Sallusti, non è solo Dreyfus la causa del suo arresto. Ecco perché la colpa è di Taormina2 Dicembre 2012 di Franco Bechis Ora il direttore del Giornale è agli arresti domiciliari. Ma nella sua vicenda sono decine le bugie circolate in queste settimane. Ecco come sono davvero andati i fatti. 1- Sallusti ha pubblicato una notizia falsa e diffamatoria sul giudice Cocilovo che avrebbe costretto una ragazzina ad abortire contro la sua stessa volontà? Falso. E’ stata la Stampa a pubblicarla il giorno 17 febbraio 2007. Il giornale diretto da Sallusti, Libero, l’ha ripresa il giorno successivo in due modi: un articolo di cronaca firmato da Andrea Monticone, in cui si dava conto della versione pubblicata su La Stampa, ma anche di versioni diverse fornite da ambienti della procura di Torino. E poi un commento certo molto forte (ma si tratta di opinioni e idee) firmato Dreyfus. In nessuno dei due articoli è nominato il giudice Cocilovo, che poi avrebbe querelato portando all’arresto di Sallusti. L’articolo di cronaca di Libero, quello dove si riportavano i fatti, è stato riconosciuto corretto dalla Cassazione, che ha annullato le precedenti sentenze di condanna nei confronti di Monticone, chiedendo di ricelebrare il processo di appello. I fatti dunque pubblicati quel giorno con Sallusti direttore non sono falsi, anzi. La cronaca è stata riconosciuta equilibrata e veritiera dagli stessi giudici che hanno condannato Sallusti. La condanna quindi riguarda esclusivamente il commento di Dreyfus, quindi delle opinioni. Un direttore responsabile è stato condannato al carcere (poi tramutato in arresti domiciliari) per non avere controllato l’opinione di suoi collaboratori. La Stampa è stata querelata? No, da nessuno. Ha rettificato la notizia? No, il giorno successivo, quello in cui sono usciti i due articoli di Libero, ha pubblicato la versione della procura solo all’interno (molto al fondo) di un nuovo articolo sul caso, titolato per altro in modo da rafforzare la notizia della ragazzina costretta all’aborto. Tanto è che il 21 marzo, tre giorni dopo, la Stampa ha dovuto pubblicare una ulteriore rettifica questa volta inviata formalmente dal presidente del Tribunale dei minori, Mario Barbato. Con grande evidenza? No: nella rubrica delle lettere, confusa fra decine di altre. 2- Sallusti non ha mai rettificato la notizia. Questo fatto in sé è vero. Su Libero non è apparsa alcuna rettifica di una notizia che per altro non Libero aveva dato, ma La Stampa. Il giudice del tribunale dei minori ha inviato una rettifica alla Stampa, ma a Libero no. Quale rettifica doveva essere pubblicata, visto che nessuna rettifica è mai stata formalmente inviata da nessuno? Ricordo poi che l’articolo di cronaca inizialmente incriminato, è stato assolto in Cassazione, ritenuto corretto e quindi non bisognoso di rettifica. La procura di Torino aveva sì fatto filtrare (riportata da “ambienti della procura”) una rettifca alla notizia della Stampa già la sera stessa della pubblicazione, ma solo sulla agenzia Ansa a cui Libero non era abbonato. Quella rettifica- per altro ufficiosa- non poteva essere a conoscenza di Sallusti. 3- Il caso Farina. Sallusti è stato condannato per non avere vigilato sulle idee di Dreyfus. Trattandosi di pseudonimo, si è detto che la firma è stata atribuita al direttore responsabile, quindi allo stesso Sallusti. Questo non è vero. Dreyfus era Renato Farina, che lo ha dichiarato pubblicamente dopo la condanna. Ma che Dreyfus fosse Farina lo sapevano anche i giudici di Cassazione, visto che gli avvocati di Sallusti lo avevano dichiarato e comprovato nel loro ricorso, quindi tutti sapevano benissimo chi aveva scritto quelle opinioni ritenute diffamatorie. 