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Rivista d'arte Parliamone
La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

SCHOOL RIVER #6

28 Giugno 2008

di Carlo Capone

MOBBING

Un mese dopo l’infortunio di Chiappone, considerando che la guarigione avrebbe richiesto del tempo, il Preside decise di nominare un supplente. Convocati nel suo ufficio il vice, il segretario e tre testimoni – “della cui identità sono personalmente certo”, fece mettere a verbale – lesse solennemente la graduatoria dei laureati che avevano fatto domanda di supplenza.

Terminata la lettura, arricciò il naso. “Con tanta disoccupazione giovanile solo tre richieste?”
“I giovani d’oggi”, scosse la testa Gustazzoni.
“Dobbiamo procedere per forza a questa convocazione?”, domandò invece il segretario. Pascutti gli lanciò uno sguardo tagliente. “Ci vai tu in classe al posto di Bertoglio?”
“Niente, Lino, stavo solo chiedendomi se il bilancio del Liceo può permettersi un altro stipendio”.
“E chi siamo, una società per azioni?”
Dopo l’affare del cappotto il loro rapporto si era un tantino incrinato.
“Andiamo, preside”, si intromise Gustazzoni, “il segretario non ha torto. Con l’introduzione dell’Autonomia ogni scuola deve prestare attenzione al bilancio”.
“Giusto”, ironizzò Pascutti, “e cosa dovrei fare? Costringere i suoi colleghi a sostituirlo a turno? Sapete bene che la legge non lo ammette”. “E meno male!”, aggiunse dopo un attimo di riflessione.
“Non stavo dicendo questo, Lino. Hai pensato subito a male…”
“E ci credo!”
“Io”, proseguì il segretario, “proporrei di chiamare quello che costa di meno”.
Fu la volta di Gustazzoni. “Guarda, Saverio, qui non stiamo al mercato delle vacche, intanto c’è una graduatoria di Istituto, e poi lo stipendio è uguale per tutti”.
“Basta, Gustazzoni, chiudiamo questa inutile diatriba”. Era disgustato, Pascutti, dal comportamento di quel tagliateste del segretario. Afferrò la cornetta e compose il numero di Guido Berti, il primo della lista.
“Pronto”, rispose dopo due squilli una voce femminile.
“E’ il liceo, signora”, esordì Pascutti, col tono della Carrà quando dispensa i miliardi.
“Si, e questa è la Centrale del Latte”.
Il Preside finse di non raccogliere. “E’ in casa il professore Berti?”
“Mio figlio?”
“Mio, no di certo! Senta, veniamo al sodo. Dovremmo conferirgli una supplenza. Accetta?”
Dall’altra parte una mano coprì il microfono in maniera maldestra. “C’è un tizio della scuola, quella dove hai lavorato per un giorno l’anno scorso”, si sentì che diceva la donna. E, con identica nitidezza, si udì prima un’imprecazione, poi due o tre oggetti scagliati contro il muro e infine la seguente esortazione. “Mandali a farsi friggere. Preferisco fare il cameriere piuttosto che tornare in quel posto”.
“Pronto”, riprese allora la signora.
“Tu-tu-tu-tu”, fece Pascutti, che era un gentiluomo e il telefono non lo sbatteva mai in faccia.
“Mi dai il numero del secondo?”, chiese allora a Gustazzoni.
“Che ti ha detto?”
“Che è già occupato”.
“Aaaah! Ecco perché hai fatto tu-tu-tu”, e tutti a ridere per non spararsi.
Anche gli altri interpellati dichiararono di non essere disponibili. Uno faceva già il fattorino ai mercati generali, l’altro aveva notevoli prospettive in un’impresa di pompe. “Centrifughe?”, domandò Pascutti, incuriosito. “Funebri”, fu la risposta e giù cornetta.
“Questi mi vogliono sfottere, mi gioco la testa”, si incupì il preside. E dalli, dalli con quella fissazione. Gli era tornato in mente il rimprovero di un certo amico, cui infine si era dovuto arrendere. “Hai ragione. E’ solo una mia fantasia”.
“Allora?”
L’esortazione del segretario risuonò in un’aula uggiosa e orba.
