STORIA: I MAESTRI: Umberto I, il re buono29 Agosto 2011 di Indro Montanelli Umberto I è il meno biografato di tutti i Savoia, almeno da Carlo Alberto in poi. A ch’io sappia, di lui non esisteva fin qui che una brutta agiografia, Il re martire del Pesci. Per saperne di più, bi sogna andare a cercarselo nei diari e negli epistolari dei con temporanei â— il Farini, il Guiccioli ecc. â—, che ce ne offrono solo rappresentazioni frammentarie e indirette. Un po’ dipende dalle scarse attrattive del periodo ch’egli incarna: l’arco di ventisei an ni che va da Porta Pia a Adua, anche se non dei meno im portanti, è dei meno dramma tici della nostra storia contem poranea. Ma vi contribuisce anche â— per dirla in linguag gio televisivo â— la scarsa «chiamata » del personaggio. Alla cosiddetta « Italia umber tina », Umberto dette solo il nome e un taglio di capelli e di baffi. Il carattere glielo dette molto di più sua moglie. Margherita fu forse l’unica donna, nella storia di quella dinastia patriarcale, a sopraf fare con la sua personalità quella del marito, sebbene glie ne mancasse il principale stru mento: il letto. Di letto, fra i due ce ne fu poco; e forse, per il bene di tutti, compresi i Savoia, sarebbe stato meglio che non ce ne fosse punto. Con ciò non vogliamo dire che Umberto fosse effettiva mente e soltanto un « re tra vicello » come lo chiamava L’asino di Podrecca. E se lo fu, bisogna concedergli molte attenuanti. La sua prima di sgrazia fu quella di aver avuto per padre un re che forse non era stato così grande come tut ti dicevano, ma che per tale passava, e comunque un se gno lo aveva lasciato. La se conda fu quella di succedergli nel momento in cui l’Italia si credeva fatta senza esserlo, e pretendeva comportarsi come se lo fosse. * Al compito di guidarla in quella delicata fase post-eroica, Umberto non era stato preparato. Vittorio Emanuele, che amava molto i figli datogli dalla bella Rosina, ora Contessa di Mirafiori, che non quelli legittimi di Maria Adelaide, si era poco curato di lui e della sua educazione. « È purtroppo ignorante – scriveva Silvio Spaventa a suo fratello Bertrando â—. Ha fat to regolarmente gli studi di scuola, ma dopo la scuola non ha fatto altro, non fa altro, e non mi pare abbia voglia di altro ». Nell’ammobiliamento di un re, la cultura può anche rap presentare un « pezzo » pura mente decorativo, e lo stesso Vittorio Emanuele non ne tra sudava. Ma a lui era toccato regnare quando contava molto di più la spada di cui era mae stro. Umberto fu allevato co me se anche lui dovesse reg gersi esclusivamente su quella, né ebbe il naso di suo padre nel fiutare le nuove esigenze del Paese e adeguarvisi. Non sarebbe stata, ricono sciamolo, un’impresa facile per nessuno. Il Risorgimento si era concluso. Anche se non era stato la grande epopea che dicono i suoi apologeti, esso era riuscito a creare un mito, di cui gli eredi non volevano fa re i mantenuti. I figli dei Bixio e dei Manara aspirava no anch’essi ai loro Calafati mi e Ville Glori. Umberto ne condivise le smanie. Del Ri sorgimento a lui non era toc cato che una briciola, e la meno gloriosa: la seconda Custoza, quella del ’66. Anche se il famoso « quadrato di Villafranca », di cui gli storici cor tigiani gli accreditano il me rito, non fu un grande fatto d’armi, dimostrò tuttavia che il giovane principe era un buon Savoia, cioè un corag gioso comandante di reparto, pur senza lampi di strategia alla Moltke. Ma non poteva bastargli. E tutto il suo regno non fu che una corsa dietro il fantasma della gloria militare in cui quella rozza e intrepida dinastia aveva sempre cercato e trovato la legittima zione dei suoi titoli. Nulla poteva essere più in contrasto col clima di un Paese che, dovendo la sua unità soltanto al sopruso di una piccola minoranza, ora aveva bisogno di cucirla integrandovi le mas se, rimaste cospicuamente estranee alla sua formazione. Umberto non lo capì. Non po teva capirlo. Un po’ perché non era molto intelligente di suo, un po’ perché lo avevano preparate a comandare soltan to dei reggimenti, e più che ai reggimenti non fu mai in grado di pensare (le divisioni e i corpi d’armata erano già al di là dei suoi orizzonti). Gran donna come donna. Mar gherita non gli fu di grande aiuto come regina perché, an ch’essa Savoia per metà, l’altra metà tedesca di Sassonia, la pensava allo stesso modo. * Umberto, in casa ci stava poco. Quando erano a Mon za, teneva compagnia alla mo glie durante i pasti, ma senza parteciparvi perché subito do po andava a mangiare dalla sua amante, la duchessa Litta, che