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STORIA: Berta fra Lucca e Bagdad (8)

3 Maggio 2010

di Vincenzo Moneta  

SCAMBIO DI AMBASCERIE FRA BERTA DI TOSCANA ED
IL CALIFFO DI   BAGHDAD AL-MUKTAFI’
Anno 293 dell’Egira [1]

Da Lucca a Baghdad

Nell’anno 905 del calendario cristiano[2], e anno 293 dell’Egira[3], Berta di Toscana scrisse al califfo di Baghdad al-Muktafì[4] – Principe dei credenti [5]-una lettera su seta bianca inviata   per mezzo di un eunuco che   con le sue navi, dall’Africa Settentrionale, si era spinto in azioni di pirateria sulle coste Toscane, ed era stato fatto prigioniero.

 

Il nome dell’eunuco che apparteneva a Ibn al-Aglahab, principe della famiglia degli Aglabiti,[6] era Alì.

Nel nome di Dio Clemente e Misericordioso

Dio ti guardi, o re eccellente in autorità e potente in signoria, da tutti i tuoi nemici, ti assicuri il regno, ti mantenga in salute nel corpo e nell’anima.

Io, Berta figlia di Lotario, regina di tutti i Franchi, ti saluto, mio signore re.

Tra me e il re dell’Ifrìquiya vi era amicizia, perché io finora non sospettavo che vi fosse sulla terra un re superiore a lui.

Le mie navi essendo uscite presero le navi del re dell’Ifrìquiya[7] il cui comandante era un eunuco chiamato ‘Alì : lo feci prigioniero con centocinquanta uomini che erano con lui su tre navi, e rimasero in mio possesso per sette anni.

Lo trovai intelligente e pronto, ed egli m’informò che tu sei re sopra tutti i re, e benché molta gente fosse venuta nel mio regno, nessuno mi aveva detto il vero intorno a te eccetto questo eunuco che ti porta questa mia lettera.

Ho mandato con lui dei doni[8] di cose che si trovano nel mio paese per tributarti onore e ottenere il tuo affetto: essi consistono in :

cinquanta spade, cinquanta scudi e cinquanta lance, del tipo in uso presso i Franchi[9],

venti vesti tessute d’oro[10],, venti eunuchi slavi e venti schiave slave belle e graziose[11],

dieci grandi cani contro i quali non valgono né fiere né altre bestie[12], sette falchi e sette sparvieri, un padiglione di seta[13] con tutto il suo apparato,

venti vesti di lana prodotta da una conchiglia estratta dal fondo del mare da queste parti, dai colori cangianti come l’arcobaleno, che cambia colore a ogni ora del giorno[14], tre uccelli (del paese dei Franchi) i quali se vedono cibi e bevande avvelenate gettano uno strido orrendo e battono le ali, sicché si conosce la cosa,

delle perle di vetro che estraggono senza dolore frecce e punte di lancia, anche se la carne vi sia cresciuta intorno.

Egli mi ha informata che tra te ed il re dei Bizantini che risiede a Costantinopoli vi è amicizia. Ma io ho signoria più vasta ed eserciti più numerosi: poiché la mia signoria comprende ventiquattro regni, ciascuno dei quali ha un linguaggio diverso da quello del regno che gli è vicino, e nel mio regno sta la città di Roma[15]la Grande[16].

Dio sia lodato.

Mi ha detto di te che le tue cose procedono bene, riempiendo il mio cuore di soddisfazione, e io chiedo a Dio di aiutarmi a ottenere la tua amicizia e l’accordo   fra noi per quanti anni io rimanga in vita: che ciò avvenga dipende da te. L’accordo è cosa che nessuno della mia famiglia, della mia parentela e della mia stirpe ha mai ricercato, né alcuno mi aveva mai informata intorno ai tuoi eserciti e all’eccellenza in cui ti trovi come mi ha informato questo eunuco che ti ho spedito.

 Or dunque, o signore, sia su te per l’amor di Dio la salute più grande: scrivimi intorno alla tua salute e a tutto ciò che più abbisogni nel mio regno e nel mio paese per mezzo di questo eunuco ‘Alì: non trattenerlo presso di te, affinché egli possa portarmi la tua risposta: io aspetto il suo arrivo.

 L’ho anche incaricato di un segreto che egli ti dirà quando vedrà il tuo volto e udrà le tue parole, affinché questo segreto rimanga tra noi, giacché non voglio che ne sia in possesso alcuno tranne te, me, e questo eunuco.

La salute di Dio più grande sia su te e sui tuoi e possa Iddio umiliare il tuo nemico e farlo calpestare sotto i tuoi piedi.

Salute.  


Questo cospicuo complesso di doni ci conferma la presenza di grandi ricchezze alla corte di Lucca e del soprannome che ne derivava ad Adalberto II di Toscana: “Il Ricco”.