4- Il caso Taormina. Di questo non ha parlato nessuno, perchè tutti sputano giudizi e sentenze, ma è faticoso andare a leggere gli atti e informarsi. Secondo la sentenza della Cassazione e perfino secondo i giudici di secondo grado, la colpa di Sallusti non sarebbe solo quella di non avere rettificato volontariamente la prima versione dei fatti a cui faceva riferimento il commento di Dreyfus-Farina (quella de La Stampa). Ma di avere messo in piedi una campagna stampa contro il magistrato Cocilovo, anche se questo ultimo mai è stato nominato su Libero. Una campagna stampa? Sì’, la Cassazione scrive che circa una settimana dopo la pubblicazione di Dreyfus – il 23 marzo- su Libero c’è stato “un prosieguo della campagna di offuscamento dei soggetti, a vario titolo intervenuti nella vicenda, attraverso la riproposizione da parte di un noto avvocato, della assenza del consenso della minorenne”. Quel noto avvocato è Carlo Taormina, che in effetti in una sua rubrica settimanale che gli aveva dato Vittorio Feltri su Libero molti giorni dopo prende per buona la vecchia versione de La Stampa e critica il comportamento di quell’anonimo magistrato. Secondo la Cassazione proprio l’articolo di Taormina dimostra l’intenzione di Sallusti di compiere una “crociata contro un giudice dello Stato italiano”. Questo particolare a dire il vero era ignoto anche allo stesso Sallusti, con cui ho parlato dopo che erano uscite le motivazioni della Cassazione. Non aveva letto all’epoca la rubrica di Taormina (che mandava alla segreteria di Feltri e veniva pubblicata di rigore), e soprattutto non sapeva nemmeno che proprio quella rubrica è il fondamento della sua condanna. Due articoli a due settimane di distanza, allora era una campagna stampa volontaria contro il giudice Cocilovo. Proprio il caso Taormina però dimostra come la decisione su Sallusti sia esclusivamente ad personam, un regolamento di conti e non un caso di giustizia. Quell’articolo è stato fondamentale nella condanna di Sallusti? Sì, lo dice la Cassazione. Taormina è mai stato querelato dai magistrati di Torino? No, mai. Qualcuno ha inviato rettifica per contraddirlo? No, mai. Lui non interessava ai magistrati di Torino. Quella che volevano era la testa di Sallusti. E questa hanno ottenuto nel silenzio complice e interessato di chiunque dovrebbe avere a cuore l’articolo 21 della Costituzione. Punito per l’orgoglio, giù il cappello Basta leggere gli interventi su Twitter per verificare che pochi hanno capito la ratio del comportamento di Alessandro Sallusti. Perché è stato condannato come un delinquente comune? Perché non ha fatto nulla per evitare 14 mesi di reclusione? Perché si è impegnato a rifiutare gli arresti domiciliari? La spiegazione c’è e non può prescindere dalla personalità e dal temperamento del direttore. Parecchi, in questi due mesi di attesa nervosa degli eventi, mi hanno domandato: ma dove vuole arrivare e cosa vuole ottenere Sallusti? Anzitutto, lui è un taciturno, introverso, testone, orgoglioso: di quelli che si spezzano ma non si piegano. Se ha degli affetti, e ne ha, li nasconde con cura. Espansività, zero. Cordialità, zerovirgola. Ai tempi in cui era direttore responsabile di Libero, e io mi occupavo della linea politico-editoriale, ci parlavamo sì e no mezz’ora al dì. Ci intendevamo al volo: uno sguardo era sufficiente. Si svolge il processo di primo grado. E Sallusti si becca la solita multa, 5.000 euro. Questa è la prassi, e i giornalisti la conoscono perfettamente, tant’è che la totalità di essi in tribunale se la cava così, grazie a un’applicazione morbida della legge (che pure prevede il carcere). Nel processo di secondo grado, la pena si