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La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

LETTERATURA: Quattro brevi racconti

22 Agosto 2007

scritti da Nicola Dal Falco  

Da Anni

Da anni, amo le stazioni, i loro silenzi. Silenzi speciali, concentrati in un punto tra due direzioni.
Forse, è una nostalgia di tipo orizzontale, la semplicità implicita del qui e là che finiscono per assomigliarsi nella loro reciproca familiare estraneità.
La stazione ha una sua brevità, una finitezza ampia fin dove puoi scorgere i binari. Il viaggio inizia dopo. Per questo, restano ancora i luoghi più accoglienti, nonostante divengano sempre più scomode e brutte.
Naturalmente, alla stazione bisogna arrivare in anticipo, per incrociare quel particolare silenzio, per cercarlo in fondo ai marciapiedi, oltre la protezione delle pensiline.
In verità, è lui che cattura te, che regola lo spazio tra due eventi.
La stazione, banalmente, rivaluta il rapporto tra causa ed effetto, ci riporta ad un tempo secondario, di lento avvicinamento.
Un tempo di mescita, che si colma nel mentre, che muove e non collassa.
Lo puoi leggere, come un’ombra tremolante, un soffio tra le cose, nell’aspetto, nei gesti, nei sensi trasferiti in momenti prossimi da farsi toccare.
Mi pare, insomma, che la stazione amministri il tempo che altrove inciampa e sfugge: una sorta di oggetto domestico e surreale dotato del potere dell’evidenza.
Evidenza come le spalline abbassate di una signora che si abbronza al modo antico e cittadino; come le facce rosse e sorridenti dei macchinisti che volentieri barattano la manciata di minuti fermi in attesa, prima di ripartire, con la breve eternità di quando, finestrini aperti, si prendono il bollore del vento.
Così, la stazione si trasforma in un balcone, quello sì, uno dei pochi posti esterni dove ritagliarsi questo genere di pausa.

Nei Paesi di Campagna

Nei paesi di campagna, dove si coltiva e si caccia appena fuori dallo stradone illuminato, c’é sempre qualcuno che s’imPana, che orfeizza;
che manifesta un amore urbano, post-selvatico, mitico? per i vicini animali di un gradino più basso come gli uccelli: in questo caso per una coppia di taccole, Paola e Francesca;

sentimento, nato da un ratto, violando il calore del nido, non per necessità gastriche ma a scopo ricreativo;

prese, dunque, due giovani taccole, implumi o quasi, il moderno silvano le ha cresciute a mosche e biscotto, visitandole spesso e allargando, di settimana in settimana, i muri della loro cattività;

così che, riconoscenti, iniziassero senza pena a farsi incontro, ad aspettarlo;

ci voleva, però, perché la presa avesse un crisma e sciogliesse l’invidia, un piccolo segno distintivo che separasse le due sorelle dalla vasta sorellanza delle taccole tutte;

pertanto, il brav’uomo, di pronta risposta e vecchiezza, si accinse ad un’operazione estetica, cucendo sulle guance delle taccole un doppio, virile pon-pon, rosso fuoco, testimone per cielo e per terra del suo taccolesco ducato;

ora, il culmine dell’impresa è raggiunto, ogniqualvolta il signore, residente a Donnalucata, risale in automobile le valli a pettine dei Monti Iblei per raggiungere la piazza di Scicli, seguito a familiare altezza da Paola e Francesca.