Il motivo per il quale l’ambasciatore Alì si trovava presso la “regina dei Franchi” era che egli, un eunuco di Ibn al-Aglahab, signore dell’Ifriquiya, era stato mandato da costui con le sue navi a compiere una spedizione contro i paesi dei Franchi[17] e le regioni dei Bizantini ed era caduto prigioniero della “regina”, la quale se lo era riservato e lo aveva addetto alla propria persona. Rimase sette anni presso di lei e poi Berta lo mandò a Muktafì con una lettera scritta nella lingua dei Franchi.

La spedizione navale contro il paese dei Franchi e le regioni dei Bizantini, considerando che le tre navi saracene erano state catturate sette anni prima dell’invio dell’ambasciatore, può essere avvenuta nell’898.

 Una piccola flotta mussulmana, ma di navi non mediocri, se erano armate con almeno cinquanta uomini ciascuna, si era contrapposta alla flotta Toscana.

Questa è, forse, la prima menzione precisa di navi toscane in servizio di pattugliamento nel Tirreno, anche se facendo parte la Corsica del ducato di Toscana, si può dedurre che dovesse pur esistere una flotta per i collegamenti fra isola e continente.

Probabilmente fra gli scopi dell’ambasceria di Berta di Toscana c’era quello di allearsi con il califfo di Baghdad, sia contro l’emiro di Cordoba, sia contro l’imperatore bizantino, tradizionali nemici di entrambi[18]; lo schieramento antibizantino, poi, era facilitato anche dallo stato incerto dei rapporti fra Baghdad e Costantinopoli, sempre caratterizzati da una aggressività reciproca intramezzata da qualche tregua.                

Il controllo politico su Roma, esercitato dal marchesato di Toscana opponeva Berta allo spirito egemonico di Costantinopoli, dato che i basilei non avevano abbandonato le loro pretese su Roma.

Altro importante motivo doveva essere quello di indurre il califfo di Baghdad ad ordinare all’emiro di Sicilia, suo vassallo, o di far tregua con la corte di Lucca o comunque di concedere alle navi toscane degli “aman”, salvacondotti,   che le assicurassero il viaggio[19]     a protezione delle incursione delle navi arabe. [20].

Una delle aspirazioni della corte di Lucca era probabilmente l’unificazione dei possessi nel mare Tirreno, cioè la conquista della Sardegna, che in quel momento era ancora sotto una diretta signoria bizantina, sia pure in fase di progressiva acquisizione delle proprie autonomie. I tentativi della fine del secolo VI e del secolo VII mostrano che per la Toscana la pretesa sulla Sardegna era sempre all’ordine del giorno, non si ristretta alla sola età longobarda. Padroni della Corsica e della Sardegna, i marchesi di Lucca avrebbero veramente dominato il Tirreno e si sarebbero sentiti forse anche   in grado   di aspirare, un volta in possesso diretto o indiretto della costa laziale fino a Terracina, a stendere le proprie mani prima su Gaeta, poi su Napoli e Amalfi. Avrebbero così creato un vasto dominio capace di fronteggiare gli Arabi di Sicilia, che aspiravano a un distacco tanto dall’Africa quanto dal Califfato di Baghdad[21].

Non è lontano dal vero affermare che   alla mente di quella donna ambiziosa, audace e incline a vaste concezioni politiche che fu Berta si sia affacciato il disegno grandioso: porre la Toscana a capo di una coalizione degli stati dell’Italia centrale e meridionale mirante, in coincidenza con un’offensiva araba da oriente, a espellere i Bizantini dai loro possessi italiani e a strappare loro definitivamente ogni titolo all’egemonia cui essi pretendevano sull’intera Italia meridionale e sulla stessa Roma.

Il messaggero Alì, con la lettera di Berta, partì probabilmente dall’Italia verso la fine del 905 e giunse alla corte di Baghdad fra l’estate e l’autunno del 906. Fu un viaggio molto lungo, in quanto attraversare i domini aghlabidi nell’Africa settentrionale e l’Egitto, che si trovava allora in stato di ribellione, dovette presentare molte difficoltà.  

Si presentò a Muktafì mentre questi era impegnato in una partita di caccia nei dintorni di Surra man ra’ậ[22] . Il governo richiese qualcuno che potesse tradurre la lettera. Vi era nell’amministrazione del guardaroba del califfo, coll’eunuco Bishr, un Franco che sapeva leggere la scrittura di quel popolo[23]; l’eunuco lo fece venire ed egli lesse la lettera e la tradusse in greco, poi fece venire Ishaq ibn Hunain che la tradusse dal greco in arabo.

Il califfo affidò la lettera di risposta all’eunuco Alì.

“Nel nome di Dio Clemente e Misericordioso.

