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STORIA: Il processo a Cristo

2 Maggio 2019

(da “I grandi processi della storia†â€“ edizioni Ferni – Ginevra 1975)

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(omissis)

… ai margini del culto ufficiale, covava nelle masse l’antico sogno profetico di un intervento massiccio di Dio-Jahvè per mezzo di suoi inviati straordinari. Se i sacerdoti, i Sadducei, i Farisei e gli Scribi predicavano e raccomandavano la fedeltà alla Legge di Mosè, il popolo in cuor suo era per una fedeltà all’attesa.

Fermiamo la nostra attenzione su questa attesa. Attesa di chi? Di un personaggio semi-divino che un giorno sarebbe apparso ad Israele sofferente per liberarlo dalle catene e portarlo al trionfo su tutti i popoli della terra. Il protagonista di questa esaltante vicenda finale è il Messia. Il Messia, ossia il « grande Eletto », ovvero l’« Unto del Signore », era stato promesso dagli antichi profeti come vendicatore, liberatore, glorificatore d’Israele. Era da due secoli che le genti di Giuda lo attendevano; e da una cinquantina d’anni, esattamente dopo la conquista di Gerusalemme fatta da Pompeo nell’anno 63, l’attesa era diventata sempre più impaziente. Sui modi e i tempi di questo avvento straordinario, le opinioni divergevano: chi aspettava l’Avvento sui segni inconfondibili di una terribile catastrofe cosmica e chi invece aspettava la redenzione attraverso l’opera e la predicazione del Messia, preceduto da un profeta ispirato. Ai tempi di Gesù si riteneva concordemente che il Messia sarebbe disceso dalla stirpe di Davide, come affermava la tradizione. Esso si sarebbe chiamato « figlio d’uomo », doveva essere il bastone di sostegno per il giusto, la luce delle nazioni; davanti a lui si sarebbero prostrate le genti, perché, come aveva profetizzato Isaia, « in lui dimorano lo spirito di sapienza e lo spirito che rischiara, lo spirito di coloro che si sono addormentati nella giustizia ». (Da notare: che si sono addormentati nella giustizia, non nella speranza.) Questa fede apocalittica, messianica, era viva nelle classi popolari, le quali, o per ignoranza o per impossibilità materiale, trascuravano l’osservanza delle leggi. Non è senza ragione che sacerdoti, Scribi e Farisei richiamavano gli apocalittici appunto « popolari », s’intende in senso peggiorativo. I « popolari » erano considerati cattivi giudei: non sapevano recitare preghiere, non sapevano dire correttamente i salmi, non erano assidui alle funzioni, non erano corretti nel rituale liturgico, mangiavano senza aver fatto le abluzioni, non pagavano le decime. La polemica in cui vedremo Gesù impegnato contro questi mastini dell’ortodossia formale non è che l’eco di un conflitto preesistente

Naturalmente diverso era l’atteggiamento nei confronti della potenza occupante, vogliamo dire dei romani. I sacerdoti, i Sadducei e i Farisei erano, come si direbbe oggi, « collaborazionisti » per opportunismo e per ragioni di Stato. Convinti com’erano della impossibilità di sloggiare i romani, si rassegnavano al loro dominio come a un male minore, cercavano di restare in buoni rapporti con i procuratori, al fianco dei quali governavano in un regime di cogestione. I « popolari », cioè gli apocalittici, in pratica le plebi, vivevano invece in uno stato di attesa febbrile. Al loro sentimento religioso si mescolavano il fanatismo nazionale, la speranza del riscatto politico, l’odio contro la potenza occupante, contro l’infedele e l’oppressore, contro i detentori del potere, in una parola contro coloro « che contavano ». Più di una volta l’ala estremista dei « popolari » aveva suscitato vampate rivoluzionarie di fanatismo religioso-nazionalistico, spente prontamente nel sangue dalle spade dei legionari. Gli spiriti erano accesi; l’atmosfera, tesa.

E’ in questo clima rovente e divorato dall’attesa che in un anno imprecisato tra il ventisei e il trentacinque (è il decennio circa durante il quale Ponzio Pilato è procuratore della Giudea) Gesù irrompeva improvvisamente sulla scena…

E quel Gesù non era che uno dei tanti, e forse nemmeno l’ultimo. Ma a lasciarlo fare che cosa sarebbe successo: avrebbe continuato a far miracoli sempre più spettacolari, le folle avrebbero continuato ad accorrere a lui sempre più numerose… Un giorno o l’altro i romani â— c’era da aspettarselo â— avrebbero perso la pazienza: che cosa era quella baldoria di esagitati? Via tutti! Sarebbero sopraggiunte le truppe stazionanti in Palestina ed eventualmente anche quelle di Siria… e sarebbe successo quel che poteva succedere, una dura repressione con strage di giudei, distruzione del luogo santo e della nazione intera… e addio anche parvenza d’indipendenza, addio pace, addio prebende â— parliamo dei notabili. Sì, il pericolo c’era, ed era grave. In un modo o nell’altro occorreva provvedere.

Come? Liquidando quell’uomo? Sembra che all’assemblea dei notabili partecipasse anche il Sommo Sacerdote in carica, Caifa. Ci atteniamo naturalmente alla versione dell’evangelista. Dopo aver ascoltato le varie proposte sul da farsi, il Sommo Sacerdote avrebbe chiesto la parola : voi non avete capito un bel niente â— dice. Che cosa c’è da fare? Una cosa sola: far morire quell’uomo, affinché la nazione ebraica sia salva.

Caifa non ha fatto nomi, ma è chiaro che si riferiva a Gesù di Nazareth. Il Sommo Sacerdote aveva parlato come uomo politico e nell’interesse della casta sacerdotale: nulla vieta di credere che in cuor suo ammettesse che quel Gesù in fondo non era peggiore di tanti altri guaritori, non era poi quel rivoluzionario che alcuni sacerdoti facevano apparire ; forse era anche innocente, come doveva aver fatto notare qualche presente all’assemblea; ma qui era in gioco l’esistenza, anzi la sopravvivenza della nazione, e soprattutto gli interessi costituiti della casta.

« Da quel giorno, pertanto, deliberarono di ucciderlo »: così l’evangelista.

Questa specie di condanna a morte dovette giungere a Gesù, attraverso gli apostoli o qualche simpatizzante che l’aveva risaputa. Da quel momento, per evitare incidenti, il Galileo cerca di mostrarsi il meno possibile in pubblico. E, per cominciare, lascia la zona di Gerusalemme e si ritira con i suoi discepoli in una città detta Efraim, ai margini del deserto, a circa venticinque chilometri da Gerusalemme.

Qui, a quanto pare, si trattiene pochi giorni. Intanto la Pasqua, la più grande solennità religiosa ebraica, s’avvicinava. Già si vedevano passare le prime comitive dirette a Gerusalemme. In ottemperanza al deliberato dell’assemblea, i « sommi sacerdoti e i Farisei », come scrive Giovanni, « avevano dato comandi affinché, se alcuno conoscesse dov’era, lo indicasse, cosicché lo catturassero ».

Ciononostante, incurante del pericolo, nei primi giorni del mese di Nisan, Gesù abbandona il suo ritiro di Efraim e si mette in viaggio verso Gerusalemme. Probabilmente, per depistare eventuali agenti dei sacerdoti, prende la strada più lunga, quella che costeggiando il fiume Giordano passava per Gerico. I discepoli non erano tranquilli. Fiutavano nell’aria qualcosa di incerto, di torbido. Sentivano odore di tragedia. Camminavano riluttanti, lentamente, come se avessero paura di arrivare a destinazione. Gesù procedeva avanti, solo. Sembra che la comitiva fosse articolata in due gruppi : il primo, quello degli apostoli e di qualche amico affezionato; il secondo gruppo veniva dopo, distaccato, e lo formavano discepoli cui s’erano aggiunti, mescolandovisi, pellegrini e curiosi diretti a Gerusalemme, a cui non pareva vero di fare la strada con gli amici dell’uomo di cui si parlava tanto. A un certo punto, ecco profilarsi di lontano le colline della città santa. Gesù fa avvicinare con un gesto i dodici apostoli per significare che voleva comunicare qualcosa di importante. Ha un oscuro presentimento, uno di quei momenti di défaillance che di tanto in tanto assalgono le grandi anime sensibili. « Ecco », dice, « saliamo a Gerusalemme, e il figlio dell’uomo sarà consegnato ai sommi sacerdoti e agli Scribi, e lo condanneranno a morte, e lo consegneranno ai pagani, e lo beffeggeranno e lo sputacchieranno e lo flagelleranno e uccideranno ». Riportiamo le parole tali e quali sono registrate dall’evangelista.