aveva per comodità accasato in fondo al parco della villa Reale. Anche que sta era una tradizione di fa miglia: i Savoia le loro donne le avevano sempre trattate co sì. Ma anche in quei brevi intervalli coniugali, i suoi pol moni si gonfiavano di ossigeno militaresco perché per Marghe rita l’Italia « buona » era quel la delle caserme; il resto non era che canagliume, compreso il parlamento, anzi soprattutto il parlamento. Crispina arrab biata, anch’essa contribuì a spingere Umberto nella Tripli ce, che nei suoi intendimenti non era soltanto un patto di politica estera, ma anche una scelta di regime. Guglielmone le piaceva perché si fidava sol tanto dei generali e insolen tiva i ministri. Avrebbe volu to che il suo â— per modo di dire â— Umberto facesse altrettanto. E Umberto magari l’avrebbe anche accontentata, se avesse avuto a disposizione dei generali prussiani. Ma non ne aveva che d’italiani… A una politica cosiffatta, che sacrificava le magre risorse del Paese alle spese militari e non aveva di mira che gl’ingran dimenti territoriali, non resta va che l’avventura coloniale. Su queste pericolose strade gl’italiani si mettono sempre allo stesso modo, cioè facendovisi precedere da una canzo netta. « Nel caldo dei deserti â— e tra l’arena ardente â— insegneremo a vivere ai negri civilmente » diceva una del 1885, l’anno dello sbarco a Massaua. E’ la nonna di « Faccetta nera ». Il resto è noto. Ma forse non lo è al trettanto lo scambio di lettere fra re Umberto e Menelik, da cui il sovrano abissino esce quasi più trionfante che dalla battaglia di Adua. C’è da chiedersi quanto l’u miliazione di questa disfatta abbia contribuito ad armare la mano di Bresci. L’anarchi smo italiano non era frutto soltanto della povertà e delle ingiustizie. Esso era alimen tato anche dalle mortificazioni del sentimento nazionale e da una confusa volontà di rivalsa che cercava nel re il capro espiatorio. Non per nulla incubava soprattutto nei centri di raccolta dei nostri emigrati all’estero, dove più forte era questo sentimento di frustrazione, e donde anche Bresci venne. Anche a costo di passare per cinici, noi crediamo che il re gicidio di Monza abbia con tribuito alla causa monarchi ca molto più di tutti i rituali con cui essa cercava di accre ditarsi nel cuore del popolo. Comunque, contribuì moltissi mo a dare qualche rilievo a un re che non ne aveva punto e che era stato chiamato « buo no » perché non si sapeva qua le altra qualifica attribuirgli. Uomo coraggioso, Umberto da va il meglio di sé proprio in queste emergenze. Lo si era vi sto anche a Napoli, quando il cuoco Passanante gli si era avventato addosso col suo pu gnale. Umberto era rimasto impassibile. E anzi, poco dopo, invitando i suoi ospiti a prender posto a tavola, aveva detto: « Non facciamo aspettare i cuochi. Avete visto di che cosa son capaci ». Una battuta da « Re Sole ». * Ora finalmente, di questo sovrano fin qui piuttosto negletto, abbiamo un avvincente e convincente ritratto. L’ha scritto Ugoberto Alfassio Gri maldi e l’ha pubblicato l’edi tore Feltrinelli (Il re «buono », 470 pagg., L. 3.000). Oltre che professore di storia, Grimaldi è anche vice-direttore di Cri tica sociale, e si sente perché questa rivista viene citata con un’insistenza che rivela un al tissimo patriottismo, di gior nale. Per scrupolo critico, avanziamo due riserve. La prima riguarda l’angolatura del libro, nettamente sociali sta. Non discutiamo la sua legittimità, che anzi trova in noi dei simpatizzanti. Discutiamo il suo calco, un po’ troppo ostentato. Una tesi, si sa, c’è in ogni libro di storia (e se non c’è, non c’è nulla). Si tratta di non farla troppo sentire, e Alfassio a questo non sempre bada, guadagnan dovi in sincerità e perdendoci in efficacia. L’altro appunto riguarda il dosaggio della sua ricostruzio ne. Alfassio deve aver consul tato tonnellate di materiale. Ma il lettore glielo perdo nerà facilmente perché anche quelle sono scritte da una ma no che sa rendere essenziale perfino il superfluo. Non conosco Alfassio che di nome. Non so se questo sia il suo primo libro. Ma spero comun que che non sia l’ultimo. Di storici che sappiano la storia, in Italia ce ne sono â— credo â— parecchi. Ma che sappiano anche scriverla, ne conosco ben pochi. Alfassio è sicura mente di questi. Letto 2805 volte. | ![]() | ||||||||||
Commento by Carlo Capone — 29 Agosto 2011 @ 16:30
Una lingua apollinea, grande Montanelli.
Grazie Bart
Commento by Bartolomeo Di Monaco — 29 Agosto 2011 @ 16:49
Chi sa che cosa avrebbe scritto oggi, con questa situazione politica caotica…