                      E’ stato riferito al Principe dei credenti che un eunuco chiamato Alì è arrivato alla Porta del Principe dei credenti e ha raccontato di esser giunto come messo da parte tua con una lettera nella quale tu dici [24] che tra te e il re che   governa l’Ifrìqiya, vi sono stati atti di ostilità e di guerra, nel corso dei quali questo eunuco e centocinquanta uomini che erano con lui su tre navi che egli (il re dell’Ifrìqiya) ti aveva mandate contro, caddero prigionieri in tua mano e rimasero in tuo possesso per sette anni, e che questi atti hanno rimosso l’amicizia che esisteva tra lui e te; e che tu non sospettavi che esistesse al di sopra di lui un re che gli fosse superiore finché questo eunuco ti ha informata che il Principe dei credenti è il re dei re della terra e ti ha fatto conoscere l’ampiezza del suo favore, così che ha acceso in te il desiderio di inviarlo al Principe dei credenti; e che avevi voluto mandare con lui un dono consistente in varie sorta di armi, oggetti, eunuchi e schiave slavi e uccelli da preda addomesticati, ma che l’eunuco non ha voluto portar ciò per timore che ne   giungesse notizia al re che governa   l’Ifriqiya e che questi gl’intercettasse il cammino e lo depredasse, sicché tu hai differito l’ordine d’inviare i doni e hai spedito innanzi l’eunuco perché ritorni a te con la risposta alla lettera e faccia da messaggero tra il Principe dei credenti e te, riferendoti ciò di cui al Principe dei credenti possa venir in mente di aver bisogno nel tuo regno, e riporti da parte sua ciò che tu chiedi che il Principe dei credenti comandi che ti sia donato tra le cose che sono nel suo regno, secondo che il Principe dei credenti deciderà; e che tu manderai con lui al Principe dei credenti i prigionieri musulmani che si trovano nel tuo regno.

E secondo il senso del tuo discorso tu accenni a un accordo che il Principe dei credenti dovrebbe stringere con te e consentire a stringerlo tra sé e te; e fai seguire a ciò la menzione dell’ordine che hai dato all’eunuco di confidargli un segreto in aggiunta a ciò che codesta lettera contiene. Ed egli ha capito ciò.

L’eunuco mi ha riferito che il segreto che tu dici di avergli affidato e nella sua risposta riporterà quello che riferirà, col permesso di Dio.

Salute su chi segue la retta via.

La morte, sulla via del ritorno, del messaggero che recava a Berta la risposta di Muktafì, alla quale indubbiamente sarebbero dovuti seguire altri scambi di messaggi, fece cadere nel nulla l’iniziativa della “regina dei Franchi”.[25].

 Si chiusero così, intuizioni, speranze, progetti.

Se questo non fosse accaduto, se il caso non avesse così sbarrato una porta appena dischiusa, si sarebbero potuti instaurare rapporti diversi con scambi di ambasciatori, di uomini e merci, di idee ed esperienze.

E chissà, forse, due secoli più tardi, se quel fenomeno di colonialismo ante litteram e di intolleranza che furono le Crociate avrebbe potuto aver luogo nelle forme e con gli esiti e le conseguenze che conosciamo, e che, almeno in parte, ancora oggi sono all’origine della reciproca incomprensione fra Occidente e Islam.


Il contenuto ed il linguaggio di questa lettera si può anche comprendere analizzando gli interessi politici ed i rapporti con l’Oriente instaurati dagli avi di Berta.

I cronisti franchi segnalano già nel 765 la partenza di ambasciatori di re Pipino per la corte di Baghdad, ed il loro ritorno tre anni dopo con gli inviati del califfo.

Più importanti furono le relazioni diplomatiche che Carlo Magno instaurò alla corte di Baghdad col grande Harun-el-Raschid, califfo dal 786 all’809 della dinastia degli Abbasidi, uno dei protagonisti delle “Mille e una notte”[26].

Carlo Magno infatti riuscì ad ottenere, dal patriarca di Gerusalemme[27], col consenso quindi del califfo, il titolo di protettore del Santo Sepolcro[28].

A cominciare dal 797 vi furono ripetute e lunghe ambascerie tra l’imperatore cristiano e quello musulmano, che i cronisti franchi chiamavano “Aaron rex Persarum”. Personaggi di rilievo si mossero di continuo tra Aquisgrana e la lontana reggia del   califfato d’Oriente. Celebre e divertente fu quanto seguì all’ambasciata del 797, quando Carlo Magno chiese addirittura al califfo, Harun-el-Raschid, un elefante per i giardini del palazzo imperiale di Aquisgrana. La delegazione era formata oltre che da laici   anche da ecclesiastici, incaricati di deviare su Gerusalemme per chiedere reliquie al Patriarca. Nell’ 801, mentre Carlo, di ritorno dall’incoronazione a Roma, s’avviava verso il Gran San Bernardo, giunto a Pavia, ebbe la notizia che al Porto Pisano erano sbarcati ambasciatori della corte di Baghdad. Inviò una delegazione ad accoglierli e diede udienza, tra Vercelli e Ivrea, ai due ambasciatori arabi. Questi riferirono la loro ambasceria   annunziando che l’ebreo Isacco, già partito nel 797 come interprete, era al Cairo con l’elefante e molti doni del califfo, ma non sapeva come fare ad   attraversare   il mare. Provvide Carlo Magno, che fece allestire navi a Genova per andare ad imbarcare ad Alessandria ebreo ed elefante. Nell’ottobre seguente il pachiderma sbarcò in Lunigiana a Porto Venere; svernò a Vercelli, e, finalmente, il 20 luglio 802 Carlo Magno poté ammirare ad Aquisgrana l’elefante Abous-Abbas e gli altri favolosi doni   provenienti da Baghdad .