Traslochi

Conosco due artisti, un pittore e una pittrice di Amburgo che, qualche anno fa, hanno deciso di sposarsi. Per ambedue è stato il secondo matrimonio, quello della maturità: un gesto d’amore e di reverenza nei confronti del futuro, giunti a quell’età in cui la vita può molto più facilmente prendere che dare.
Loro le hanno chiesto di prendersi la malinconia, stabilendo alcune regole di tenerezza. Tra le cose che li uniscono una mi è parsa così irrazionale da dover essere raccontata.
Prima della caduta del muro di Berlino, Berth abitava in una regione di confine, tagliata fuori dei grandi spostamenti di cose e di persone.
Uno di quei triangoli di terre che sulla carta appaiono circoscritti dalle strade dirette altrove. Quando mi raccontò il fatto, aggiunse che là si era sentita a lungo l’influenza del mondo slavo.
Berth aveva affittato una vecchia casa che risaliva al Settecento, dall’aria solenne e grigia come ce ne sono molte al nord.
Il grigio non era affatto il suo colore, ma un’impressione che si adattava perfettamente al concetto di solenne.
Dal tetto alla stalla, il tempo aveva steso una patina uniforme, un’ombra. La percezione di qualcosa che assomigliasse ad un alone era nettissima.
In realtà, la casa tratteneva la cosiddetta ora blu, il lungo monologo del tramonto che nell’emisfero boreale ha una durata quasi infinita.
Vi era rimasta esposta così tanto che dai muri continuava a liberarsi una luce di grana grossa, attraverso cui il buio prendeva lentamente il sopravvento.
In quella casa, un uomo si era tolto la vita. La morte, che era penetrata subdolamente come un tarlo nelle travi, può essere invocata, attesa, maledetta, ma non si può sostituire, sostituendo la nostra alla sua forza, se non altro per bilanciare l’azione di tutte le forze autodistruttive che proliferano nel mondo.
Suicidarsi, in fondo, è un modo di barare sul nome delle cose.
Scoperto il suicida, i parenti e i vicini fecero ciò che consideravano più urgente: rinsaldare il cerchio protettivo della casa, la sua aura incrinata. E siccome la possibile rovina avanzava dall’interno occorreva espellere il corpo senza provocare buchi nella difesa esterna.
In un certo senso, il paradosso della situazione stava proprio in quell’attacco alle spalle, dal cuore, dalla via meno prevedibile. Il punto di maggiore attrito era costituito dalla porta d’ingresso; contro di questa, infatti, si concentrano gli sforzi di tutto ciò che è estraneo: malattie, fallimenti, invidie, sogni…
Far passare di lì il morto significava abbattere simbolicamente l’architrave e spianare la strada ad altri guai. Non potendo sollevare e rimettere al suo posto l’intera casa, decisero di scavare un passaggio sotto la soglia. Il lavoro, però, venne presto interrotto per la presenza di alcuni grossi sassi. Da quell’apertura avrebbe potuto passare solo la testa.
In mezzo ad un crescendo di preghiere, l’intervento fu eseguito dai due più forti. La testa scivolò via, ma il fardello del corpo dovette seguirla attraverso la porta. È forse per questo che, a distanza di secoli, nella casa avvengono fatti strani e che Berth ne parla malvolentieri.

***

La casa dove Verena si sposta spesso insieme a Berth ha l’Appennino per appoggio e in fondo, nei giorni chiari, un triangolo di mare, un occhio appannato. Ci sono i boschi e a volte la neve, ci sono le nuvole, i torrenti e le montagne allungate sui fianchi.
Le case sono di pietra, squadrata in blocchi così sottili che il muro sembra tessuto e sospeso come un arazzo.
Il restauro segue il ritmo lento, progressivo dei ritorni. Stanze e scale sono raddrizzate e sbiancate. L’abbandono cede poco a poco terreno: vita e malinconia di ragni, sedie spagliate e legna accatastata. Cambia il sapore all’aria e la luce alle finestre.
Anche la presenza del mare, incastrato all’orizzonte, spinge Verena e Berth a nuove, più lunghe partenze per la Liguria. Basta solo intravedere la fine della strada per sentirsi al sicuro.
Per uno strano gioco di specchi che coinvolge passato e presente, anche questa casa contiene un lutto, lo traghetta da un proprietario all’altro. Chi entra deve chiedere permesso, perché abitare è un po’ sapere anche se non siamo più abituati a considerare le case un probabile ossario d’ombre, le dimore preferite dagli spiriti.
Qui, l’ombra è una vampata di luce gialla, venata d’arancio e azzurro che sollevò da terra il bambino, una sera d’autunno o d’inverno, mentre il profumo delle castagne incensava l’aria. Buon odore, quasi pane e morbidi zecchini da sbucciare.