“E… e… allora”. Pascutti era a corto di risorse. “Sapessi il latino e il greco ci andrei io a sostituire Bertoglio”. Saperli avrebbe dovuto, vista la laurea in lettere antiche a pieni voti. Ma ventiquattro anni di circolari, e collegi docenti, e intrighi di corridoio coi professori, e dispute con i bidelli su chi debba pulire i cessi, avrebbero accoppato anche il Pascoli latinista.
“Io la soluzione ce l’avrei”, riprese il segretario.
“Senti, Saverio, se è per la storia dello stipendio, è inutile che ne parliamo”.
“No, lascia perdere, Lino, quello era solo un sasso in piccionaia”.
“Te lo suonerei in fronte il sasso”. “Allora, quale sarebbe la proposta?”
“Possiamo chiamare chiunque, dopo aver esaurito la lista, no?”
“Certamente”.
“Bene”, proseguì il segretario, “ci sarebbe il nipote di mio cognato…”
“Nepotista”, scherzò Gustazzoni. L’altro non lo degnò neanche. “Un genio. Gli mancano due esami alla laurea in Lettere Antiche. Centodieci e lode sicuro”.
“Tutto qua?”, fece Pascutti.
“Si, se non fosse che ha vent’anni”.
“Venti?”
“E mica è finita? Tra un anno conseguirà anche la laurea in Filosofia!”
Pascutti inarcò le sopracciglia. Mi starà prendendo in giro? La prospettiva che un simile gioiello ornasse il suo Liceo prese il sopravvento. “Possiamo assumere quelli in possesso di licenza Liceale, visto che non ci sono supplenti laureati?”. “Assolutamente legale”, asserì il vice. “E in tal caso lo stipendio è anche ridotto”.
“In nome del popolo italiano”, si alzò in piedi Pascutti. Tutti lo guardarono stupefatti. Cercò allora di giustificarsi. “Ma perché? faceva tanto Corte d’Assise!”. “Ndiamo và!”, fece Gustazzoni agli altri. Dalla presidenza si udirono i commenti in corridoio. “Sempre detto che quello non funziona” .

***

C’era legittima curiosità tra i professori. Da anni non si vedeva un supplente, in quella scuola. “Colpa del blocco dei pensionamenti!”, tuonò Cominoli, un sindacalista che veniva a lavorare con lima per unghie e martelletto da dottore. Ogni giorno, a bella posta, li deponeva sul tavolo di sala insegnanti. “Così capite come siamo ridotti”. I dannati, allora, battendosi il petto chi col flagello chi coi cazzotti, chinavano il capo e si avviavano nelle rispettive arche.
Quella mattina, tra gli astanti, c’era anche Demetrio Crasto. Dopo la consueta arringa del Cominoli, gli altri non si erano mossi, indugiavano a chiacchierare in cerchio. Squallido espediente. Ci fosse stato un oculista li avrebbe ricoverati in massa per strabismo in fase terminale. Il giovane era alto e smilzo, uno dei tanti che si incontrano negli Atenei. Ovviamente era dotato di barba, una selva ispida e folta che gli arrivava fin sotto gli occhi. Portava orecchini ad entrambe le orecchie più un trionfo di piercing lungo il filo delle labbra. Ma passi per questo, passi che, aprendo la bocca, sembrava una luminaria di Piedigrotta, ciò che colpì la fantasia furono i campanellini. Ne aveva almeno una dozzina, tutti assicurati ad altrettanti ciuffi di peli. E poi gli occhi. Bè, gli occhi emanavano un che di strano, scuri, magnetici, come se ti scavassero dentro.
Si presentò alla truppa con educazione.
“Buongiorno, sono Crasto, il sostituto del professor Bertoglio”. “Dindirindin”, suonarono i campanellini. Ma lui, abituato, non vi prestò attenzione.
“Salve, ciao, ‘ngiorno, salute”, risposero un po’ tutti. Eccetto Bernabò, un vero bambino, che fece anche lui dindirindin, ma sul motivo della Quinta di Behethoven.
“Sapete dirmi dov’è il cassetto del professore Bertoglio?”, domandò Crasto a un muro di nuche.
“L’ultimo a destra, quarta fila in basso”, rispose qualcuno.
Dindirindin, si sentì ancora, ma non era la voce di prima.