Nell’807 un’altra ambasciata del califfo portò da Baghdad ricchi doni, fra cui   tessuti preziosi, aromi e unguenti orientali, un orologio, candelabri, una tenda, insomma “tutte le ricchezze d’Oriente”, concludono abbagliati i cronisti occidentali. Senza dubbio i due imperi erano abbastanza lontani da non doversi temere l’un l’altro, e conveniva loro mantenere buone relazioni formali, non foss’altro per tenere in allarme il comune nemico, l’impero di Bisanzio.

Carlo, peraltro, non abbassava la guardia e a un certo momento giudicò opportuno vietare per legge l’esportazione di spade[29] franche verso i Paesi musulmani, l’unico prodotto artigianale di provenienza cristiana che avesse un mercato in Oriente, a riprova della precoce inclinazione degli Occidentali per la fabbricazione e l’esportazione di armamenti[30].



[1]Egira, (in arabo Higrat = partenza, trasmigrazione; Higrat an.Nabi = partenza del Profeta) parola con la quale per antonomasia si designa la fuga di Maometto dalla Mecca a Medina (16 luglio 622 d.C) ove fondò la prima comunità islamica. Questa data fu scelta poi come inizio dell’era islamica o maomettana.

L’anno musulmano essendo di dieci o undici giorni più breve di quello solare, il 293 ègira ha principio il 2 novembre 905 e fino al 21 ottobre 906. Hamidullah ha congetturato con grande verosimiglianza che l’arrivo dell’ambasciata ebbe luogo nel giugno 906.

-Boccabianca G.M., a. Agnolotto et alii -Nuovissima Enciclopedia Illustrata, vol. III, pag. 126, Istituto Editoriale Italiano, Milano 1958.

– G. Levi Della Vida –La corrispondenza di Berta di Toscana con califfo Muktafi pag. 24, in Rivista Storica Italiana, LXVI (1954), pp. 21,38. fasc. 1.

[2]Calendario cristiano. Per calcolare il tempo nel Medioevo si ricorreva alla convenzione dell’era, cioè a una successione di anni caratterizzata da un evento importante che ne costituiva il punto di partenza. Se ne usarono diverse.

A Lucca fu usato lo stile della Natività o Romano. Fu detto anche anno nativitatis o anno domini e iniziava il 25 dicembre; coincideva con l’anno comune dal 1 ° gennaio al 24 dicembre, mentre anticipava di un’unità dal 25 al 31 dicembre. Fu usato, oltre che a Lucca, nella cancelleria carolingia, nello Stato Sabaudo insieme con lo stile dell’incarnazione, in Lombardia, in Liguria, in Romagna, e, tranne che per Firenze e Venezia nelle bolle pontificie, nel XIII e XIV sec., dove si sostituì a quello dell’incarnazione.

P. Brezzi – STORIA D’ITALIA – Volume III – Dall’Italia feudale a Federico II di Svevia – Istituto Geografico De Agostini – pp. 16,17.


[3] L’anno 293 dell’ègira ha inizio il 2 novembre 905 e finisce il 21 ottobre 906.

[4] Il 17 ° califfo abbaside, che regnò dal 902 al 908.

– G. Levi Della Vida –La corrispondenza di Berta di Toscana con califfo Muktafi pag. 24,   in Rivista Storica Italiana, LXVI (1954), pag. 22. fasc. 1.

[5] Ệ il predicato (amîr al-mu’minîn) spettante al califfo in quanto è considerato capo temporale e religioso di tutti i musulmani.

-G. Levi Della Vida –La corrispondenza di Berta di Toscana con califfo Muktafi pag. 24,   in Rivista Storica Italiana, LXVI (1954), pag. 29.

[6] Ibn al.Aghlab : propriamente Ibrí¢hîm ibn Ahmad, o suo figlio ‘Abdallí¢h ibn Ibrí¢hîm(874-903), della famiglia degli Aghlabiti (Aghiabiti o Aghlabiti), sovrani della regione che corrisponde presso a poco all’odierna Tunisia e Algeria orientale e che gli Arabi chiamavano Ifrîqiya, mutuando il nome latino di Africa.

Essi occuparono la Sicilia nell’827.   Questa dinastia di principi musulmani fu fondata da Ibrahim ibn-el-Ahglab, figlio di Sebim el-Aghlab, il quale regnò dall’800 all’812; si susseguirono altri dieci principi fino a ca. 910.

.-G. Levi Della Vida, La corrispondenza di Berta di Toscana col califfo Muktafì, in Rivista storica italiana, LXVI (1954), pag. 22.

