STORIA: I MAESTRI: Occasioni perdute22 Aprile 2014 di Carpendras (Manlio Cancogni) Il venticinquesimo anniversario dell’8 settembre è stato celebrato nei consueti e antichi modi. I rappresentanti del governo e dei partiti, deputati e senatori, non hanno dimen ticato di ricordarci che quella data è all’origine dell’attuale ordinamento dello Stato, della nostra convivenza civile. Un impegno a promuovere una società più giusta, più libera, più moderna eccetera. Tutte cose risapute e che si ascolta no ormai con rassegnazione se non con ironia. Con questo non voglio dire che l’8 settembre, con quel che segue (due anni di guerra civile) non segni una svolta decisiva nella nostra storia. Mi sembra, però, che la sua ce lebrazione quest’anno, dopo eventi tanto drammatici, si sa rebbe prestata a riflessioni più mature e meno convenziona li di quelle che ci hanno propinato i nostri rappresentanti ufficiali, la stampa, la radio e la televisione. Venticinque anni fa, quando cominciò la Resistenza, l’o biettivo immediato era. non c’è dubbio, la liberazione del Paese dai tedeschi e dai loro servi. Questo obiettivo però non sarebbe stato sufficiente a suscitare tanto fervore, se non l’avesse accompagnato un’idea, un sentimento ben più profondo. Il sentimento cioè che, dopo, si avrebbe avuto un’Italia diversa, una nuova società, un nuovo modo di vi vere e di intendere i rapporti fra i cittadini e il potere. Solo pochi anziani pensavano a una restaurazione, sia pure riveduta, della democrazia parlamentare prefascista. Non ricordo che una simile eventualità fosse presa seria mente in considerazione dai partigiani di montagna e di città, anche da quelli appartenenti ai gruppi più moderati, eccettuati forse i monarchici. L’idea che alcuni partiti, una votazione ogni quattro o cinque anni, un’assemblea con qualche centinaio di deputati, fossero sufficienti a soddisfa re le esigenze politiche di un Paese che pretendeva rinno varsi, faceva sorridere quei giovani che stavano mettendo a repentaglio la vita. Neanche la prospettiva di una rivoluzione economica, con un mutamento nei rapporti di proprietà, sembrava suf ficiente. Più importante di tutto pareva il problema del la democrazia. Si voleva che non fosse apparente, sim bolica, ma reale. Si pensava ai modi in cui avrebbe po tuto esercitarsi, fuori degli schemi abituali e logori. E’ allora che divennero per la prima volta attuali termini come autogoverno, autogestione, autonomia, democrazia di retta, federalismo. Si prospettava, sia pure ingenuamente, l’immagine di un’Italia non più centralizzata, di una fede razione di cellule autonome in cui, come nell’antica « po lis », tutti i cittadini avrebbero partecipato direttamente, non per delega, alla gestione del potere. Finita la Resistenza, questa attesa di novità, questo fervo re, si spensero. Dopo pochi mesi, un’estate, la piena rientrò nell’alveo. Furono i partiti a dare l’esempio, compresi quel li rivoluzionari. L’Italia, più che desiderosa di accogliere una nuova democrazia, sembrava appena adatta a restaura re quella antica, la democrazia prefascista, articolata sui partiti, il Parlamento, la votazione periodica. E i giovani? Non facevano eccezione. Per chi scrive è tri ste ricordare come essi accettarono passivamente l’ingres so dei tradizionali partiti e delle loro procedure nell’Università, proprio in quel mondo cioè che pareva più di ogni altro adatto a sperimentare le nuove concezioni di autogo verno. Una volta che in una riunione nella Facoltà di Ar chitettura a Firenze un oratore improvvisato accennò al problema (con un po’ di demagogia disse esplicitamente agli studenti: « L’Università è vostra, governatela voi senza la mediazione dei partiti ») fu accolto più che con freddez za, con diffidenza. Gli studenti pareva avessero fretta di imitare la società politica degli adulti, dominata dal gioco dei partiti intorno al potere. Ed ecco che venticinque anni dopo l’8 settembre, sono lo ro a riproporre il problema, facendo proprie, con aggiorna menti culturali (più che altro di linguaggio) quelle esigen ze che alimentarono vanamente la Resistenza. C’è una stra na coincidenza in queste date. L’8 settembre del ’43, l’ordi namento militare, amministrativo dell’Italia monarchica fece naufragio davanti alla realtà; oggi appare evidente a tutti come non solo le istituzioni ottocentesche della demo crazia parlamentare siano in ritardo davanti allo svilup po industriale e tecnologico del Paese, ma anche le propo ste rivoluzionarie dei giovani. Così la storia si ripete: come sempre l’Italia arriva in ri tardo agli appuntamenti. In questi venticinque anni la sfasatura fra mondo politico e mondo economico è diventa ta enorme, quasi incolmabile. L’Italia economicamente, tec nologicamente è un Paese moderno, proiettato in avanti, con tutto il bene e il male. Ma politicamente? Ci vogliono altri rimedi che l’autogestione, oggi! Oggi la cosiddetta società affluente ci sta proponendo l’i potesi di un governo tecnocratico, concentrato in pochissi me mani, in cui non ci sarà nemmeno più la delega della democrazia parlamentare. La scienza, infatti, bisogna con venirne, non è elettiva. In questo caso la democrazia, già problematica venticinque anni or sono, minaccia di diven tare una pura formula. E’ su questa prospettiva che si do vrebbe riflettere e agire, se non si vuole, come l’8 settem bre del ’43, perdere di nuovo l’occasione. Letto 1284 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||