Nel silenzio generale, rotto soltanto da un mormorio di fondo, il giovane aprì il cassetto di Chiappone per estrarvi libro e registro. Come lo fece, una valanga di mele, bucce d’arancia, pane e formaggio lo investì in pieno. A essere sinceri, c’erano anche alcuni animaletti, i quali, appena all’aperto, spiccarono il volo in tutte le direzioni.
Fortuna che Crasto si tirasse indietro, uno scarto che produsse un allegro scampanellio. Con un po’ di immaginazione, tra campane e festosi voli, sarebbe stata pasqua. Peccato mancassero le colombe.
Paziente, il giovane si chinò a raccattare, in un tripudio di scampanellii. Con le mani colme di spazzatura, si rizzò in piedi per fissare i colleghi. Questi si godevano la scena. Decise di buttarla sulla facezia: “Mancava il latte e ci potevo fare la spesa”. Non l’avesse mai detto.
“Senti cardellino”, si fece avanti la tabaccaia di Fellini. Si sentiva punta sul vivo, vuoi per l’oltraggio alla sacralità del posto, vuoi per i continui, inesausti, pervicaci accostamenti sul di lei davanzale e la prodigalità della vacca frisona.
“Il professor Bertoglio”, attaccò inveperita, “stava per rimetterci la pelle. In servizio, per giunta. Io non permetto che l’ultimo dei pivelli venga fin qui a prenderlo in giro. Chiaro?”
“E’ vero, che avvoltoio, vattene a casa”, pervenne dal gruppo, in rapida sequenza. Si sentì anche il solito famigerato dindirindin. Sulle note, questa volta, dell’uva fogarina.

Demetrio indietreggiò alzando le braccia. “Va bene, va bene. Chiedo scusa a tutti”. Una pioggia di bucce e pezzi di formaggio cadde ai suoi piedi. “Barbone!”, lo apostrofò Ceretti, per poi sussurrare a Lucetto: “Sarà un cingalese, o al più un meridionale”.
Nei giorni successivi le voci corsero fulminee, fecero tre giri della scuola prima di scontrarsi e deragliare. “Ha assegnato trecento versi di Omero”, “Ma va là, erano trenta”. “Legge Catullo seguendo la metrica latina”, “Macchè, è l’inflessione di Catanzaro”. “Non fa copiare nei compiti in classe”, “Sfido! gli lascia tenere il libro sul banco”. “Interroga senza preavviso”, “Telefonerà a casa il giorno prima”. “Ha una cultura classica da far paura”, “Bumm, al massimo saprà il Bignami a memoria”. “I ragazzi lo seguono a bocca aperta”, “E ci credo, lo sfottono per via dei piercing”. “Con lui in classe non vola una mosca”, “Perché fa schifo pure alle mosche!”
Quando si esaurì la prima ondata, iniziarono le accuse di esoterismo. Tutta colpa di quel ripetente di Ugatti che si era messo a scherzare con una moneta legata a un filo sottile. L’effetto era di un oggetto che si muove sul banco, spinto da una forza ignota.
“Fai la seduta spiritica?”, aveva ironizzato Crasto.
“Si, sto chiamando l’anima di tua sorella”.
“E dille che ti assista a fine anno”.
La pronta risposta si era rivelata un boomerang. Ugatti temeva di aver perso leadership e faccia. Per ritorsione si sfogò con la tabaccaia, inventando che il prof, acceso cultore di Virgilio, fosse anche lui un negromante.
Da quel giorno iniziò il supplizio in sala insegnanti. Quando correggeva i compiti c’era sempre qualcuno, seduto di fronte, che tirava il tavolo da sotto. Crasto fingeva di non accorgersene, avanzava con la sedia e… il tavolo faceva marcia indietro. Il balletto durava fin quando c’erano volontari disposti a darsi il cambio. I guai veri iniziarono con le catene.
Il solito Ugatti ne aveva recuperate alcune da suo padre, un ex sessantottino alla Statale. Complice una rete trasversale che, partendo dai bidelli, passava per taluni colleghi, interessando una sacca di allievi, appena il disgraziato svoltava l’angolo sentiva un tintinnare di catene da dietro. “Hai l’accompagnatore, Crasto?”, chiedeva a quel punto il palo, uno della serqua appostato di nascosto. Sulle prime Demetrio non capiva. Certo, quel rumore di ferraglia era sospetto. Ma solo quando vide i lenzuoli, le teste di morto e gli scheletri di cartone iniziò a subdorare. La notizia ovviamente giunse a Pascutti. “E’ uno spiritista, rovina i ragazzi”, iniziò la docente di religione. Poi fu la volta di Lucetto: “Succedono cose strane, chiama l’esorcista!”. Era la processione di San Pancrazio. Ceretti esibì perfino la prova del misfatto: una gamba di tavolino sottratta al salotto buono della zia.