[7] Ifrîqiya: Africa Settentrionale

[8] Dalla biografia di Muktafì composta dallo storico Ubaidallàh vi è una variante che dimostra che il dono surriferito non arrivò a Muktafì, e che nella lettera di Berta figlia di Lotario era detto: “Era mia intenzione mandare un dono con lui – e menziona per disteso i doni – e avevo radunato tutto ciò perché lo prendesse con sé, ma egli disse che temeva che il sovrano dell’Ifrìqya, suo signore, venisse a conoscenza di ciò e venisse a togliere i doni. Io spero che la cosa vada come egli dice, a Dio piacendo, e ch’egli mi riporti la risposta a questa mia lettera diretta te, perché gli ho fatto giurare di far ciò, con giuramenti e impegni quali tu stesso prenderai da lui perché egli faccia da messaggero tra noi. Tutto ciò che possa venirti in mente di averne bisogno, lo avrai, e anche tutto ciò di cui ho bisogno io nel tuo regno, te lo chiedo, e vi sarà tra noi un accordo, e io ti manderò tutti i prigionieri musulmani che possediamo” Dopo di ciò il testo corrisponde a quello dato sopra.

[9] Interessanti rilievi possiamo fare relativamente alla provenienza dei manufatti inviati in dono. Le armi potevano benissimo essere di fabbricazione toscana: le miniere dell’isola d’Elba e quelle del Monte Amiata erano a portata di mano, e di conseguenza la materia prima era a buon prezzo; la produzione di tali manufatti doveva essere piuttosto forte, se la duchessa poteva permettersi di inviare al Califfo cinquanta esemplari per ogni oggetto. E questo era un dono cospicuo, data la scarsa produzione di armi in Oriente, attestataci, per altra via, dai divieti(esistenti già al tempo di Carlomagno) dei Candiani di Venezia di esportare armi nel paese dell’Islam.

– G. Mor –Intorno ad una lettera di Berta di Toscana al Califfo di Bagdad in Arch. Stor. Ital. CXIII (1954), pag. 302.

[10] Molto probabilmente di origine bizantina sono le vesti intessute d’oro: queste stoffe pregiatissime, come attestano Liutprando da Cremona e le Honorantie pavesi, erano sottoposte a stretta sorveglianza ed il loro commercio formava un monopolio regio. Ma non è possibile precisare se Berta le ricevette attraverso il porto di Venezia o da quelli dell’Italia meridionale o direttamente da Costantinopoli, tramite il porto di Pisa.

Preziosi furono i mantelli dipinti di porpora, di provenienza bizantina e acquistati a prezzo sostenuto dai viaggiatori che si recavano a Bisanzio. Fra questi ricordiamo Liutprando da Cremona, al quale sarà rimproverato di andarsene in giro con vesti troppo sontuose e capi adatti a un gran signore o a un mercante bizantino ma indegni di un servo di Cristo. Per cui, nonostante le proteste, gliene saranno confiscati ben cinque.   Tuttavia egli deve averne comperati molti di più. Infatti di un certo numero, di fattura più modesta, gli verrà consentito di fare sfoggio, ma forse egli si decise a venderli. Ce ne resta la prova in un’autorizzazione specifica alla vendita e all’esportazione dei mantelli purpurei mediante un apposito sigillo plumbeo.

L. Gatto, Vita quotidiana nel Medioevo, pag. 24, Editori Riuniti, Roma, 1997.

[11] Quasi certamente dal mercato veneto provenivano gli eunuchi e le schiave slave, poiché sappiamo che la piazza veneziana era quasi l’unica fornitrice di tale “merce”.

[12] Di provenienza nordica dovevano essere i “grandi cani contro i quali non valgono né fiere né altre bestie”: a Pavia arrivavano, con collari d’argento, dalla lontana Anglia, come parte del pagamento forfettario delle dogane già fin dall’epoca longobarda, ed è più che probabile che la Camera regia, a cui di diritto andavano, li mettesse poi in vendita per realizzarne il valore. Le notizie relative alle stoffe pregiate ed ai grossi cani si desumono dalle Honorantie civitatis Papiae e dal commento fattone da A. Solmi, l’Amminstrazione finanziaria del Regno Italico, Pavia 1932

[13] La fabbricazione dei tessuti di seta, fiorentissima nell’Estremo Oriente, trovò un centro operoso in Bisanzio dopo che, nel 539, due monaci vi ebbero introdotto due bachi trafugati in Cina.

[14] Indice di un commercio tirrenico sono, invece, le venti vesti prodotte con le fibre della Pinna nobilis: l’Inostrancev ha rilevato che tale conchiglia (e quindi la relativa industria dell’estrazione della fibra o del succo per colorare il tessuto) si trova solo nei mari di Sicilia e di Spagna, e che la così detta lana penna era pregiatissima nel Medio Evo.

– G. Mor –Intorno ad una lettera di Berta di Toscana al Califfo di Bagdad in Arch. Stor. Ital. CXIII (1954), pp.. 302, 303.

[15] Ä” noto che il possesso di Roma, per tutto l’alto Medio Evo, aveva un significato di pretesa al dominio universale che trovava la sua espressione nel titolo imperiale che portava   come conseguenza l’esercizio della giurisdizione su Roma. Quando Berta scriveva   la lettera al califfo, dopo il 903, la situazione interna di Roma si era evoluta in favore della corte Toscana.