trasforma da pecuniaria in 14 mesi di reclusione. Il dibattimento si svolse a nostra insaputa e in assenza dell’avvocato difensore, nella circostanza sparito. Motivo per cui nessuno comunicò la sentenza a Sallusti, giacché il suo domicilio legale era presso l’avvocato «latitante ». Quando al direttore comunicano che di lì a una settimana il processo sarebbe stato celebrato in Cassazione, egli cade dalle nuvole. A questo punto Alessandro aveva una carta da giocare per chiudere l’incidente senza danni: far sì che il magistrato torinese (il querelante) ritirasse la querela. Il quale magistrato era ben disposto. Ma, al momento di concludere la trattativa, Sallusti si tira indietro: non ci sto, affronto il giudizio. Incazzato, gli domando: a che scopo? E lui: dobbiamo costringere il Parlamento a modificare questa legge assurda, e dimostrare che coloro i quali la interpretano lo fanno non con senso di giustizia, ma, talvolta, con spirito acrimonioso e per colpire qualcuno che magari li ha criticati aspramente. Era persuaso, il direttore, che la politica fosse entrata in tribunale facendo fuggire la giustizia. Personalmente la pensavo e la penso in modo diverso, e gli dicevo: stai calmo, rinuncia ai sani principi, cerca di salvaguardare il presente e il futuro tuoi. Consigli inutili. Sallusti, a differenza di me, è coraggioso ai limiti della temerarietà. Fino a venerdì scorso scommetteva che la sua idea avrebbe vinto. L’ho scongiurato cento volte di non insistere, invano. Prima si è fidato della Cassazione, poi si è fidato del governo («farà un decreto per cancellare la galera »), poi si è fidato del Senato che per due mesi lo ha preso in giro promettendo una nuova legge (affossata). Non c’è stata anima che lo abbia aiutato sul serio, anzi. Molta gente – i politici e i gazzettieri – gli ha remato contro, lo ha sfottuto, ha negligentemente trascurato di valutare i fatti nell’intento di farlo apparire come un matto, un velleitario, un presuntuoso, un manganellatore su commissione al quale, in fondo, un po’ di prigione avrebbe giovato. L’accanimento su di lui ha toccato il diapason allorché il procuratore Edmondo Bruti Liberati ha scritto: arresti domiciliari. Dove? Nella casa in cui Sallusti convive con Daniela Santanchè. Vari scribi si sono scatenati negli sfottò: ma guarda questo, invece che a San Vittore lo «ricoverano » in una reggia con piscina, e via col cattivo gusto e la crudeltà. Il direttore è uscito dai gangheri. Con ragione: come si fa a dileggiare un collega in procinto di perdere, in qualche maniera, la libertà per una diffamazione (senza dolo, cioè in buona fede) commessa sul lavoro? Eppure non mancano gli allocchi che definiscono quella dei giornalisti una corporazione, una casta addirittura. Ma se ci scanniamo l’un l’altro e, peggio, malmeniamo chi è in disgrazia! Sallusti ha dissimulato la sofferenza provocata dalla prosa satireggiante dei cronisti che si dedicavano a lui, già distrutto da un verdetto, quello della Cassazione, che in pratica lo ha dipinto quale delinquente abituale. Forse Alessandro si aspettava solidarietà, incoraggiamento nel continuare la sua battaglia affinché si eliminasse il carcere per la nostra casta da strapazzo. Sicuramente non si aspettava le beffe dei colleghi, capaci perfino di insinuare che fosse un privilegiato perché avrebbe scontato la pena in una dimora di lusso. Ferito dalle canzonature, la sua opposizione ai domiciliari è diventata ancora più netta, intransigente, maniacale. Non che gli piacesse essere sbattuto in cella, ma lo preferiva al sospetto di passare per un cittadino favorito dai giudici, ai quali, viceversa, attribuiva ogni proprio guaio. Ecco perché ieri è accaduto