“Basta!”, strillò infine Pascutti. “Chiamatemi questo signore, voglio guardarlo in faccia”. “Trattalo bene”, si raccomandò Gustazzoni, “c’è il rischio che ti scateni contro il demonio!”
Il preside era una persona equilibrata, se si eccettuano quei lievi accessi. “Ma stai zitto, cacasotto, gli spiriti ce l’hai tu nella testa”.
Detto fatto, appena l’altro fu uscito, estrasse dal cassetto una treccia di agli. Perché non si sa mai, con tutte le storie che si leggono sui giornali.
“Professore, è desiderato in presidenza”.
La testa di Pirillo fece capolino dalla porta. Crasto era in piedi, al centro dell’aula, e declamava un passo dell’Eneide.
“Posso affidarle la classe?”, gli chiese nel voltarsi.
Dindirindin, fecero i campanelli.
“Din don dan”, rincarò il bidello.
Di fronte all’ennesima provocazione, Crasto perse le staffe. Gli fu addosso con un balzo e l’avrebbe fatto a pezzi se Pirillo, con un guizzo, non avesse scartato per darsela a gambe.
“Fermati, se sei un uomo, vigliacco!”, gli urlò Crasto, inseguendolo lungo il corridoio.
“Dindirindon”, suonarono adesso i campanelli, causa la smorfia che gli storceva il viso. Nella foga addentò un batacchio procurandosi un bel taglio sul labbro.
Sanguinante, si avviò al gabinetto dove adocchiò uno stipo. Cercava disperatamente un asciugamano e invece scoprì solo un calice panciuto. La corsa gli aveva messo sete. Afferrò il bicchiere.
“Professore, insomma!”. C’era Gustazzoni oltre la soglia del gabinetto.
“I-io?”, fece Demetrio Crasto.
“Il preside sta aspettando, non l’hanno avvertita?”
Crasto stringeva il bicchiere in pugno, un rivolo di sangue gli solcava la barba fino al mento. “Questo è davvero un demonio”, mormorò Gustazzoni. “Anche il bicchierino per le sedute spiritiche”.
Il giovane si avvicinò a lui stringendo il bicchiere per lo stelo. “Vengo, vengo subito. Ma che fa, scappa?”
Gustazzoni era già due piani sotto.
“Mi cercava?”, chiese Crasto quando fu in presidenza.
“Madonna santa!”, scattò in piedi Pascutti, e diede una lisciata alla treccia.
“Si sente bene?”, chiese Crasto, perplesso. D’accordo, lui era buddista, ma un cattolico con il rosario di agli era un pessimo esempio di feticismo religioso.
“Niente, artrosi a un ginocchio. Quando mi piglia non riesco a restare seduto. Dunque, professore, veniamo al nocciolo”.
Pascutti tornò a sedersi. E solo in quel momento scorse il bicchiere. “A… a che le serve?”.
“Cosa?”, fece Crasto, che non si era accorto di nulla.
“Il… bicchiere!”
“Il bicchiere? Uuuuh, mi scusi!”. Scosse il capo, come a rimproverarsi. Accomodatosi di fronte, pose il calice sulla scrivania.
“Mi scusi, una dimenticanza. L’ho preso da uno stipetto nel bagno dei ragazzi, l’avranno usato per tirar su lo spirito”.
“Lo spirito? quindi… quindi non è una mia fantasia?”
Come in un film sbiadito rivisse le bravate giovanili, quelle sere, ai tempi del liceo, che finivano con l’immancabile esperimento del bicchiere. “Dai, gli chiediamo la schedina”, insisteva uno degli amici. Perché lui si fotteva dalla santissima paura. “In fondo è un’occasione per conoscere gente”, aggiungeva un secondo, patito del fantasma della Merylin. Invece veniva sempre un certo Decortèz, un pataccaro che raccontava un sacco di fregnacce, sulla luce, la fuente della vida e l’impero di Bisanzio, e che la schedina te la rifilava pure, ma falsa, con i risultati del campionato di bocce e, vai a capire perché, in latino medioevale.