G. Mor –Intorno ad una lettera di Berta di Toscana al Califfo di Bagdad in Arch. Stor. Ital. CXIII (1954), pp. 299-312.

–                    

[16] Letteralmente: “La Massima”. Ệ un epiteto frequentemente attribuito a Roma in scritti arabi dell’età medievale, ed è certamente di origine bizantina. Se esso si trovasse nell’originale latino della lettera di Berta non può naturalmente accertarsi. – -G. Levi Della Vida, La corrispondenza di Berta di Toscana col califfo Muktafì, in Rivista storica italiana, LXVI (1954), pag. 27.

[17] L’interpretazione è talvolta errata, come quando si fa del messaggero ‘Alì un eunuco dell’Aghlabide Ziyí¢datallí¢h, mentre egli era stato catturato prima dell’ascensione al trono di costui; o come quando si afferma che le navi saracene si scontrarono con quelle di Berta mentre muovevano contro “i paesi dei Franchi e le regioni dei Bizantini” mentre in realtà Berta dice di essere stata lei l’assalitrice; o come quando si attribuisce a Berta un richiesta di matrimonio col Califfo.

– G. Levi Della Vida, La corrispondenza di Berta di Toscana col califfo Muktafì, in Rivista storica italiana, LXVI (1954), pag. 32,33..

[18] -G. Treccani – Berta di Toscana, in Dizionario Biografico degli Italiani, Istituto dell’Enciclopedia Italiana vol, 9. Roma, 1967, pp. 431-434 in particolare a pag.434.

[19] G.Mor – Una lettera di Berta di Toscana al Califfo di Bagdad – pag. 308,309, Arch. Stor. Ital. CXIII (1954).

[20]La flotta, lanciata nel VII secolo da Othman, terzo califfo, non riuscirà a sostenere una efficace guerra di corsa.

Gli arabi, come è comprensibile, avevano scarse tradizioni marinare e quando si trovarono di fronte al Mediterraneo ed intuirono le enormi possibilità, in conquiste e bottino, date dal possedere una valida flotta, si adoperarono per apprendere le tradizioni di latini e bizantini.

Adottarono le tradizionali galere a vela latina, con molti remi ed ancoraggio anteriore e posteriore. Anche le tecniche di navigazione nel Mediterraneo alto medievale, erano le medesime sia per i musulmani che per i cristiani.

La scelta tattica che li rese ben presto padroni dei mari, grazie anche al vuoto lasciato dal mondo latino ancora allo sbando, consisteva, secondo la tradizionale strategia araba, nell’evitare ad ogni costo le grandi battaglie navali; gli scontri erano atti di pirateria, scorrerie, raids di indubbia efficacia, come l’azione che portò nell’estuario del Tevere, nell’846, una flotta di 73 navi, con 11000 uomini e 500 cavalli.

La recrudescenza delle incursioni coincise con la nascita di una vera e propria geografia islamica che risale ai primi califfi abbasidi (IX secolo).

Avevano carte nautiche avanzatissime, particolareggiate, precise. E, naturalmente, sapevano navigare.

 Il centro originario della scuola geografica diviene la nuova capitale Baghdad, che vede, presso la “Casa della sapienza” la traduzione araba dei massimi autori greci, da Tolomeo a Marino di Tiro. La geografia che da essa promana è una fusione di tradizione coranica e di eredità classica, ed è per questo che possiamo definirla “greco-islamica”. Qualche decennio più tardi un’altra città dell’impero abbaside, e questa volta la persiana Balkh, vide nascere   una seconda scuola, che si trovò   a sposare alcuni dogmi del credo coranico con rapporti autoctoni, detta pertanto “irano-islamica”, famosa per la creazione di una concretissima geografia e relativi itinerari. Entrambe le scuole sentirono il bisogno di riprodurre graficamente il mondo intero nel perfetto circolo di planisferi che presentano terre emerse e mari interni (e fra questi il Mediterraneo), abbracciati da un anello liquido, ossia l’Oceano Circondante e, quindi, da un secondo anello solido, cioè i leggendari monti Qaf.

Ma al mappamondo seguono inevitabilmente le carte parziali della terra allora conosciuta, una delle quali non può non riguardare quel mare aperto agli Arabi sin dalla battaglia di Yarmuk, e quindi da essi navigato lungo le coste meridionali fino alla   conquista del Maghreb e della Spagna (VII secolo).

Le prime immagini variamente stilizzate del Mediterraneo provengono dalla scuola irano-islamica, per cui questa via d’acqua rappresenta, assieme al Maghreb, l’estrema “manica del gran caffettano che è l’impero abbaside”. Ma bisogna aspettare il grande innovatore cartografico del X secolo, Ibn Hawqal, perché l’Arcipelago Toscano, la Sardegna e le coste toscane abbiano raffigurazione degna sulle acque del nostro mare.