Sembra che l’ombra, lieve come fumo, danzi ancora in un angolo della cucina. Diversi ospiti giurano d’averla vista. Ma il bello è che si muove allegra, in compagnia.

La duchena del professore

Cento passi separavano la terrazza di casa dalla duchena del professore. Cento passi dentro uno spiazzo d’erba secca, sassi taglienti e piantine grasse che a luglio scolorivano in un verde pallido, acquoso.
Così gonfie d’umori che, schiacciate sotto il piede, spandevano una saliva d’insetto, un’acqua d’interiora, liberando odore puntuto di stagno.
La duchena del professore – una C di cemento fine, color perla – univa a sé tre spuntoni di lava, modellati dal vento come una Tebaide di corridoi e anfratti.
Di fronte, c’era giusto lo spazio per allungare i piedi e subito il pendio scosceso, eruttato dal vulcano, precipitava in mare, formando una costa bellicosa, votata all’aporia.
Aporia del blu: tanto assoluta, densa, vetrificata appariva la terra,   raffreddatasi di colpo al contatto con le onde.
Vi covava ancora, tra muri e fontane di magma, una furia d’architetto e il rosso viscido smussato in viola, riverberato dalla bocca del forno.

Seduti sul fresco della duchena, nata in bassezza, senza fronzoli, per pura comodità di sguardo, si saltava il mare per raccogliersi sull’orizzonte.
Nessuna fantasia di pesche o mortalità d’imprese assecondava i pensieri.
Solo la smisurata ala del vento, da tramontana o scirocco, riconosceva agli occasionali spettatori il diritto di precedenza verso la linea luminosa del poi.

Il professore l’aveva desiderata con la concretezza di certi atti che non hanno bisogno di pareri. Atti d’imperio o di gioia. La voleva, forse l’aveva anche sognata e se l’era fatta fare: bassa, grigia, liscia …
Il professor Somons era un uomo positivo, un chimico o un biologo o tutte e due le cose. Garbato, silenzioso, alto e dotato di una capigliatura folta quasi crespa. Pescava in apnea, verso sera, tutto solo e pareva piuttosto una visita ai pesci, per due-tre minuti, durante ogni immersione.
La sua cortesia veniva, spesso, premiata con un sarago, uno, sempre grosso, che lo riaccompagnava a riva.

Colpiva questa sua delicatezza di scendere per venticinque, trenta metri, quando il buio del fondo iniziava a mischiarsi con la penombra sul mare.
Aveva una maschera con il vetro graduato, da miope; una qualità che sembra accompagnare le grandi figure.
Ma forse, la sua maggiore finezza era quella sordità, indotta dalle quotidiane immersioni e che a volte lo isolava, accanto alla moglie di una bellezza suprema e ruvida.

Sordità sirenica che, oltre a guidarlo nelle cacce subacque, gli teneva compagnia quando, seduto sulla duchena, saltava a piè pari il mare per raccogliersi sulla linea dell’orizzonte.

24-25 aprile 2002

vento di föhn


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4 Comments

  1. Commento by Luk — 12 Febbraio 2008 @ 08:56

    Nice Site!

  2. Commento by Bartolomeo Di Monaco — 14 Febbraio 2008 @ 19:26

    Grazie.

  3. Commento by Lilas — 1 Marzo 2008 @ 21:58

    Very Nice! Thanks!

  4. Commento by Online Pharmacies — 19 Aprile 2008 @ 10:03

    Nice Site! Thanks!

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A chi dovesse inviarmi propri libri, non ne assicuro la lettura e la recensione, anche per mancanza di tempo. Così pure vi prego di non invitarmi a convegni o presentazioni di libri. Ho problemi di sordità. Chiedo scusa.
Bart