quanto raccontiamo dettagliatamente nelle cronache e in altri commenti. Arriva la Digos al Giornale, dove Alessandro aveva trascorso insonne la notte, gli occhi fissi al soffitto, e se lo portano via, strappato alla sua redazione. Viene accompagnato nel decantato alloggio. È qui ha avuto un moto di ribellione: voglio che mi conduciate a San Vittore! Si alza e accenna a incamminarsi verso l’uscita. Lo bloccano. A un centimetro dalla soglia o un centimetro oltre? Non ero sul posto, non mi posso sbilanciare. Per quel che vale, ho una certezza: non meditava di evadere, figuriamoci. Sarebbe fuggito all’estero durante i due mesi di «quarantena ». Voleva la galera. E uno che vuole la galera come fa a evadere? È solo un uomo tutto d’un pezzo che desiderava onorare la sconfitta con un atteggiamento risoluto. Davanti a te, Alessandro, io che ti ho pregato di non fare il pirla perché ti avrebbero castigato, mi tolgo il cappello. Ti processeranno anche per evasione? Tutti noi del Giornale speriamo in un’assoluzione: uno non evade tra due poliziotti. Saremo sempre dalla tua parte. Sallusti, l’arresto e l’arbitrio Diranno (anzi, l’hanno già detto), che se l’è andata a cercare e che, tecnicamente, un condannato che tenta e realizza un’evasione non può non essere arrestato. Certo, Alessandro Sallusti lo fa apposta. Vuole apertamente che l’ingiustizia che deve subire non si consumi nel silenzio della burocrazia giudiziaria, e anzi deflagri e faccia rumore. Una scelta coraggiosa. Discutibile, ma coraggiosa. E che mette in risalto la non normalità di un direttore di giornale arrestato nella sua redazione. La libertà di stampa non è libertà di diffamare. La diffamazione è un reato che va sanzionato, con pene che siano commisurate all’entità del reato. La diffamazione non è un reato d’opinione e i diffamati hanno il diritto di veder punito chi macchia la loro reputazione con notizie false. Però gli «antipatizzanti » di Sallusti che si nascondono sotto una coltre di mille cavilli per dar sfogo alla soddisfazione di vedere un odiato nemico politico dietro le sbarre, devono anche loro dare la notizia giusta. E spiegare che le porte della galera (anche gli arresti domiciliari sono appunto «arresti ») si chiudono alle spalle di Sallusti perché il direttore responsabile di un giornale, che porta la responsabilità di un articolo diffamatorio senza esserne l’autore, viene bollato da una sentenza giudiziaria come un soggetto pericoloso, con una condotta da «delinquente abituale ». La pena più dura, il carcere, viene motivata con la pericolosità di un giornalista: questo è il nucleo di ingiustizia di questo provvedimento. È pericoloso perché ha avuto più condanne per diffamazione di altri direttori di giornali? La pericolosità sociale di un giornalista viene misurata quantitativamente? È per questo che un giornalista viene arrestato: perché è pericoloso. Ecco perché, non per ragioni corporative, la solidarietà a Sallusti è anche un principio di resistenza al pericolo che si valuti la «pericolosità » di un giornalista «delinquente abituale » con criteri totalmente arbitrari. La dismisura tra il reato commesso e la pena comminata è tutta in questa arbitrarietà. Un giudice può considerare Sallusti un «delinquente abituale » e ammanettarlo. Ma chi ha a cuore la libertà di stampa non può non considerare quella di ieri una giornata buia per tutti. Anche per chi brinda all’arresto del nemico. Ultimo sintomo di un imbarbarimento politico che non fa onore a nessuno. Primarie, cosa resta di Renzi se perde: capo del partito o nemico da battere? Posto che se vince “farà il candidato premier”, provocando lo sconquasso di pronostici e geometrie di coalizione, l’incognita