Attraverso i secoli seguenti la letteratura geografica musulmana delinea sempre più particolareggiatamente il Mediterraneo e in esso individua con maggiore precisione le coste della Toscana e della Sardegna, fino a dare di esse immagini di rara perfezione nel periodo che va dal XII al XVI secolo.

I vascelli turchi e barbareschi s’accanirono contro le coste della Liguria e della Toscana con particolare virulenza dal medioevo sino ai primi anni dei XIX secolo. Sbarcavano spesso con il favore della notte, quando il novilunio li metteva al sicuro sotto una coltre impenetrabile di buio. Ma altrettanto spesso, quand’erano   in forze, le loro imbarcazioni, galee e sciabecchi e altri legni spinti dai remi oltreché dal vento, sfidavano le guarnigioni in pieno giorno. Erano marinai che conoscevano il Mediterraneo a menadito. Sfruttavano l’alito di Eolo e i “fiumi” del mare, le correnti, per navigare veloci e dopo le scorrerie a terra, velocemente riprendevano il largo. La Maremma e le isole tutte dell’Arcipelago Toscano vissero per secoli tra paure, incubi e lutti provocati da questi abilissimi corsari. Questi conoscevano ogni anfratto della costa, ogni cala ridossata, ogni bassofondo, ogni spiaggia. Sapevano dove potevano dar fondo all’ancora, dove sbarcare, come avrebbe girato il vento.

– M. Pinna, sta in La Nazione -“Il Mediterraneo e la cartografia musulmana”,

giovedì 9 aprile 1998 – a cura di Riccardo Fontani, Firenze.

[21] G. Mor – Una lettera di Berta di Toscana al Califfo di Bagdad   pag. 310,

Arch. Stor. Ital. CXIII (1954).

[22] Surra man ra’ ậ, “si allegra chi vede”, è l’alterazione artificiosa che fu fatta del nome di Sậmarrậ, un villaggio a nord di Bagdad dove nell’836 il califfo Mu’tasim fece sorgere un sontuoso complesso di parchi e di edifici che per poco più di trent’anni servì di residenza ai califfi e poi fu gradatamente abbandonato.

Levi Della Vida, La corrispondenza di Berta di Toscana col califfo Muktafì, in Rivista storica italiana, LXVI (1954), pag. 26.

[23] La “scrittura franca”   è un termine che si riferiva , nell’uso linguistico arabo, all’Europa occidentale in quanto si distingueva etnicamente, politicamente   e culturalmente dall’Impero Bizantino e dalle regioni abitate dagli Slavi. Ovviamente il termine si diffuse in seguito all’espansione   del regno franco (è verosimile che la prima notizia ne sia giunta agli Arabi d’Oriente dalla Spagna musulmana), e il suo uso attestato fin dal sec. X almeno   dimostrava   l’erronea l’affermazione, spesso ripetuta, che esso sia venuto in uso in seguito alle Crociate. La lettera di Berta ci è giunta attraverso due traduzioni: dal latino in greco e dal greco in arabo.

– G. Levi Della Vida, La corrispondenza di Berta di Toscana col califfo Muktafì, in Rivista storica italiana, LXVI (1954), p. 22

[24] L’epistolografia ufficiale islamica ha come norma la ripetizione quasi letterale del documento al quale si risponde.

[25] G. Levi Della Vida, La corrispondenza di Berta di Toscana col califfo Muktafì, in Rivista storica italiana, LXVI (1954), pp. 21-38; ma cfr. anche Mor C.G,   Intorno ad una lettera di Berta di Toscana al califfo di Bagdad, in Arch. Stor. Ital. CXIII (1954), pp. 299-312, infine vedi Mor, Berta di Toscana, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 9, Roma, 1967. pp. 431-434, in particolare a p. 434.

[26] Gli anni di regno della dinastia degli Abbasidi furono il periodo della civiltà islamica passato alla leggenda come quello delle Mille e una notte. Questa collezione di favole e di romanzi popolari forma l’antologia di scritti arabi più famosa nel mondo. I racconti di ambientazione medievale, traggono origine da molte fonti, tra cui quelle indiane, ma hanno un’atmosfera islamica e contengono molti particolari della vita che si conduceva al Cairo. Benché Harun al-Rashid, il quinto califfo della dinastia Abbaside, appaia come personaggio in numerose fiabe, esse furono scritte e ambientate in un tempo molto posteriore. –

 A.Atmore, P. Avery, et alii. La storia dell’uomo, pag. 151, Selezione del Reader’s Digest, Milano, 1974

[27] Gerusalemme, (in ebraico Jerushalavym) città proclamata, nel 1950, dallo Stato d’Israele cap. della Repubblica. (L’internazionalizzazione della città, votata dall’O.N.U., non è stata riconosciuta né da Israele, né dalla Giordania). Äš situata a S del Monte della Tentazione, a 750 msm. Città santa degli ebrei, cristiani e musulmani, divisa in 4 quartieri secondo le varie religioni) (islamica, cristiana, ebraica e armena). Sul monte Calvario è eretta la chiesa del S.Sepolcro, divisa fra le varie religioni e culti cristiani. La costruzione della chiesa fu iniziata dall’imperatore Costantino nel 325 d.C   e la città portò il nome grecizzato di Hierosolym.