(omissis)

Siamo a mercoledì, 13 Nisan (12, secondo Giovanni), vigilia della Pasqua.

La pasqua ebraica era una grande solennità. Si celebrava nel mese di Nisan, cadeva nella metà del nostro marzo, probabilmente la sera del giorno quattordici; essa si riconnetteva immediatamente con la « festa degli azimi », la quale si celebrava nei sette giorni seguenti : vale a dire dal quindici al ventuno di Nisan. La solennità religiosa durava perciò pratica- mente otto giorni, e cioè dal quattordici al ventuno, ed era chiamata sia Pasqua sia Azimi. Cosa significava agli effetti pratici? Significava che dalle ore dieci del giorno quattordici di Nisan ogni minimo frammento di pane fermentato doveva scomparire da tutte le case giudaiche, essendo rigorosamente prescritto per il resto di quel giorno e per tutti i sette giorni seguenti l’uso del pane azimo. Nel pomeriggio dello stesso giorno quattordici avveniva poi l’immolazione delle vittime pasquali, cioè degli agnelli. L’immolazione aveva luogo nell’atrio interno del Tempio…

Lo faceva personalmente il capo di famiglia o del gruppo che recava l’agnello; il sangue veniva accuratamente raccolto, consegnato ai sacerdoti, i quali a loro volta lo spargevano presso l’altare degli olocausti; immediatamente dopo l’immolazione, sempre nell’atrio del Tempio, la vittima era spellata, quindi svuotata di alcune parti interne: dopodiché l’animale era riportato nella famiglia o nel gruppo a cui apparteneva.

Facile immaginare lo spettacolo che offriva l’atrio del Tempio: quello di un vero e proprio carnaio sanguinolento. Si sa che l’affluenza dei giudei provenienti sia dalla Palestina sia dai paesi della Diaspora era enorme; e poiché l’atrio non poteva contenere tutti insieme, né tantomeno tutti insieme potevano scannare gli agnelli, erano stabiliti turni: e fra un turno e l’altro si chiudevano le porte d’accesso. Per farci un’idea, risulterebbe â— stando allo storico Giuseppe Flavio â— che nell’anno 65 d.C., al tempo di Nerone, in un solo pomeriggio pasquale furono scannate ben 255.600 vittime: un colossale sterminio di agnelli.

Una volta riportato in famiglia, ciò che restava dell’agnello spellato e svuotato delle interiora, veniva subito arrostito la sera stessa per il cosiddetto banchetto pasquale. Esso cominciava dopo il tramonto del sole per prolungarsi fino alla mezzanotte, qualche volta anche oltre. Alla mensa partecipavano non meno di dieci persone, comunque non più di venti. Esse prendevano posto sui divani, sdraiandovisi alla orientale in maniera concentrica alla tavola delle vivande. Era stabilito che sulla stessa circolassero almeno quattro coppe di vino; si cominciava mescendo la prima coppa e, recitando una preghiera, si benediceva in primo luogo la giornata festiva, poi il vino, o viceversa (secondo un’altra scuola rabbinica). Quindi le coppe erano portate in tavola; con le coppe, il pane azimo, erbe agresti ed una salsa speciale, nella quale s’intingevano le erbe: dopo di ciò arrivava l’agnello arrostito. A questo punto si mesceva allora la seconda coppa, e il capo di famiglia, dopo una domanda convenzionale che gli rivolgeva il figlio, faceva un piccolo discorso per spiegare il significato della festa: ricordava i benefici del Dio Jahvè verso la prediletta nazione e la liberazione dall’Egitto. Mentre si consumava l’agnello arrostito insieme con le erbe agresti, appariva sulla tavola la terza coppa. Poi si passava a citare la prima parte dell’inno dei salmi ebraici; seguiva una benedizione; finalmente incominciava il vero banchetto…

Data dunque l’imminenza della solennità, non c’era più un minuto da perdere. Bisognava decidersi. E’ vero che in un precedente incontro si era convenuto di soprassedere, di lasciare tempo al tempo, e ciò per evitare complicazioni d’ordine pubblico o, peggio ancora, una sollevazione di massa. Ma era anche vero che, soprassedendo, lasciando ancora a quel Galileo libertà d’azione, che cosa sarebbe successo per esempio se la folla presente a Gerusalemme in occasione della Pasqua, colta da un raptus di esaltazione, si fosse lasciata andare a qualche atto inconsulto? Avesse acclamato per esempio quel Galileo re d’Israele? E’ noto che per le grandi feste religiose i romani erano soliti rinforzare la guarnigione di stanza nella città santa e schierare i soldati lungo il portico del Tempio, pronti ad intervenire in caso di tumulti. Al primo subbuglio, il procuratore Pilato non avrebbe esitato a far caricare la folla e a imporre lo stato d’assedio con tutto quello che ne sarebbe seguito. Insomma, si sarebbe dato ai romani un pretesto per intervenire, quel pretesto che essi aspettavano? Non si poteva proprio far sparire quell’intruso di Galileo, in un modo o nell’altro?

Un modo forse c’era: con l’inganno. Scrive l’evangelista Matteo: «Allora si radunarono i sommi sacerdoti e gli anziani del popolo nel palazzo del Sommo Sacerdote Caifa, e deliberarono di catturare Gesù con inganno e di ucciderlo; tuttavia dicevano: Non durante la festa, affinché non avvenga tumulto nel popolo. » Ma appunto qui stava la difficoltà: Gesù passava tutta la giornata in mezzo al popolo ; la sera, seguito da pochi fidati, lasciava la città e si rifugiava a Betania.

La soluzione venne inattesa, proprio ad opera di un amico intimo di Gesù, uno dei dodici apostoli : Giuda Iscariota. La tradizione evangelica ci dà con poche parole una versione meccanica del tradimento. Giuda si sarebbe recato dai sacerdoti ed avrebbe detto loro: « Che cosa mi date se io ve lo consegno ? » Quelli avrebbero stabilito il prezzo in trenta monete d’argento. « E da allora », prosegue il testo evangelico, « Giuda cercava un’opportunità per consegnarlo ». L’« opportunità » si sarebbe presentata facilmente. La Pasqua avrebbe impedito a Gesù di raggiungere come il solito Betania, costringendolo a pernottare a Gerusalemme; era quella l’« opportunità » cui si riferiva Giuda per mettere le mani sul suo Maestro, e consegnarlo ai Farisei? E’ probabile.

Il tradimento di Giuda: ma quali ragioni aveva questo apostolo di tradire il suo Maestro? Si sa come la tradizione spiega il gesto: per lucro, per trenta monete, per essere precisi, trenta sicli d’argento (ogni siclo, quattro dramme, ossia quattro denari). Sta bene. Ciò che resta da spiegare è lo strano comportamento di questo traditore per cupidigia due giorni dopo. Ma come? Non esita a denunciare il proprio Maestro per trenta sicli, poi quando sa che è stato condannato, va a riconsegnare il denaro e ad impiccarsi ? Non è cosi per la verità, che reagisce il tipico avaro: quale che fosse stata la sorte di Gesù, egli si sarebbe ritirato affrettandosi a sparire dalla scena. Invece no. L’uomo tradisce, poi si pente, arriva al punto, veramente inconsueto per un avaro, di restituire il denaro pattuito; fa di più, arriva al gesto, veramente inconsueto per un cinico qual è appunto l’avaro, di mettersi la corda al collo. No, ci deve essere stata qualche altra ragione: questa è almeno l’opinione della maggior parte dei critici moderni.