Memore delle notti con Decortez, attorcigliò il serto alle ginocchia. Era da denuncia all’Ufficio di Igiene la puzza in quell’ufficio.
Crasto in quel momento si protese verso di lui.
“Vero cosa, mi perdoni?”
“Che bevono l’ultimo giorno prima delle feste natalizie”, barò l’altro, peggio di un pokerista del Mississippi.
“Ma no ma no, si sarà trattato di qualche bicchierino”. Il rivolo nel frattempo era arrivato alla punta del mento. Due o tre gocce colarono sulla scrivania. Crasto stavolta se ne accorse. “Ma guarda un po’ il diavolo”.
“Si riferisce a… ”, fece col capo Pascutti, indicando il cielo col dito.
Con gesto furtivo lisciò furiosamente la treccia. Meglio puzzare come una bruschetta piuttosto che finire in bocca a satanasso.
“Sì, a quel signore!”, si scurì in viso Crasto, alludendo al bidello.
“E già, in fondo è un signore anche lui… ma, mi dica un po’, cosa stava spiegando in classe, che faceva?”
“Capisco. Vuole sapere della didattica”. Il giovane diede un lungo sospiro di sollievo. “E io che temevo chissà cosa!”
“Diavoletto, diavoletto”, lo rimproverò affettuosamente il preside, per tenerlo buono.
“Ero alle prese con la discesa agli inferi”.
“All’inferno, quindi”, arguì Pascutti, a palpebre socchiuse.
Da qualche minuto si sentiva osservato, era un’impressione, come avvertisse una presenza dietro la poltrona. Ricordò un altro colloquio con l’amico dottore. “Sai, a volte sento il bisogno di guardarmi indietro, come ci fosse qualcuno che ride alle mie spalle”. Il medico l’aveva prontamente rassicurato: “Sei sempre sul chi vive, Lino. Stacca la spina”.
Ma vuoi vedere, vuoi vedere che…‘. L’intuizione folgorante gli mozzò il fiato, nell’attimo in cui si apprestava a ripigliare il discorso.
Crasto lo prevenne. “L’inferno degli antichi, ovviamente, l’Ade. Ha presente Virgilio?”
Il preside restò a bocca aperta “Il negro…?”. Adesso, ora capiva, finalmente! Era un indemoniato e non se n’era mai accorto. Colpa di quelle fottute sedute col pataccaro spagnolo. Altro che pacche sulla spalla.
“Ma, veramente, che io sappia, era di pelle chiara”, si strinse nelle spalle Crasto, che pensava a Virgilio.
Il diavolo con la tintarella? Basta, non solo ti sei rubato la mia anima, ma vuoi anche sfottere?!‘. Pascutti diventò paonazzo. La miccia di paura e rabbia sibilò come un serpente a sonagli. “Esca immediatamente, fuori!”
“Preside, che le prende! mi vuol dire cosa ho fatto?”
“Fuori, ho detto. Giri alla larga!”, scattò in piedi Pascutti.
Sciolta la treccia l’agitò sotto il mento di Crasto e pronunciò in tono mistico: “Papè satan, papè satan aleppe!”
“Guardi che io non insegno Dante”, rispose il giovane, mentre era incalzato.
“E meno male, altrimenti finivamo tutti arrosto”.
Dirindindin, dirindindin, dirindindin. Il povero Crasto scosse la testa ripetutamente. Era sbalordito, non credeva ai suoi occhi. “Fuori, orribile genio del male, fuori dal mio corpo”, gli intimò l’altro, la voce roca, strozzata, simile a quella di un indemoniato.
In quel momento irruppe il segretario. “Lino!”. Gli strepiti dell’indemoniato avevano svegliato l’intera scuola.
“Saverio”, implorò, “Saverio, ti prego aiutami, sono posseduto dal male”.
Quasi piangendo Pascutti gli gettò le braccia al collo. “Scusami, Saverio, scusami per il male che ti ho fatto”. E scoppiò a singhiozzare sul suo petto.
“Ma che gli hai fatto?”, chiese il segretario al supplente.
“Niente, stavamo parlando di Virgilio”.