Nel III sec. a.C. Gerusalemme fu abitata dai Gebusei poi dagli Ebrei. Distrutta nel 586 a.C. da Nabucodonosor, fu nuovamente distrutta da Tito nel 70 d.C. Distrutta e ricostruita   col nome di Aelia Capitolina da Adriano nel 132. Questa città aveva in comune con la Gerusalemme precedente solo il sito e qualche basamento del tempo di Erode. Occupata dagli arabi nel nel 637; nel 972 passò sotto il dominio dei Fatimiti,   dinastia araba fondata alla fine del sec. IX da un  Ubaidallah, proclamatosi Califfo discendente di Fatima. Nel 1076 fu occupata dai Turchi Selgiuchidi. Fu sede del regno latino di Gerusalemme dal 1099 al 1187. Passò sotto il dominio dei musulmani d’Egitto, poi sotto i Turchi nel 1517. Durante la G.M.I fu occupata dagli Alleati.

-M Boccabianca, A.Agnolotto, et alii, Nuovissima Enciclopedia Illustrata, volume terzo , pag. 539, Istituto Editoriale Italiano, Milano, 1958.

[28] Harun-el-Raschid pose sotto la sua protezione tutti i pellegrini in Terrasanta e concesse a Carlomagno di costruire un ostello a loro destinato nella stessa città santa. Sfortunatamente l’intesa durò fino al 996 quando salì sul trono del Cairo un califfo fatimide undicenne: Abu Mansur al-Hakim, passato alla storia col nome di Hakim il Pazzo.

– J.M. Landay – La moschea di Omar –pag.75, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1969.

[29] Le lame franche furono le più affilate e ricercate: ad esse fu destinato quasi tutto il quantitativo di ferro disponibile. Pertanto gli strumenti agricoli furono sovente in legno e raramente in ferro .Le   asce e gli   arnesi dei tagliatori di pietra, dei carpentieri e dei   “maestri d’ascia” non potevano tuttavia che essere di ferro, ciò che li rendeva rari e costosi.

L. Gatto, Vita quotidiana nel Medioevo, pag. 23, Editori Riuniti, Roma, 1997.

[30] A. Barbero – Speciale Carlomagno -Traffico d’armi, pag. 106 –Sta in Medioevo,   Anno II,   n. 1 (12) gennaio 1998 – Editore De Agostini – Rizzoli Periodici,   Milano.

Vincenzo Moneta
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1 commento

  1. Commento by Carlo Capone — 4 Maggio 2010 @ 19:28

    “Berta lo mandò a Muktafì con una lettera scritta nella lingua dei Franchi.”

    Sarà una domanda ambiziosa, ma mi sono sempre chiesto quale fosse questa lingua dei Franchi (cosa del resto accaduto per quella dei Longobardi). Il motivo è semplice, a partire dal IX secolo i Franchi si insediarono in Italia da occupanti, non  è esercizio di poco conto domandarsi in quale misura questa lingua, l’idioma dei vincitori, contribuì alla formazione del volgare italiano.  Non possiamo  ritenere che i nobili franchi se ne siano stati sempre da una parte e il popolo  italiota dall’altra, una qualche commistione fra le due etnie, e dunque tra le rispettive parlate, sarà senz’altro avvenuta. E qui il quesito si ripropone: in quanta parte?

    Il problema acquista  spessore se viene riferito non già alla nostra, la cosiddetta lingua del sì, ma a quella dell’oil, vale a dire  la lingua della Francia settentrionale, poi diffusasi a sud fino a misurarsi con la lingua provenzale dell’oc. Nel caso di Oltralpe  non è più possibile  parlare di Franchi invasori o stranieri, essendosi questo popolo stabilito in Gallia dal V secolo. La lingua dei Franchi  ha cioè dato un valido apporto alla nascita di quella dell’oil. E allora, erano così diverse? sappiamo che gli idiomi neolatini proprio da questa fusione hanno tratto origine, ma appunto, si può dire che la  lingua franca dell’VIII secolo fosse neolatina? ora  leggo che circolava già in forma scritta, dunque una sua dignità doveva avercela, ma tutto questo non fa che accrescere la mia confusione. Mi spiego.

    Tempo fa lessi un articolo interessante, l’autore, rifacendosi non ricordo a quali fonti,  rivelava  in che idioma si esprimesse  Carlo Magno.

    Fino a quel momento avevo  pensato che lo facesse in una sorta di francese delle origini. Invece venne fuori che parlava un rozzo proto- tedesco, affermazione credibile, se pensiamo che fissò la sua residenza in Aquisgrana, ma dalla quale discende che dal settimo al decimo secolo  in Francia e Germania si sia parlata  la stessa lingua. Dunque Berta parlava e scriveva in tedesco.

    Ho le idee confuse, lo so, sarebbe possibile ricevere qualche chiarimento?

    Saluti

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