Non è da escludere un malinteso, del resto facilmente comprensibile. Non è da escludere cioè che seguendo quello strano tipo di Gesù che non perdeva un’occasione per far intravvedere l’avvento di un nuovo regno senza peraltro precisarne bene la natura, non è da escludere, dicevamo, che, come buona parte dei suoi amici, Giuda nutrisse una segreta speranziella: quella cioè di avere, nel nuovo regime promesso, un posto di rilievo. Si veda ad esempio l’episodio, riferito altrove, dei fratelli Giovanni e Giacomo, figli di Zebedeo, e della loro madre, sulla strada di Gerico: nel tuo nuovo regno, ricordati dei miei due figlioli â— dice la madre a Gesù. â— Sono due bravi ragazzi, si sono dati da fare per la tua causa, hanno persino piantato le loro barche e il loro lavoro per venirti appresso; dunque hanno dei meriti, dunque devono essere ricompensati…

E’ probabile dunque che Giuda Iscariota covasse anche lui questa piccola ambizione â— e come escludere che lo stesso buon Pietro non ne avesse anche lui? Senonché, avuta la sensazione che l’uomo che seguiva e sul quale aveva puntato la propria carriera, altro non era che un visionario, un ingenuo rivoluzionario, completamente sprovvisto di senso politico, che non avrebbe fondato mai alcun regno, né fatto seriamente alcuna rivoluzione, a questo punto si sarebbe deciso a mollarlo, tanto più che i sacerdoti gli avrebbero fatto capire che, in cambio del servizio, avrebbero dato un colpo di spugna sui suoi trascorsi al seguito del Nazareno.

Certo, la figura di questo Giuda Iscariota â— che resta probabilmente l’uomo più diffamato ed esecrato di tutti i secoli â— è complessa. Giuda, a quanto ne sappiamo, fungeva da ragioniere, da economo nella piccola comunità: Gesù si poteva permettere le sublimi distrazioni dei grandi inseguitori di chimere; ma era lui, Giuda Iscariota, che doveva provvedere alle piccole necessità: trovare i soldi, farli bastare, distribuirli, controllare le uscite e pareggiarle con le entrate, comperare da mangiare per la comitiva. Il Maestro poteva ben sognare; ma lui aveva il dovere di restare con tutti c due i piedi sulla terra. Non c’è dubbio che personalità del genere sono estremamente allergiche ai sogni, sono sempre le prime ad afferrare l’aspetto visionario degli uomini; e non appena Giuda ne ebbe la certezza, o almeno l’impressione, si chiese se non perdeva tempo in quella comitiva di sempliciotti. Verosimilmente trasse le uniche conclusioni che in circostanze del genere si traggono: abbandonare quel perdigiorno, e mettersi a disposizione dei sacerdoti. La questione della mercede â— cioè dei trenta denari, o meglio dei trenta sicli â— è secondaria. II servigio era prezioso, e i sacerdoti glielo pagavano.

Ma chi sa qualcosa di ciò che fu combinato tra lui e i maggiorenti? Dove attingere notizie? Ai Vangeli? Ma i Vangeli â— ce lo perdoni li lettore â— fino a che punto ci danno una versione storicamente attendibile? Su questo punto e altrove â— ci perdoni anche questo il lettore â— i quattro Vangeli sono leggermente viziati.

D’altra parte, tra le tante ipotesi sul tradimento di Giuda, perché non considerare anche questa: ben lungi dal volere tradire il suo grande amico, Giuda voleva soltanto neutralizzare Gesù durante il giorno cruciale della Pasqua, per evitare incidenti con i romani, d’accordo in questo anche con i sacerdoti. Insomma, ciò che voleva, non era un arresto, ma un fermo cautelare per ragioni d’ordine pubblico. Ma quando sa che il fermo si è tramutato in arresto, e l’arresto in processo, e il processo si è concluso in una condanna a morte, egli corre dai sacerdoti, dopo aver rinfacciato loro di non essere stati ai patti, compie un gesto infame e nobile: quello di buttare le monete del tradimento nel Tempio, praticamente in faccia al Dio-Jahvè.

Spunta il giovedì (solita controversia: 14 Nisan secondo i Sinottici, 13 Nisan secondo Giovanni): era il primo giorno degli Azimi, quando, come dice Marco, « immolavano la Pasqua ». La celebrazione del solenne rito imponeva il rituale del banchetto dell’agnello. Quella notte bisognava dunque restare a Gerusalemme, la comitiva doveva rinunciare a ritirarsi a Betania come le notti precedenti. « Dove vuoi che andiamo a preparare affinché tu mangi la Pasqua? », chiedono gli apostoli al Maestro. E Gesù: « Andate in città… », avrebbero incontrato un uomo con una brocca d’acqua, lo seguissero; sarebbe entrato in una casa, entrassero anche loro, chiedessero del padrone, gli domandassero dov’era la stanza per la celebrazione della Pasqua; egli avrebbe mostrato loro una sala superiore…

Chi poteva esser questo generoso padrone di casa? Forse un segreto simpatizzante di Gesù? Forse Nicodemo, forse Giuseppe d’Arimatea, forse un parente dell’apostolo Marco? Non è dato di sapere.

Che nel corso di quella cena pasquale sia avvenuto qualcosa di straordinario â— in dolcezza, tristezza e, bisogna dirlo, in tradimento â— è fuori discussione. La minaccia di un invisibile pericolo sovrastava gli astanti. Certamente, da buoni osservanti della Legge, i presenti dovettero seguire con scrupolo il rito della cena pasquale: le quattro coppe di vino con il pane azimo, le erbe agresti, l’agnello arrostito: Gesù, da padre di famiglia, benedice la prima coppa…

Prima che la cena avesse inizio, Gesù dovette assistere a una di quelle scene penose che gli facevano tanto male al cuore: in uno scoppio di arrivismo, gli apostoli si mettono a litigare per il posto: ognuno lo vuole più « onorifico » degli altri â— il che vuol dire il più possibile vicino a Gesù. Che cosa credevano quei materialoni? Troppe volte Gesù aveva parlato di un suo regno… ma evidentemente era sempre stato frainteso.

Umiliato da quello spettacolo deprimente, il Maestro trova, anzi « inventa » uno di quei gesti imprevedibili che gli erano propri nei momenti più felici e che avevano il potere di sconvolgere le coscienze. Ai suoi amici darà una superba lezione di umiltà… Che fa? Si alza dal divano, depone le vesti, si cinge al grembo un pannolino e, preso un catino pieno d’acqua, comincia a lavare i piedi ai commensali, uno per uno. Signore, tu mi lavi i piedi ? protesta il solito Pietro. Sì â— risponde Gesù â— poiché se non ti avrò lavato, tu non avrai parte con me. Allora lavami anche le mani e il capo â— ribatte Pietro nel suo slancio infantile. E Gesù: « Chi si è lavato non ha bisogno di lavarsi, ma è mondo interamente; e voi siete mondi, ma non tutti… » Alludeva al tradimento? Alludeva a Giuda? Che cosa era giunto al suo orecchio? Un senso di cupo sospetto veniva a gravare improvvisamente sulla comitiva.

Poiché la tavola era a semicerchio e i divani erano disposti radialmente all’esterno del semicerchio, si può approssimativamente congetturare che Gesù occupasse il divano centrale al vertice del semicerchio; approssimativamente dunque la posizione dei commensali attorno alla tavola doveva essere questa: in mezzo Gesù, alla sua destra Giovanni, alla destra di Giovanni, Giuda; quindi, alla sinistra del Maestro, Pietro.

L’atmosfera era stata turbata dalle parole del Maestro: « Chi si è lavato non ha bisogno di lavarsi, ma è mondo interamente; e voi siete mondi, ma non tutti… » Lo spettro di un traditore aleggiava dunque nell’aria. Con grande delicatezza Gesù però non desiderava tornare sull’argomento. Soltanto più avanti, probabilmente in un momento di sconforto, Gesù non sa trattenersi: riecheggiando il passo di un salmo ebraico: « Chi mangia il pane mio alzò contro di me il suo calcagno », dice. Annota l’evangelista Giovanni, testimone oculare e, in questo momento, il più vicino a Gesù, che, detto ciò, « fu turbato nello spirito », e aggiunse subito dopo, senza nominare alcuno : « In verità, in verità vi dico che uno di voi mi tradirà ».

Le parole di Gesù cadono in un silenzio glaciale. Il Maestro parlava di tradimento, e ne parlava ora? E’ comprensibile che alla grave dichiarazione di Gesù ognuno s’affretti a chiedergli: «Sono forse io, Signore ? » Alle richieste che venivano fatte da ogni lato della tavolata, sembra che Gesù abbia confermato ad alta voce le parole dette prima, astenendosi sempre dal fare nomi, ma aggiungendo un dettaglio che lì per lì parve singolarissimo: «Chi intinge con me nel vassoio! ». L’affermazione lasciava comunque tutto nel vago, poiché tutti i commensali intingevano il pane e le erbe amare in vassoi comuni che contenevano la salsa pasquale; e ciascun vassoio poteva benissimo servire a circa tre persone. Certamente Gesù si riferiva al vassoio in cui intingeva lui stesso: « con me », aveva detto. Allora, chi poteva essere? Il gruppo è lì: in centro Gesù; alla sua sinistra, Pietro; alla sua destra, Giovanni; alla destra di Giovanni, Giuda. Dunque, Giuda?