“Il negromante! Sìììì, il mago degli inferi”, riattaccò il posseduto, fissando il segretario negli occhi. “Sono un assatanato e non me n’ero mai accorto, capisci, Saverio?… De Marchi, che piacere! Venga , venga, lasci che l’abbracci!”. Adesso si rivolgeva a Lucetto, entrato per chiedere un permesso.
“Tu- tutto a posto?”, fece Lucetto, che non sapeva come comportarsi. L’altro aveva mollato il segretario per riempirlo di baci. Addirittura era passato al confidenziale: “Caro, caro il mio Lucio. E io che ho sempre pensato fossi un piantagrane”.
“Va bene, va bene, stia tranquillo”, cercò di rassicurarlo Lucetto. Ma che diavolo gli è preso?, chiese a gesti al segretario.
“Rogne, e pure grosse!”, gli sussurrò questi all’orecchio. Pascutti nel frattempo era tornato a sedere. Levate le braccia al cielo, recitava le giaculatorie. “Crede di essere indemoniato!”, concluse il segretario.
“Così, all’improvviso?”
“E che ne so. Era qui con Crasto, non so di cosa discutessero…”
“E’ vero, vi assicuro”, si intromise Crasto, “ha iniziato a fare strane domande, non so, parlava di diavoli, negromanti…”
“Anche di Virgilio, forse?”, cominciò a intuire Lucetto.
“Proprio lui, bravo. Poi ha assunto uno strano atteggiamento, ha iniziato a toccare quella roba. Ma la sentite la puzza di…”
“Aglio?”
“Aglio, sì, aglio”, confermò Crasto, “e non è finita, ce ne un’altra di cosa strana…”
“Fermo, te lo dico io. Si è impressionato per quello”. Lucetto indicò il bicchiere sulla scrivania. “Tutuuuuu! Lo vedi il trenino? Ahum, me lo pappo tutto! Abramelek, Abramelek, aleppa!”, delirava intanto Pascutti. Spingeva il calice con il dito, pronunciando frasi sballate e strani fonemi.
“Le devo parlare, e in fretta”, disse a quel punto Lucetto al segretario. “Puoi andare”, fece quest’ultimo all’indirizzo di Crasto.
“Po po-po-po… po-sso?”, chiese il giovane.
“Bum!”, fece Lucetto, tanto per non perdere l’allenamento.
“Vai!”, ingiunse il segretario, visto che Crasto non capiva.
“Allora, cosa doveva dirmi?”, chiese quando furono soli. Ci sarebbe stato anche il preside, ad essere pignoli, ma era in un mondo tutto suo. “Abramelek, Abramelek, Giuseppe!”, ripeteva in continuazione con occhi spiritati.
“Sì, sì, va bene. Ora ti do il biscottino”, lo ammansì Lucetto. E gli lanciò una nocciolina. “Guardi De Marchi, il momento è grave. Qui si deve chiamare un’ambulanza”, intervenne il segretario, che si era beccato uno sputo del preside nell’occhio.
Lucetto si schiarì in gola e curvò il mento verso il basso “Non servirebbe a nulla. E’ colpa nostra”. Pur non essendo tra i più agguerriti persecutori di Crasto, non si sentiva con la coscienza a posto. Senza sollevare lo sguardo, prese a raccontare. Prima cercando le parole, poi, acquistato coraggio, rivelò, come un fiume in piena, i tortuosi sentieri della trama, fece nomi e citò situazioni.
“Pazzi!”, si coprì il viso con le mani il segretario, quando ebbe concluso. “Vi denuncio tutti!”. “Tutuuuuu”, fece ancora Pascutti che aveva ripreso col trenino.
“Senta, segretario, qui non conviene a nessuno che la cosa si sappia”, ribattè Lucetto.
“A voi, forse!”
“Sì? e come la mettiamo con la faccenda del mio cappotto?”
“Vabbè che c’entra, via!”. Il segretario prese a sudare come un salice piangente.
Reciproche convenienze costrinsero tutti a una pausa di riflessione. Bisognava anche fare in fretta, Pascutti adesso sproloquiava in cinese antico.
“E se chiamassimo un esorcista alla buona?”, se ne uscì Lucetto.
“Sì, lo troviamo al supermercato”.
“C’è andato vicino. Avete saputo del salumiere, quel tale La Bomba?”