che tiene banco alla vigilia del secondo turno delle primarie riguarda le intenzioni di Matteo Renzi nel caso in cui esca sconfitto dal ballottaggio con Pierluigi Bersani e il modo in cui s’incroceranno i destini dei due protagonisti della sfida per la premiership del centrosinistra. Perché è vero che “le primarie non sono il congresso”, come nota Roberto Speranza dal comitato Bersani, rimarcando che sono state volute dal leader del Pd proprio per “avvicinare la politica ai cittadini”. Ma è altrettanto vero che, “rispetto a un partito schierato nella quasi totalità col segretario, un milione e centomila voti sono il dato politico che rappresenta una domanda di rinnovamento venuta sinora a mancare nel rapporto tra Pd e elettori”, secondo quanto rileva il coordinatore della campagna renziana, Roberto Reggi. Come a dire che quell’area di “amministratori e iscritti” che hanno sostenuto il sindaco di Firenze proseguiranno il loro impegno anche dopo le primarie, con l’attenzione rivolta in primo luogo alle elezioni e al governo, ma anche al successivo congresso del Pd al quale Bersani ha già annunciato che non si ricandiderà alla segreteria. Di qui a prefigurare un’opa da parte di Renzi e dei renziani sul Pd per scalare la segreteria il passo è tutt’altro che breve, se non altro per lo scetticismo in merito del diretto interessato. Anzi, semmai è al segretario che si attribuisce l’intenzione di voler “coinvolgere” il sindaco di Firenze a discapito delle parole con cui il sindaco ha ripetuto sin dal primo giorno di “non voler posti di consolazioni o strapuntini di governo” e di quanti nell’attuale segreteria del Pd mediterebbero invece una resa dei conti col giovane “rottamatore” una volta risolta la questione del governo. Di certo c’è che Renzi ha dichiarato che intende tradurre il proprio risultato in termini di parlamentari attraverso cui poter condizionare in modo determinante l’azione dell’eventuale maggioranza di centrosinistra; tanto che Bersani ha voluto rimarcare che le misure del consenso, quindi delle quote di eletti, si prendono “sul primo turno” e non sul ballottaggio. Tuttavia è proprio dal responso del secondo turno che ci si attendono proiezioni più accurate sui futuri incrociati di Renzi e di Bersani, del governo e del Pd. Il recupero di un clima di fair plaiy da parte dei due contendenti dopo il rinfocolarsi delle polemiche delle ultime ore non fa che confermare quel “clima di non belligeranza” da molte parti interpretato come preliminare all’intesa futuribile tra i due contendenti. In quest’ottica, d’altronde, si era già interpretato anche l’annullamento di due degli ultimi appuntamenti di Renzi: quello a Sesto San Giovanni, territorio dei guai giudiziari di Filippo Penati, e quello all’Ilva di Taranto, che avrebbe evocato l’imbarazzo per trascorsi finanziamenti a Bersani da parte della famiglia Riva. Due tappe e due motivi in meno di inasprire la polemica nei riguardi del segretario. Agli occhi dei dirigenti del Pd, d’altronde, lo stesso Bersani potrebbe avvantaggiarsi del duello all’ultimo voto col sindaco “rottamatore”, facendo leva sulla nuova diarchia per alleggerirsi del cosiddetto “caminetto”, cioè le pretese delle diverse componenti interne al partito capeggiate dai vari Fioroni, Letta, Bindi, Fassino, Veltroni. Bersani, d’altronde, è oltremodo scontento anche da come si sono comportati gli apparati del partito delle regioni rosse, cui rimprovera di aver dato troppo per scontata la vittoria e di non aver profuso il necessario impegno, lasciando che Renzi si affermasse non solo in Toscana, Umbria, Marche ma anche nella “sua” Emilia Romagna. E’ alla luce di questa possibile diarchia che si