(omissis)

(Giovanni, 18, 1-2) : « Avendo detto queste cose, Gesù uscì con i discepoli suoi di là dal torrente del Cedron, ove era un giardino nel quale entrò egli e i discepoli suoi. Sapeva però il luogo anche Giuda, che lo tradiva, perché spesso si era raccolto colà Gesù con i discepoli suoi ».

Il luogo al di là del torrente Cedron è chiaramente il giardino chiamato del Gethsemani, che in lingua ebraica significava « torchio d’olio », un oliveto sicuramente munito di frantoio e protetto da un recinto, lungo la strada da Gerusalemme a Betania. Il cammino dal cenacolo all’orto del Gethsemani era breve. « Una comoda passeggiata », la chiama il Ricciotti. E’ primavera, l’aria è frizzante. Nella chiara notte di plenilunio gli amici di Gesù scendono dal cenacolo dalla Città Alta seguendo un’antica strada a gradini; attraversano il quartiere del Siloe, la mitica piscina adibita a canale sotterraneo che raccoglieva le acque della fonte di Gihon convogliandole e introdu cendole dentro la città; escono quindi dalla città per la Porta della Fonte, risalgono verso nord, oltrepassano il Cedron e raggiungono il giardino del Gethsemani.

Il giardino doveva essere di proprietà, se non di qualche discepolo, certamente di qualche ammiratore di Gesù: pare che il Maestro fosse autorizzato a servirsene liberamente. Come quasi tutti i piccoli poderi di quel tipo, anche il Gethsemani doveva avere vicino all’ingresso una specie di casupola per il guardiano e per deposito di roba; più in là doveva esserci anche una grotta scavata nel fianco del monte, e nella grotta il torchio che dava il nome al luogo.

Giunti che sono al giardino, Gesù invita la comitiva a sistemarsi alla meglio per passare la notte, cosa facilissima in quei tempi e in quei luoghi ; si sa che gli orientali erano abituati a dormire all’aperto rannicchiati nei loro mantelli. Questa volta però hanno il vantaggio di un ricovero e di foglie secche nella casupola o nella grotta. Congedandosi da loro Gesù, dice « Restate qui, mentre io vado più in là a pregare ». E aggiunge : « Pregate per non entrare in tentazione! ». Al momento di allontanarsi, prende con sé tre apostoli â— gli stessi della Trasfigurazione, i prediletti Pietro, Giacomo e Giovanni.

Rivediamo insieme la scena, collocata dagli evangelisti su un « Monte Eccelso ». Molti studiosi moderni ritengono si tratti dell’Hermon, la cui cima più elevata raggiunge i 2759 metri sul Mediterraneo â— montagna contesa recentemente tra Siriani e Israeliani. Impossibile stabilire con precisione la data della Trasfigurazione: da diversi elementi frammentari è possibile grosso modo ricostruire la stagione, probabilmente l’estate. La strada per arrivare alla sommità era lunga, la salita molto faticosa; il caldo era soffocante, i viandanti giunsero sul posto stanchi. I tre discepoli, preparatosi alla meglio un giaciglio, « si misero a dormire » (Luca, 9,32). Come al suo solito, Gesù si era messo a pregare, a breve distanza da loro. A un tratto i visi dei dormienti furono inondati da una luce vivissima: aperti gli occhi, scorsero Gesù in aspetto tutto diverso dal solito. Come dice Matteo (17,2), egli stava là « trasfigurato davanti a loro, e splendente era il suo viso come il sole, e le sue vesti divenute bianche come la luce ». 1 discepoli riconobbero il trasfigurato, accanto a Mosè ed Elia, i quali parlavano con lui della « sua dipartita ». Il discorso fra i tre dura più o meno a lungo. Tutt’a un tratto, nella nube risuona una voce: « Questo è il figlio mio diletto in cui mi compiacqui. Ascoltatelo! » Allucinazione?

Pietro, Giacomo, Giovanni s’aspettavano forse una di quelle sorprese straordinarie che il Maestro era solito riservare loro; e il loro stupore è grande quando lo vedono improvvisamente sbiancare in volto, l’espressione in preda all’angoscia. Che cosa gli stava succedendo? Presi da pietà e forse anche da paura, i tre cercano di consolarlo; ma Gesù risponde: « Tristissima è l’anima mia fino alla morte! Restate qui, e vegliate con me! ». Parole che hanno il tono di un’invocazione d’aiuto.

Di tutti i momenti della vita del Cristo, questo dovette essere certamente il più drammatico. Gesù sentiva un’angoscia tremenda nel petto. Presentiva forse il dramma che lo stava attendendo? Sentiva forse nell’anima tutto il tormento del dubbio, più atroce di tutte le sofferenze della carne, sulla validità della sua missione? Nella sua sconfinata angoscia sentiva forse la solitudine agghiacciante dell’uomo superiore? Unico sollievo alla propria anima era forse solo la preghiera al cielo. Seguiamo i Vangeli.

Facendo uno sforzo immenso, con il viso stravolto, le ginocchia vacillanti, le braccia tese come in cerca di un appoggio, Gesù si staccò da essi quanto un lancio di sasso; in fine cadde sul suo volto pregando. Così l’evangelista. Era anche questa la prima volta che i discepoli assistevano a uno spettacolo così insolito: tutte le volte che avevano visto Gesù pregare, lo avevano visto alla maniera tradizionale, quella cui erano soliti i giudei, e cioè in posizione ritta. Ora, quell’accasciarsi a terra di chi non ha più forza di reggersi in piedi e vuole pregare prostrato nella polvere era qualcosa che li turbava profondamente. Che si sentisse male?

Era a una quarantina di passi circa, e cioè, come dice l’evangelista, a « un lancio di sasso »; i tre testimoni potevano vedere e udire distintamente la tragedia dell’uomo. Lo vedevano stramazzato a terra a gemere: « Abba (che vuol dire « Padre »)! Tutto è possibile a te! Allontana questo calice da me! Tuttavia sia fatto non ciò che io voglio ma ciò che vuoi tu! »

Quanta differenza tra il Gesù della domenica precedente, il Gesù dell’ingresso in Gerusalemme, acclamato da moltitudini deliranti ai lati della strada, e del trionfo nel Tempio… Quanta differenza con questo Gesù di giovedì notte, dolorante, persino titubante sulla sua missione! Scrive l’abate Ricciotti: « Non mai, in tutto il resto della sua vita, Gesù appare così veramente uomo! ». Un uomo con tutte le sue debolezze, soprattutto con tutti i suoi limiti. Il vero dramma del Redentore è in queste ore del giovedì santo; la sua grandezza, dirà Anatole France, era nel dubbio che lo tormentava. Per alcuni istanti Gesù dovette avere l’impressione di avere davanti a sé l’incommensurabile incomprensione e solitudine che separa gli uomini. Non si era spinto forse troppo oltre? Aveva un senso la missione che stava per compiere? Era effettivamente il figlio di Dio? Non c’era forse un tremendo equivoco tra colui che fino allora aveva creduto di essere e quello che effettivamente era? Se effettivamente era il figlio di Dio, perché il Padre lo abbandonava ora in questo tremendo dubbio e in questa tremenda angoscia?

Intanto pregava, pregava contorcendosi; pregava con la fede della disperazione, pregava come l’uomo che si trova abbandonato nella indigenza spirituale estrema. Quale aiuto gli mandava il Padre ?

Finalmente « gli apparve un angelo dal cielo, confortandolo », dice Luca (22,43)…

… il quale però non è uno dei tre testimoni oculari; ma è da presumere che sia stato informato da loro, in quanto ne dà la notizia.

Luca, dei quattro evangelisti, è il solo che, come psicologo e come medico, ha raccolto alcuni particolari di ciò che allora avvenne : « E fatto in agonia, più intensamente pregava. E divenne il sudore di lui quasi di globuli di sangue scendenti giù sulla terra ».

