campagna elettorale ci sono partiti che non hanno nulla da dire e si gettano su questa storia come avvoltoi ». Da destra, pesanti ironie contro «Baffino ». Le riassume tutte in una battuta Cicchitto: «D’Alema e compagni sono vissuti sugli scandali altrui; ma quando riguardano loro, diventano di colpo cose che lasciano il tempo che trovano ». Tangente Antonveneta, ecco i bonifici sospetti Ma quanto è costata veramente l’operazione Antonveneta al Monte dei Paschi? Il sovrapprezzo potrebbe essere ancora più alto di quello noto, già esorbitante visto che l’istituto senese ha sborsato, a favore di Banco Santander, 10,3 miliardi di euro per una banca (o meglio, per una parte, la meno remunerativa) che al momento dell’acquisto possedeva, a detta dell’ex presidente del collegio sindacale, professor Tommaso Di Tanno, «un valore patrimoniale di 2,3 miliardi » (sull’operazione firmata dall’ex presidente Mussari indaga la Procura di Siena). Un alto dirigente del Monte dei Paschi, sotto anonimato, rivela l’esistenza di altri pagamenti cash miliardari. Identiche informazioni sono poi comparse su un blog cittadino molto noto, l’Eretico di Siena, oggetto di preoccupate analisi da parte di piccoli azionisti e associazioni di soci intervenuti nell’infuocata assemblea straordinaria di venerdì coi nuovi vertici di Mps, Profumo e Viola. IL GIALLO DEGLI OTTO FLUSSI LE MAIL SBIANCHETTATE «L’INTESA » DELL’ADVISOR SPUNTA BENESSIA L’ex impiegato Mps che negli anni ‘90… I problemi del Montepaschi cominciarono con la pessima legge Amato che privatizzava e accorpava le banche di interesse nazionale. La teoria di Aurigi è semplice: la privatizzazione ha consegnato una banca che prima era dei cittadini senesi alla fondazione che è sempre stata controllata dal Pds, poi dai Ds e infine dal Pd. Quando nel 2003 scoppiò la prima grana, quella della perdita di tutta la liquidità che prima la banca aveva in eccesso, oltre 2500 miliardi, a causa del pessimo affare della compravendita della Banca del Salento, la famigerata Banca 121, proprio uomini vicini ad Aurigi e al suo movimento cittadino tappezzarono Siena con volantini di questo tenore: “D’Alema a Siena è persona non grata”. Uno smacco, quasi un oltraggio che fece parlare, anzi sparlare, tutti i bravi cittadini senesi per mesi. Da abile funzionario bancario, Aurigi aveva subito capito chi fosse Mussari, che veniva considerato l’artefice della distruzione della banca come patrimonio dei senesi. Ed era il bersaglio prediletto di tutte le intemerate che faceva nelle assemblee degli azionisti. Una sorta di “proto Grillo” locale. Che avevano tentato di far tacere in tutte le maniere. Anche dandogli del fascista, che in una città rossa come quella senese è sempre un insulto che fa impressione. Da qualche tempo però la città famosa per la battaglia di Montaperti e per il Palio si è dovuta ricredere: Aurigi aveva proprio ragione e le sue invettive contro i sindaci senesi che si sono succeduti dalla fine degli anni ’90 a oggi adesso le persone se le vanno a ristudiare su internet o sulle vecchie collezioni del giornale locale, il Cittadino. Come la lettura ragionata del bilancio 2003 con la quale per la prima volta denunciò la possibilità di una vera e propria bancarotta. O “banca rossa fraudolenta”, per usare l’ottimo titolo del Giornale di ieri. Per anni l’establishment locale ha cercato di dipingere Aurigi come una sorta di “scemo del villaggio” o come un ex impiegato frustrato e rancoroso. Invece semplicemente aveva ragione. Sapeva che i dirigenti, che avevano già dissipato 2500 miliardi comprandosi una banca “sòla” come la 121, avrebbero finito per portare il Monte alla rovina. Allora in città gli davano tutti della Cassandra, sperando che lo fosse davvero. Oggi, troppo tardi, i senesi hanno aperto gli occhi. Anche perchè lui terminava tutti i propri interventi nelle assemblee del Mps dicendo che «alla fine questa situazione è colpa dei cittadini che non trovano la forza di ribellarsi ». Parole sante. Con il senno di poi. Il ritorno di Dalemoni Massimo D’Alema ha molti difetti, ma non la mancanza di franchezza. Trattandosi del principale azionista politico del Pd e della segreteria Bersani, le sue parole vanno prese estremamente sul serio. L’altro ieri, presentando a Torino il suo ultimo libro dal titolo spericolato Controcorrente, ha preannunciato le linee guida della prossima “riforma della giustizia” (anzi dei pm, in perfetta continuità col berlusconismo). Non una parola sulla durata di processi e prescrizioni, sulla necessità di ripristinare il falso in bilancio (tipo Mps), mandare in galera gli evasori, punire i rapporti dolosi con la mafia, l’autoriciclaggio e la corruzione sbaraccando la legge-fuffa Severino.