“Quell’altro matto, che ha venduto il negozio e dice di volersi fare eremita?”
“Appunto. Uno come lui andrebbe a pennello”.
E nella stanza calò una coltre sporca di silenzio.

***

L’appuntamento venne fissato per le undici di sera al vecchio monastero, un rudere abbandonato ai bordi della tangenziale. Pascutti si dimostrò entusiasta. “Voglio abbracciare quel sant’uomo”. Fuori dall’ambiente scolastico non avvertiva più le strane sensazioni e ci teneva da matti a una definitiva purificazione. Il segretario era perplesso. “Mai saputo di un indemoniato che fa le feste al suo esorcista”, confidò a Gustazzoni. Erano in quattro, davanti al convento, e aspettavano l’arrivo di frate La Bomba. “Meglio, significa che gli è passato tutto”, aggiunse Lucetto.
Per l’occasione Pascutti indossava un saio di domenicano, rimediato da un costumista amico di Gustazzoni. Il segretario, poi, aveva imposto perfino la tonsura. “Così fa più conversione”.
Alle undici in punto un orologio lontano emise gravi rintocchi. “Ci siamo”, disse Lucetto. Cui il luogo faceva un po’ impressione, a differenza di Gustazzoni che, appassionato di antichità, aveva effettuato un sopralluogo tra le rovine. “Ci sono tracce della dominazione spagnola”, annunciò quando riemerse dal buio.
Pascutti, non ancora del tutto guarito lo implorò in ginocchio.
“Per favore, non parliamo di spagnoli”.
Passò un’ora e dell’esorcista nessuna traccia. “Siamo sicuri che viene?”, chiese il segretario a Lucetto, che annuì senza ribattere. Gli era parso di scorgere due ombre all’interno del chiostro. “Non vedo l’ora che arrivi”, ripetè Pascutti. Cosa che irritò il segretario.
“Ci tieni tanto a stare in questo posto?”
Il preside si guardò le vesti, palpò la chierica. “Tu hai ragione, Saverio, non so cosa mi sia preso ieri mattina. Forse l’ambiente, la particolare situazione, le grane scolastiche che non mancano mai. L’unica cosa che ho capito è che mi lascio coinvolgere emotivamente”. Qui si fermò per riguardare le vesti. “Madonna, che vergogna! …comunque, visto che ci siamo, bè a questo punto almeno una benedizione la vorrei”. Intanto era scoccata la mezzanotte e di La Bomba neppure la puzza.
Stavano per desistere quando il silenzio fu rotto da un canto gregoriano. “Quanto è bello sacrame-e-nto!”, modulò una voce proveniente dal chiostro.
“Arriva!”, fece Lucetto. “E come la mettiamo adesso?”, “Boh!”
“Preghiamo”, zittì tutti quanti Pascutti, l’unico a padroneggiare la situazione.
Due figure, una in sella a una bicicletta da corsa, l’altra in tunica da senatore romano, avanzavano salmodiando. Il motorizzato impugnava una torcia abbagliante, sotto i cui lampi brillavano i capelli dell’altro. Questi doveva essere il capobanda, visto che azionava il turibolo e dettava l’intonazione.
“Fratelli”, sollevò le braccia, “il mondo è cattivo”.
“Profondo”, ebbe subito da ridire Lucetto.
“E per giunta manca poco al duemila. Anatema, anatema!”, esclamò fratel Umberto.
“Crisantema, crisantema!”, gli fece eco il tipo in bicicletta, che poi altri non era che Gioacchino.
“Senti De Marchi, vabbé che doveva trattarsi di una cosa alla buona, tanto per tranquillizzare Pascutti, ma qui siamo al ridicolo, questo è la brutta copia del mago di Avellino”.
“Sarà pure come dici, Gustazzoni”, mormorò Lucetto, “ma a me fa comunque uno strano effetto”.
Una invocazione lontana, proveniente dal falò in strada lo indusse a fermarsi. “Ehi, culattone! Fai tu vedere a me come sapere fottere”.
“Senza contare”, proseguì Gustazzoni, “che siamo capitati in un bivacco di nigeriane”.
“Anatema! Crisantema!”, stava continuando frate Umberto. “E poca lisca, e poca lisca!”, rincarava in estasi don Buffone, cui nessuno aveva mai spiegato cosa fosse l’Apocalisse.