prospetta persino un viatico da parte di Bersani nei riguardi della corsa alla segreteria da parte del sindaco in carriera, così da realizzare quel ticket tra presidenza del consiglio e guida della maggioranza che ha già contraddistinto la politica italiana del centrosinistra, sia ai tempi in cui Prodi governava e D’Alema lo incalzava sia quando poi D’Alema è andato a palazzo Chigi e Veltroni ha assunto la guida del partito. Anche perché lo stesso Renzi, quando Bersani approdasse a Palazzo Chigi, avrebbe la necessità e l’urgenza di collocarsi in un ruolo capace da fare insieme da sostegno e contraltare al governo, come quello di sindaco di Firenze non gli consente. Per quanto il promo cittadino sia il primo ad essere alquanto scettico circa l’idea di imbarcarsi nei difficili equilibrismi necessari per guidare tutto il partito. Difatti, se per un verso Renzi ha conquistato una fetta importante di elettori attraverso le primarie, per l’altro è ancora lontano dal poter pensare di essere maggioranza tra gli iscritti e i dirigenti. Anche se i primi passi li ha già mossi, come dimostrano gli oltre ottanta amministratori locali che l’hanno sostenuto in Toscana, oltre a quelli che vengono dall’Emilia come lo stesso Reggi, il presidente del consiglio regionale Matteo Richetti, il sindaco di Reggio e presidente dell’Anci Graziano Del Rio. Certo è che una volta vinte le primarie “l’investitura del successore toccherà a Bersani”, fanno notare a via del Nazzareno. E se questi dovesse prevalere nettamente al ballottaggio, allora lo stesso Renzi potrebbe vedersi spingere ai margini del partito, perfino con l’intenzione di sollecitarlo a uscirne. La cerchia dei fedelissimi del segretario vede infatti come fumo negli occhi la prospettiva di un’ascesa di Renzi addirittura col viatico del candidato premier, meditando piuttosto una resa dei conti interna volta “stroncare sul nascere” ogni prospettiva di carriera politica interna al partito per il “rottamatore” fiorentino dopo averne “subito l’offensiva”. Sennonché quelli che difettano sono i candidati in grado di poter superare lo scoglio delle primarie battendo Renzi. Per la segreteria come per la premiership, infatti, le consultazioni sono aperte anche ai non iscritti. E in quest’ottica gli unici due nomi chi si vociferano, quello di Stefano Fassino e di Dario Franceschini, sono fuori gara in partenza. Letto 4535 volte. | ![]() | ||||||||||
Commento by Giulio Mozzi — 3 Dicembre 2012 @ 08:17
Si potrebbe ricordare, ad esempio, l’ex sottosegretario Eugenia Roccella: che presentando un Libro bianco del ministero della Salute sulle condizioni delle persone in “stato vegetativo”, e proclamando l’istituzione di una giornata loro dedicata, dichiarava:
“Questa data ricorda a tutti noi l’anniversario della morte di Eluana Englaro, una ragazza affetta da disabilità grave la cui vita è stata interrotta per decisione della magistratura” (vedi).
Dove, a parte l’evidente eufemismo (“disabilità grave” per “stato vegetativo”), anch’esso secondo me al limite della dichiarazione falsa, non è vero che la vita di Eluana Englaro sia stata “interrotta per decisione della magistratura”: la magistratura stabilì che la volontà della ragazza era stata credibilmente espressa e raccolta, e che il padre poteva – se voleva; e poteva non volere – procedere secondo quella volontà.
Si tratta di una falsità del tutto analoga a quella attribuita a Dreyfus, mi pare. Non mi risulta che Eugenia Roccella sia stata portata in giudizio.
Commento by Bartolomeo Di Monaco — 3 Dicembre 2012 @ 08:42
Concordo.
Se non ricordo male, in questi giorni altri esempi sono stati portati di notizie diffamatorie punite con una sanzione pecuniaria.