Ben altre sono le priorità dalemiane: eliminare “la confusione tra indipendenza della magistratura e difese corporative” che consente “a ogni sostituto procuratore di fare quel che vuole: questo è anarchismo distruttivo, altro che indipendenza. Bisognerà mettere mano a una riforma” puntando “sulla responsabilità dei capi degli uffici, perché se ogni pm fa come vuole non serve avere i capi”. È la fotocopia della “riforma epocale della giustizia” (cioè delle procure) annunciata due anni fa da B&Alfano e fortunatamente abortita. Il potere “diffuso” di ogni pm di aprire indagini su ogni notizia di reato è il naturale corollario dei principi costituzionali di indipendenza e autonomia di ogni singolo magistrato e di obbligatorietà dell’azione penale: ma è già stato duramente limitato dall’ordinamento giudiziario Castelli-Mastella, approvato dal centrosinistra con la complicità della destra nel 2007-2008. Quella controriforma – votata anche dall’allora ministro D’Alema, forse a sua insaputa – già aumenta a dismisura il potere dei capi delle procure a scapito dei sostituti, secondo il modello verticale degli anni ’50, quelli dei porti delle nebbie e delle sabbie, quando bastava controllare un pugno di capi per imbavagliare tutti i pm: infatti si indagava solo sui delitti dei poveracci e mai su quelli dei colletti bianchi. Il programma minacciato da D’Alema è ancor più pericoloso se si pensa che il futuro ministro (“non mi dispiacerebbe far parte del governo, se qualcuno mi verrà a cercare”) stava parlando di Ingroia, definito “quintessenza della peggiore cultura dell’estremismo e del moralismo basato sul ‘tanto peggio tanto meglio’”, entrato in politica “col nobile scopo di impedirci di avere la maggioranza al Senato per costringerci all’alleanza con Monti e poi gridare che siamo traditori”. Ora, a parte il fatto che il Pd con Monti è alleato da 15 mesi, non è stato Ingroia, ma Bersani e Fassina ad annunciare che il Pd governerà con Monti anche se avrà la maggioranza. Ed è stato Violante a chiedere sottobanco al pericoloso estremista di ritirare le liste al Senato in cambio di 4-5 “senatori mascherati” nelle liste Pd. Ancor più preoccupante (almeno per gli elettori Pd) è il giudizio di D’Alema sul pm che ha fatto arrestare decine di mafiosi e condannare Dell’Utri e Contrada: sulla trattativa Stato-mafia Ingroia “ha usato il suo ruolo per processare la storia del nostro Paese”. Ecco: uomini dello Stato han trattato sotto banco con la mafia, consegnandole le chiavi della Seconda Repubblica, ma Ingroia doveva voltarsi dall’altra parte in barba alla Costituzione per non infangare “la storia del nostro Paese”. Come se a infangarla non fosse chi trattò con i boia di Cosa Nostra, ma chi l’ha scoperto. Segue l’accusa, anch’essa copiata da B., di aver “concluso l’inchiesta con una candidatura”. Forse D’Alema confonde Ingroia con qualcun altro. Anni fa un pm di Bari, Alberto Maritati, indagava su un politico illegalmente finanziato con 20 milioni di lire da un imprenditore malavitoso. L’accusa finì in prescrizione e il pm in Parlamento. Lo candidò lo stesso politico indagato e prescritto, che poi lo portò nel suo governo. Era un certo Massimo D’Alema. Berlusconi dichiara che il fascismo ha anche fatto cose buone. Nascono polemiche; così precisa lo storico Giordano Bruno Guerri, video. Letto 4812 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||