“Ma che cavolo dice?”, fece il segretario a Gustazzoni. “Mah! Vai a capire, forse la Cabala o il libro dei Misteri”.
“Amici!”, li cinse Pascutti, scuotendo soavemente la testa, “non siate maldicenti, aprite gli animi alla purezza. Io, a differenza vostra, sento letizia, sì, avverto una dolce vaghezza, odo il canto dei serafini che solleva il mio cuore”.
“O tu vuole faccio piccola pompa?”
“Frate, frate santo!”, proseguì Pascutti, levando le braccia al cielo. “Vieni a me vicino…”
“Dai! così io lui riscaldo…”
“…fa che mi riscaldi nel tuo abbraccio!”. E schizzò come una scheggia verso La Bomba.
Causa la scarsa illuminazione, o il saio sovrabbondante, o quel mandrillo di Buffone, messosi di traverso per guardare il culo di una nigeriana, lo slancio di Pascutti si infranse sul manubrio a corna. “Le corna di tua sorella”, imprecò allora Gioacchino che, perso l’equilibrio, si aggrappò alla tunica di La Bomba. Questi ondeggiò paurosamente, roteò il turibolo come una fionda, prima di mollarlo e crollare anche lui al suolo. Il panico si propagò alle nigeriane, una delle quali s’era beccata la torcia nel vano pompe. “Aumm!”, fece la donna, che già si vedeva come attrazione in un circo.
A quel punto sbucarono dalle siepi due o tre figuri. Presero a minacciare con forte accento slavo. Il più lesto di tutti fu frate Umberto. Alzata la tunica alle ginocchia, afferrò il segretario. “Tu vieni con me, e niente scherzi!”. “E tu vai a parlare con quelli”, disse al nipote accennando ai nuovi venuti. Gioacchino eseguì l’ordine. Avvicinatosi ai figuri inscenò una vivace discussione in calabro-albanese-orobico. Sarebbero addivenuti a una tacitazione se una nigeriana non avesse preteso la tangente sull’esorcismo. Qui Gioacchino fu irremovibile, lui e suo zio erano in piena riconversione e la nuova attività viaggiava ancora in rosso. Poche battute e spuntarono i coltelli, cui il buon Gioacchino non seppe opporre che due o tre caciotte. Le portava ancora in saccoccia perché si sa, il mondo è cattivo, di soldi in prestito c’è sempre richiesta. Le urla degli uomini e gli schiamazzi delle nigeriane, oltre ai virtuosismi della mangiatrice di fuoco, attirarono l’attenzione degli automobilisti. Poco dopo arrivò la buoncostume.
Per i quattro professori la cosa cominciava a divenire imbarazzante. “Via, via, viaaa!”, urlò allora Gustazzoni, trascinandosi Pascutti, che protestò flebilmente. “Fratello, aspetta, non sono ancora mondo”. “Dammi una mano”, urlò Gustazzoni a Lucetto. “Lasciatemi, mi manca la benedizione finale”, resisteva Pascutti, benché i due lo tirassero per il cappuccio. “Se non la smetti di frignare chiamo il supplente!”, lo schiodò con successo Gustazzoni.
La fuga per i campi si rivelò uno sbarco in Normandia. Merde di vacca, aghi ultrasottili, profilattici in disuso e schegge di water dappertutto. Più volte Pascutti, stremato dallo sforzo, stramazzò al suolo e altrettante Gustazzoni lo sollevò come la brutta copia del soldato Ryan.
“De Marchi, dov’è il segretario?”, chiese a un tratto Gustazzoni.
“Si sarà fermato a pagare La Bomba”.
“Pagare????”
“Sai, il monaco ha preteso l’obolo per gli orfanelli”. Si produsse in un sorriso deficiente.
“Capisco”, annuì l’altro, a capo chino.
Vuoi per la delusione, vuoi la stanchezza, aveva lasciato andare il guinzaglio. Il preside ne approfittò per pestargli un callo.
“Lo fai tu il supplente la prossima volta”, ringhiò come un normale cristiano.

[Continua…]


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A chi dovesse inviarmi propri libri, non ne assicuro la lettura e la recensione, anche per mancanza di tempo. Così pure vi prego di non invitarmi a convegni o presentazioni di libri. Ho problemi di sordità. Chiedo scusa.
Bart