L’agonia era per i greci quello stato d’animo che precedeva l’ingresso nell’agone degli atleti che lottavano per il premio: si sa che la lotta esige dalle membra e dallo spirito la più grande concentrazione. Per estensione agonia significherà poi « paura », « trepidazione », ma specialmente lo stato d’animo di chi è implicato nell’estrema lotta contro la morte: tale è dunque il caso di Gesù.

« E fatto in agonia, più intensamente pregava. » La preghiera intesa come rifugio. E così l’agonia si prolunga, e così questo agonizzante manifesta sul suo corpo gli effetti di questa dura tensione interiore: trasuda cioè sudore che diviene quasi globuli di sangue scendenti giù sulla terra.

Si tratta di un fenomeno fisiologico designato come ematidrosi, « sudore sanguigno », già noto ai medici: l’osservazione era già stata fatta da Aristotele, il quale impiega lo stesso termine per indicare che « taluni sudarono un sanguigno sudore ». Dunque, Gesù suda sangue: dunque è un uomo come tutti gli altri. Del resto, lo stesso Celso, poco prima del 180, pubblicò il suo Discorso veritiero, in cui prende d’assalto la divinità del Cristo e, subordinatamente, la credulità dei cristiani. Celso tiene a far presente che si era ben informato di come si erano svolti i fatti, in particolare delle reazioni di Gesù, e dice ai cristiani: « Voi non mi potete mentire, perché io so tutto sul vostro conto ». Lui, infatti, ha letto bene i Vangeli, e ha trovato che le debolezze della natura umana di Gesù, il lamento della sua agonia, sarebbero tutte cose indecorose per un Dio o un figlio di Dio.

L’agonia frattanto si prolungava : la mezzanotte era già passata. I tre testimoni sono presi da una specie di torpore: infine, vinti dalla stanchezza, distrutti dalla tristezza e forse dalla paura, s’addormentano. In quel momento, forse per sfuggire alla morsa della solitudine, Gesù ritorna sui suoi passi, quasi a cercare un sollievo nella compagnia dei suoi amici: forse sperava di avere una buona parola, un gesto amichevole che gli facesse sentire di essere meno solo sulla terra. Ma li trova addormentati, tutti e tre, compreso il fedele e petulante Pietro che alcune ore prima, nel cenacolo, aveva giurato e spergiurato sulla sua fedeltà. Con un accorato richiamo lo sveglia: « Simone, dormi ? Non sei stato capace di vegliare per una sola ora? » E, rivolgendosi agli altri due â— Giacomo e Giovanni : « Vegliate e pregate affinché non veniate in tentazione! Lo spirito bensì è pronto, ma la carne è inferma ».

Così, ancora più oppresso dalla solitudine, Gesù ritorna nel luogo solitario della sua tragica preghiera. Non restava che rivolgersi al Padre, l’unico al quale poteva chiedere e supplicare qualche cosa. Di qui le parole famose che faranno il giro dei secoli : « Padre mio! Se non può questo calice passare senza che io lo beva, sia fatta la volontà tua! »

Intanto trascorre altro tempo. La notte è sempre più profonda, sempre più silenziosa, sempre più cupa. I tre discepoli, risvegliati, cercano ora di vegliare di lontano l’agonia del loro Maestro; ma poi, vinti nuovamente dalla stanchezza, s’addormentano. Gesù se ne accorge, ritorna di nuovo verso di loro, li trova ancora dormienti, « giacché gli occhi loro erano aggravati e non sapevano che cosa rispondere ». In quest’ultima osservazione di Marco (14,40), è il segno irreversibile della solitudine del futuro condannato. « E lasciati lì, di nuovo andatosene, pregò per la terza volta, facendo lo stesso discorso di nuovo ». (Matteo, 26, 44). Quanto durò questa terza solitaria agonia di preghiera? Forse non molto. Quando Gesù si presenta ancora ai tre assonnati, in tono questa volta diverso dice loro: «Dormite ormai e riposate. Basta! Venne l’ora: ecco, il figlio dell’uomo è consegnato nelle mani dei peccatori. Alzatevi, andiamo! Ecco, chi mi tradisce si è avvicinato ». Come dire: sì, sì, dormite pure! Non vedete che giunge il traditore? Di lontano infatti si sentiva un tramestio di folla che si avvicinava, il rumore proveniva dalla strada di Gerusalemme, già si intravvedevano in quella direzione lumi di lanterne e fiaccole.

Allora, per la quarta volta, Gesù si avvicina ai tre sonnolenti, li sveglia, li fa alzare, li conduce dove stavano gli altri otto apostoli, senz’altro immersi anche loro nel sonno. Li raduna e, rivolgendo loro parole di esortazione, resta in attesa degli eventi.

« E mentre egli parlava ancora, ecco venne Giuda, uno dei Dodici, e con lui era molta folla con spade e bastoni mandata dai sommi sacerdoti ed anziani del popolo » : questa è la notizia dei Sinottici ; ai quali Giovanni aggiunge alcuni particolari riguardanti la « molta folla ». Doveva trattarsi per la maggior parte di inservienti del Tempio, ma a sentire Giovanni dovevano esserci anche soldati di una coorte comandata da un tribuno: il che fa supporre che l’operazione aveva luogo dietro espressa autorizzazione del procuratore romano.

Gesù sta ancora parlando con gli apostoli, quando Giuda irrompe nel giardino, seguito a poca distanza dalle guardie. Il traditore si avvicina al gruppo degli amici, li riconosce uno per uno, sbircia nella penombra degli ulivi, vede Gesù, gli va incontro, gli pone le mani sulle spalle, e lo bacia sulla guancia dicendogli : « Salute, Rabbi ».

Nel prendere gli ultimi accordi con i sacerdoti e i Farisei, Giuda aveva dato anche la formalità dell’arresto: avrebbe baciato Gesù: e quello sarebbe stato il segno di riconoscimento. « Quello che io abbia baciato è lui ! Afferratelo! ». Il traditore conosceva il luogo del Gethsemani, presumibilmente c’era stato più di una volta con il suo Maestro. Andava a colpo sicuro, in quanto sapeva che Gesù, dopo la cena pasquale, nell’impossibilità di raggiungere Betania, avrebbe pernottato in preghiera nel giardino, o tutt’al più nei pressi.

Al saluto di Giuda, il Maestro risponde a mezza voce : « Amico, per che cosa sei venuto qui ? ».

Pausa glaciale. Allora Gesù aggiunge:

« Giuda, con un bacio tradisci il figlio dell’uomo? ».

Non risulta che dal traditore fosse giunta risposta alcuna. Giuda aveva compiuto l’incarico che si era assunto. Il suo compito era finito.

A questo punto le guardie vengono avanti, alla rinfusa, facendo rumore, che il silenzio della notte ingigantisce. Gesù si stacca dal gruppo degli apostoli, muove incontro ai soldati, chiede:

« Chi cercate ? »

In coro questi rispondono :

« Cerchiamo Gesù di Nazareth ».

« Sono io. »

A questa risposta, data in forma pacata ma ferma, sembra che le guardie di testa vacillassero e cadessero in terra. Così riferisce la tradizione evangelica.

Vero? O fantasia del narratore? Fatti del genere â— guardie che vacillano o stramazzano a terra nell’atto di arrestare un personaggio â— erano avvenuti per esempio a proposito dell’arresto di Mario, dell’arresto di Marco Antonio: si legge infatti che le persone incaricate di assassinare questi uomini, di fronte alla risposta ferma e decisa della vittima, fossero rimasti atterriti.

Può darsi benissimo che le guardie, soldati ausiliari reclutati in Siria e in Palestina, non avvezzi quindi alla durezza di gesti del genere, subissero a un tratto la potenza della personalità di Gesù, e ne rimanessero sgomenti. Rialzatisi, ripetono che cercavano un tale Gesù di Nazareth.

« Vi ho detto che sono io; se cercate me, lasciate che costoro se ne vadano. »

Notiamo il delicato accorgimento con cui Gesù chiama gli apostoli : dice « costoro » e non « i miei discepoli »; ed è evidente l’intenzione di non coinvolgere direttamente i propri amici in questa brutta avventura. Loro non dovevano entrarci.

Allora le guardie si fanno avanti, gli mettono le mani addosso. Lo trascinano via.

A questo punto â— stando ai testi evangelici â— dovette verificarsi un principio di rissa. Gettatisi nel tafferuglio, divampato all’improvviso e per non si sa quali ragioni, alcuni discepoli avrebbero chiesto ad alta voce, guardando il loro Maestro: «Signore, possiamo usare la spada? ». Pietro, da parte sua â— non sarebbe lui se si fosse frenato ed avesse atteso prima la risposta di Gesù â— passa subito all’azione: « avendo una spada la sfoderò e colpì il servo del Sommo Sacerdote e gli mozzò l’orecchio destro ». Il servo si chiamava Malcho.

L’intervento di Gesù è immediato, la violenza ripugnava profondamente alla sua natura: « Rimetti la tua spada al suo posto », ordina a Pietro; « e sappi che tutti quelli che impugneranno la spada, di spada periranno ». Quindi, addolcendo il tono della voce: « Non potrei pregare il Padre mio ? Egli mi appresterebbe più di dodici legioni di angeli ». E infine, concludendo: lasciamo fare, perché «come si compirebbero le Scritture le quali dicono che così deve avvenire ? »

Così dopo aver sistemato il feritore, Gesù si occupa subito del ferito: gli sana l’orecchio col semplice tocco della mano. Questa guarigione è narrata soltanto dall’evangelista medico, cioè Luca. Infine si rivolge alla turba, tra cui sono sommi sacerdoti, capitano del Tempio e Anziani, rimproverandoli con durezza, secondo le parole dell’evangelista (Luca, 22, 52-53): « Come contro un ladrone usciste con spade e bastoni? Essendo ogni giorno con voi nel Tempio, non stendeste le mani addosso a me; ma questa è l’ora vostra e la potestà delle tenebre ». In altri termini Gesù rimprovera ai sommi sacerdoti e ai loro lacchè la codardia: quante volte lo avevano visto nel Tempio, quante volte lo avevano visto girare per le strade di Gerusalemme? Avrebbero potuto arrestarlo quando volevano : perché invece uscivano « con spade e bastoni » in piena notte ?

L’arrestato è subito legato, e immediatamente portato via.

(omissis)

Erode il Grande, di cui Gesù era nato suddito, non era giudeo di sangue: nelle vene di sua madre Kypros scorreva sangue arabo; in quelle di suo padre, Antipatro, sangue idumeo, cioè semigiudeo, cioè metà ebraico metà beduino, cioè bastardo; comunque nessuno dei due era di stirpe regia. Lo stesso nome, Erode, che vuol dire « discendente di eroi », mostra quanto poco giudeo fosse lo spirito del padre nell’imporre al figlio circonciso quel nome strappato alla mitologia greca. Ecco dunque questo figlio di Antipatro e del deserto assidersi sul trono di Israele, che un giorno era stato di Davide e di Salomone. Ve lo hanno portato circostanze fortuite, ma soprattutto il calcolo, l’arte del raggiro e del compromesso. Di Roma fa e resta il partigiano, perché essa è la più forte in Oriente; anche tra i rappresentanti di Roma egli parteggia sempre per il più forte: niente ideologie, ma tornaconto personale e basta. Da principio aveva parteggiato per Giulio Cesare ma senza essere cesariano: tant’è vero che, ucciso il dittatore, Erode cambia casacca e parteggia per l’uccisore Cassio, ma senza essere repubblicano; da Cassio passa ad Antonio, e sconfitto Antonio passa al rivale di lui Ottaviano; logico che da Ottaviano non si staccherà mai, poiché questi diventa imperatore dei romani. Erode starà sempre con Roma, perché Roma sarà la più forte: il segreto della sua politica e del suo trionfo è tutto qui. Regola sovrana.

A questo opportunista di razza, Roma aveva dato ufficialmente il trono di Gerusalemme nell’autunno del 40 a.C., essendo consoli Domenico Calvinio e Asinio Pollione. In quella occasione Erode aveva voluto salire sul Campidoglio in mezzo ad Antonio e Ottaviano per offrire a Giove Capitolino il rituale sacrificio di ringraziamento.

Prima ancora di essere investito ufficialmente a Gerusalemme, Erode aveva voluto dare un saggio della sua strafottenza nei confronti del Sommo Sacerdote e del Sinedrio. Impadronitosi un giorno di un tale Ezechia (un volgare bandito? un ribelle?), lo aveva fatto giustiziare sui due piedi, senza ascoltare nessuno, nè il Sinedrio nè il Sommo Sacerdote, infischiandosene di Israele e della sua legge. L’opinione pubblica era insorta, chiedendo a gran voce al Sommo Sacerdote che aprisse un’istruttoria formale e chiamasse Erode in giudizio di fronte al Sinedrio. « D’accordo, » dice Erode, « volete processarmi? Verrò. » Si presenta davanti al Sinedrio infatti, ma come? Vestito di porpora, con fare spavaldo e provocatorio, invece che scarmigliato e vestito a lutto e in atteggiamento supplichevole, come voleva la tradizione. Giunto in quell’assemblea, Erode guarda quei vegliardi in faccia uno per uno, con un sorriso beffardo: « Sono qui », dice, « se c’è qualcuno che ha qualcosa da dire contro di me, si faccia avanti ». Nessuno fiata. Com’è antica abitudine dei preti, il Sinedrio ingoia il rospo; intanto fa pervenire a Roma una lamentela piuttosto pesante nei confronti di questo supremo spregiatore del culto e della tradizione ebraici. Come risposta, al Sommo Sacerdote perviene una lettera segreta del proconsole romano che consigliava quelle brave persone del Sinedrio di assolvere Erode: Cesare non voleva storie. Soltanto un Fariseo, a quanto risulta, un certo Sameas, ha il coraggio di alzarsi e di chiedere pubblicamente se si era giunti fino al punto in cui un accusato poteva permettersi di comparire davanti al Sinedrio con arroganza e in atteggiamento di sfida. Lì per lì la denuncia di Sameas produce nell’aula l’effetto di una scarica elettrica; per un momento sembra che l’assemblea riacquisti la sua autorità; ma poi tutto ripiomba in un silenzio cupo. Altro non restava al Sommo Sacerdote che convincere con le buone Erode ad allontanarsi da Gerusalemme. Questi, a fronte alta e con un sorriso di scherno sulle labbra, se ne va. Ma dove? A Damasco, a raccogliere truppe… per marciare su Gerusalemme. A questo punto sopraggiunge il padre Antipatro; il vecchio arriva in tempo per fermare il figlio: non era ancora giunto il momento di fare la voce grossa.

Cinico, spregiudicato, ma anche vendicativo, Erode aspetta. Finalmente, quando con l’aiuto delle legioni romane Erode si vede padrone di Gerusalemme, ed il suo nemico Antigono è nelle mani di Antonio, allora il figlio di Antipatro compie meticolosamente e spietatamente le sue vendette. Lo fa con lo scrupolo di un burocrate. Son rimasti in città quarantacinque dei più facoltosi partigiani di Antigono: Erode li fa passare per le armi, e i loro cadaveri buttare fuori dalle mura; e nel dubbio che con i cadaveri uscissero anche oggetti d’oro, fa squarciare il ventre delle salme « a scopo fiscale ». Questo giovane conosce alla perfezione la potenza segreta del danaro. Sa benissimo che l’idealismo e lo stesso fanatismo religioso sono ben poca cosa se sono abbandonati dall’oro.

Finalmente Erode decide di regolare un vecchio conto, quello rimasto in sospeso con il Sinedrio: quel Sinedrio che aveva tentato di portarlo in giudizio e di processarlo. E il conto lo salda a suo modo: potrebbe prenderli tutti a staffilate, quei vecchiacci, e fare di quell’aula un bivacco per i suoi beduini. Ma Erode preferisce invece le maniere ovattate della diplomazia. Tratta i sinedriti con gentilezza; fa di più, li ricolma di doni, specialmente due membri di loro, Farisei accaniti, tra cui quel Sameas. Nemico ricoperto d’oro, nemico innocuo. Perché tanta diplomazia? Militarmente vittorioso, politicamente ormai senza rivali, Erode sapeva benissimo con che razza di popolo aveva a che fare: soltanto una rappacificazione religiosa avrebbe potuto far dimenticare ai sudditi la sua origine e la sua usurpazione.

Erode sa anche essere arrendevole quando le necessità lo impongono. Il Sinedrio aveva bisogno di un Sommo Sacerdote. C’era il cognato, un giovane di sedici anni, fratello minore della moglie Mariamme. Poteva andar bene ?

Altroché. La suocera briga per l’elezione del figlio; Erode, sospettando un complotto contro di lui, sottopone entrambi, madre e figlio, a una strettissima sorveglianza. Ma la suocera ricorre a uno stratagemma: si fa rinchiudere con il figlio in due casse da morto, per essere inviata in Egitto, e così riconquistare la libertà, e così eventualmente armare un esercito per riconquistare Gerusalemme, e incatenare questo genero troppo ambizioso. Erode, informato in tempo, tronca bruscamente la congiura. Non punisce. Anzi cede. O meglio, finge di cedere. Peggio ancora: finge di cedere per magnanimità. Dunque, la cara suocera voleva il figlio Sommo Sacerdote? Ma questo era anche il suo desiderio! D’altra parte un giovanetto di sedici anni poteva forse dargli ombra ?

Ma il giovanetto, ombra invece gliene dà, forse a sua insaputa. La prima volta infatti che appare in pubblico in occasione della festa dei Tabernacoli, il giovane Sommo Sacerdote è accolto da fragorosi applausi. Erode, dalle antenne finissime, intuisce perfettamente il significato di quei battimani: il sottinteso polemico era evidente. Sarà dunque costretto a sbarazzarsi del cognato ? Sì.

Ma anche quest’operazione egli conduce con molto tatto e senza odio. C’è festa, fa molto caldo: perché non scendere in piscina a refrigerarsi? Ma come? Il ragazzo non sapeva nuotare? Ebbene lui, Erode, o se non lui i suoi esperti, gli avrebbero insegnato l’arte delle bracciate. E infatti gli esperti conducono il ragazzo in piscina, lo seguono, lo accompagnano, Io sollecitano, lo sorreggono e, quando nessuno vede, cessano di sorreggerlo: sicché il giovane Sommo Sacerdote va dolcemente sott’acqua, e gli esperti ve lo tengono più del necessario… finché muore.

Dato che ci siamo, dobbiamo completare il quadro dell’uomo, anche se esuliamo dal tema. Erode, dicevamo, era anche un uomo straordinariamente ipocrita, un maestro della dissimulazione. 11 Sommo Sacerdote era annegato in piscina ? Maledizione! Lui stesso dà l’esempio: si straccia le vesti, piange pubblicamente, più pubblicamente ancora si dispera. Ordina che i funerali siano imponenti.

Militarmente forte, politicamente invulnerabile, l’uomo era però psicologicamente debole: questo tiranno si ritrova schiavo dei propri sentimenti. Il machiavellico sovrano aveva anche lui il suo punto vulnerabile: nel cuore. Ciò che lo imbestialiva, era che il dramma passava sul punto più nevralgico e delicato, sul letto di Mariamme, sua amatissima sposa. Sì, è vero l’aveva sposata per calcolo politico; ma gli era successo l’atroce inconveniente, che capita raramente ai mariti cinici: quello di finire per innamorarsi perdutamente della propria moglie. Mariamme era un’asmonea, nelle cui vene scorreva il nobile e prestigioso sangue dei Maccabei, custodi insospettabili dell’antico culto ebraico. Egli l’aveva voluta in sposa per ricongiungersi, agli occhi del popolo, con l’eroica dinastia che aveva fatto la vera resistenza ai barbari. Mariamme era bellissima, virtuosissima, fiera, ma gelida: portava nel suo sangue il disprezzo delle razze superiori verso quelle che vengono dal deserto. La donna che Erode terribilmente amò, pur senza mai interamente possederla, fu lei, Mariamme. Davanti a lei Erode sentiva l’umiliazione delle sue origini: l’idumeo, il beduino, il figlio dei figli degli antichi predoni. E Mariamme, invece, con la sua altera nobiltà, era là per ricordarglielo in ogni momento, specialmente in quel punto sensibilissimo dove tutto esplode o tutto si dissolve in pochi istanti: sul ciglio del Ietto, là dove l’orgoglio, confondendosi col desiderio, urla amore e odio.

E’ a questo punto che cominciano le sue tragedie familiari. Mariamme, inquieta, insoddisfatta, si agita, complotta. Sta forse tradendo il marito? Non si sa. Comunque la gelosia, questo tossico dell’amore, cominciò a dare corpo alle ombre. Ed Erode, il cinico, il lucido, il machiavellico, cede alla passione che lo travolge. Forse si era sbagliato, forse no: una donna inquieta è sempre una donna sospetta, disponibile ad ogni adulterio. Come diceva Proust ? Ciò che manda in bestia l’uomo, non è tanto il tradimento che la donna può compiere, quanto quelli che potrebbe compiere. Così dopo avere accusato violentemente la moglie in consiglio privato, Erode la condanna a morte. La sentenza è immediatamente eseguita dietro suggerimento dell’implacabile Salomé, sorella di Erode. Alessandra, madre della condannata, per evitare di essere compromessa, commette l’estrema bassezza di gettarsi sulla figlia rinfacciandole pubblicamente la sua superbia, la sua ingratitudine verso Erode, il suo peccato â— possibile o immaginario â— e strappandole i capelli. Ben diverso è invece il comportamento di Mariamme. La donna affronta la morte come aveva vissuto, con dignità regale. Era la fine dell’anno 29 avanti la venuta di Gesù Cristo sulla terra.

Dopo il passionale, ecco il nevrotico. Qualcuno ha sollevato l’ipotesi del commediante. Commesso il delitto, Erode gira per le stanze invocando il nome della moglie: Mariamme ! Mariamme !, e lo fa nel monotono delirio con cui Orfeo condannato alle tenebre degli inferi chiama: Euridice! Euridice!… In questa penosa follia d’amore, Erode il Grande non ha più limiti: esige che anche la servitù chiami Mariamme, la moglie che egli stesso ha fatto uccidere, la chiami per nome, come se fosse viva. Quindi â— ultima soluzione â— tenta l’eterna evasione nei fumi del vino. Si abbandona alla crapula. Sopraggiunge una pestilenza. Anche lui è raggiunto dal morbo. Sta per morire: ma il destino, più crudele del re, esige che debba vivere ancora, vivere per soffrire. Erode si rimette, ma è un uomo psichicamente sconvolto, finito. La suocera Alessandra ne approfitta per tentare il grande colpo: impadronirsi del Tempio di Gerusalemme, il sancta sanctorum del culto, per poi tentare a sua volta il colpo: saltare sulla reggia e prendere in mano la situazione. Alla suocera fa fare la stessa fine della figlia. Poi è la volta del cognato. Ecco, il campo è ormai libero. Libero da tutti i nemici, anche da tutti gli amici. Erode ha creato il vuoto intorno a sé, ha creato cioè la peggiore delle afflizioni che tormentano l’animo umano: la solitudine.

L’uomo è strano, imprevedibile. E, perché no ?, generoso. Ma anche questo lo è da par suo, a modo suo. Nell’anno 25 a.C. s’abbatte sull’intera Palestina una terribile carestia. Questa volta Erode, grande nella vendetta, più grande nella prudenza, più grande ancora nella ferocia, supera se stesso nell’umanità. Non ha un momento di esitazione a vendere i preziosi della reggia per acquistare derrate in Egitto per il popolo: anzi per il « suo popolo ».

Due anni dopo l’antico idumeo, il figlio del beduino, con la corona in testa e il complesso della razza nel sangue, nell’intento di riscattare sulla prole le proprie origini di predone, invia a Roma, alla corte di Augusto, due figli. Eterna sinfonia: capitava nell’anno 25 a.C. ciò che continuerà a capitare nei secoli: ai figli di questi usurpatori di troni o di ricchezza o di potere, i migliori collegi e la migliore educazione; ma il collegio, e in questo caso la Corte di Roma, gli restituisce due contestatori in piena regola. I due ragazzi contestano al padre il suo splendore, gli contestano la sua ipocrisia, la sua mancanza di scrupoli, il suo passato, i suoi delitti… Potevano tra l’altro ignorare la loro madre che egli aveva fatto assassinare? Ma ai due figli contestatori Erode riserverà una fine ben più atroce di quella riservata ai moderni contestatori: li farà strozzare in Samaria. Augusto Imperatore quando verrà a sapere del duplice delitto, non potrà fare a meno di lasciarsi sfuggire quella considerazione che farà poi il giro dei secoli: « E’ meglio essere un porco di Erode che un suo figlio ! ». Si sa infatti che Erode, come vecchio beduino e in più come ebreo, non si sarebbe mai permesso di mangiare carne di porco.

E in questo, bisogna dirlo, l’uomo si era perfettamente allineato con il culto ufficiale della nazione di cui reggeva le sorti. Egli non era sacerdote, non era nemmeno un autentico giudeo: per questo e per le sue inclinazioni idolatriche e i suoi gusti ellenizzanti il popolo continuava infatti a diffidare di lui. Allora il re volle strabiliarlo, sedurlo, conquistarlo. Come? Traumatizzandolo con un gesto spettacolare. Egli volle rifare il cuore di questa nazione barcollante. E cominciò da dove il cuore aveva fino allora battuto, cioè dal Tempio.

Com’era nel suo stile, Erode aveva affrontato direttamente la questione con decisione. Egli, tiranno crudele e onnipotente, sapeva atteggiarsi per l’occasione a sincero democratico. Aveva adunato il popolo ed esposto il suo grandioso progetto: Gerusalemme, la Giudea, il mondo, i secoli, non avrebbero mai visto niente di più grande sotto il sole. Il colossale programma aveva lasciato perplessa la gente: quel despota tanto odiato, per di più di estrazione pagana, per di più scettico, per di più ellenista, voleva costruire il Tempio più grande del mondo a Jahvè? Per glorificare Dio… o per irriderlo?

Erode faceva sul serio: e per dare al colossale progetto un minimo di credibilità, alle parole fece seguire immediatamente i fatti. Così nell’anno 18 del suo regno ebbero inizio i lavori. A una delegazione incredula e timorosa, venuta a gettarsi ai suoi piedi per scongiurarlo di non insozzare le vestigia antiche che parlavano di Salomone, Erode diede una risposta tranquillizzante: non una pietra del vecchio Tempio sarebbe stata demolita se non fosse stato pronto il materiale per la costruzione del nuovo. Ingaggiati diecimila operai, ammassata una quantità enorme di materiale sulla spianata, tutto previsto, tutto programmato ed organizzato: mille sacerdoti, debitamente addestrati all’arte muraria, avrebbero lavorato nelle parti interne, inaccessibili ai profani; i servizi liturgici non sarebbero stati interrotti: si sarebbe edificato giorno e notte.

I lavori per il « Santuario » vero e proprio durarono un anno e mezzo; quelli per le altre parti, otto. La simmetria e la disposizione interna rispettavano esattamente le basi dell’antico Tempio salomonico: erano questi i tratti intoccabili fissati dalle Scritture, su cui mano sacrilega non avrebbe mai dovuto posarsi. Erode è attentissimo a questi particolari.

Al rifacimento del vecchio, il re aggiunge del suo: la grandiosità e la magnificenza. Fa raddoppiare l’altezza, ingrandire il portico: conferisce al complesso l’impressione mistica di qualcosa che si libra nel cielo. Fa costruire alle basi una serie di cortili digradanti. Il Tempio, eretto su immensi blocchi di pietra bianca e con la faccia ricoperta d’oro, dava, così visto in distanza, la sensazione di una montagna di neve. Occorreva naturalmente sorreggerlo con una base adeguata: perciò Erode fa costruire una colossale piattaforma, la famosa spianata rettangolare, di 365 metri per 280, sostenuta su contrafforti che si ergono sui burroni circostanti: uno di questi contraffòrti, il Muro del pianto o Muro Occidentale, è il luogo sacro che sarà venerato dagli ebrei di tutto il mondo negli ultimi millenovecent’anni.

La « Casa della fede » era così ricostruita: con l’altare degli incensi, la tavola delle oblazioni, il candelabro dai sette bracci e il « Santo dei Santi », il sancta sanctorum, che nel Tempio di Salomone aveva contenuto l’Arca della Legge. Certo, per una architettura così presuntuosa nei confronti degli uomini e del cielo si esigeva un rituale rigidissimo: a un solo mortale era concesso di accedere al cuore del cuore, cioè al « Santo dei Santi »: il Sommo Sacerdote. Ma anche per lui il permesso valeva per un solo giorno durante l’anno, il giorno dell’espiazione, il famoso Kippur. (Il Kippur cadeva il 15 del mese di Tishri, cioè tra la fine di settembre e il principio di ottobre: giorno di riposo e di digiuno assoluto. Durante questa solennità officiava nel Tempio il Sommo Sacerdote in persona, e questa era infatti la sola volta che poteva entrare nel « Santo dei Santi » del Tempio per compiervi la simbolica liturgia del capro espiatorio.)

Non completamente soddisfatto, Erode aveva dato l’avvio a imponenti lavori pubblici: quindi â— per sentirsi più sicuro â— aveva fatto rinforzare i bastioni e le mura di cinta.

Sicuro non lo era interiormente. Forse non lo era mai stato. Questo crudele tiranno, cui non mancavano né il genio né la fantasia né la ferocia, era terribilmente solo. Le tragedie familiari lo avevano lasciato in un atroce vuoto spirituale e morale. Indifeso lo era, naturalmente, anche dalle ingiurie del tempo. Un giorno il vecchio cadde malato. La malattia precipitò rapidamente. Si decise allora a fare testamento. Designò a succedergli al trono Antipa, figlio di una samaritana. Vedremo questo personaggio durante il processo di Gesù. Erode lasciava a Roma mille talenti e alla famiglia altri cinquemila. La notizia che il superbo era in agonia trapelò. Due notabili Farisei approfittarono dell’occasione ed incitarono i sudditi alla rivolta. Il segnale sarebbe venuto dalla rimozione dell’aquila d’oro del Tempio. Ed ecco il giorno arrivare: alcuni ardimentosi salgono sulla porta maggiore, abbattono e spezzano l’insegna preziosa. Ma il tiranno non era ancora spirato. Nonostante fosse in preda a laceranti dolori, il morituro fece catturare i due infami, e li fece bruciare vivi, quindi mandò a morte una quarantina di persone, tra le più compromesse nel tentativo di colpo di Stato. Dopodiché si abbandonò alla morte che avanzava. Sembra che fosse ripugnante: le storie parlano di una malattia fino a quel tempo sconosciuta, bruciore diffuso, avidità di cibo, coliche viscerali violentissime, accompagnate da suppurazione e vermi; quindi gonfiore alle estremità e difficoltà nella respirazione; probabilmente si trattava di un cancro intestinale con complicazioni di diabete.

La fibra era tenace, lo spirito ancora di più. Il malato tentò l’ultimo colpo disperato contro la sorte: si fece trasportare prima sulle rive del Mar Morto per una cura di acque solforose; quindi, in seguito a una crisi, si fece trasferire a Gerico. A questo punto, prevedendo che la sua morte sarebbe stata di giubilo per i sudditi, il despota volle che essa fosse causa di dolore: fece ammassare a Gerico un certo numero di giudei gerosolomitani più in vista, li fece richiudere nell’ippodromo, scongiurò sua sorella Salomé che subito dopo la morte inviasse soldati a far strage dei prigionieri: soltanto così â— pensava â— avrebbe avuto funerali con le lacrime, che gli sarebbero altrimenti mancate.

Si ebbe tuttavia un funerale solenne, degno di un grande monarca: deposta su una lettiga d’oro gemmata, circondata dai parenti, seguita dalla guardia personale di mercenari e da cinquecento schiavi recanti aromi e infine portata nella fortezza di Herodium, scelta come estrema dimora, la cara salma fu consegnata alla solitudine dell’eternità e ai vermi. Il regno tirava un sospiro di sollievo.

Soltanto pochi mesi prima di morire, Erode ne aveva fatta una delle sue: aveva fatto scannare nella vicina Betlem alcune decine di bambini minori di due anni, dai quali vedeva minacciato il suo trono.

Erano capitati a Gerusalemme, condottivi da una cometa, tre magi, tre strani personaggi; venivano dalla lontana Persia con una strana richiesta: cercavano il nato re dei giudei annunciato dalla cometa.

Di re dei giudei, rispondono divertiti i gerolosomitani, non abbiamo che il nostro beneamato Erode. I tre si recano allora da Erode. Il vecchio monarca cade dalle nuvole: una cometa aveva annunciato la nascita di un nuovo re ? E dove ? Ma se la sua polizia segreta, che pure era efficientissima, non gli aveva mai detto niente. Erode sospetta che ci sia sotto qualcosa: quei tre buffi magi non potevano essere così sprovveduti da lasciare il loro paese, affrontare chilometri e chilometri di viaggio sotto il sole cocente del deserto, per inseguire, sulla scia di una stella, un fantomatico re in Giudea. Aveva consultato i dottori della legge e il Sinedrio: sì, risultava effettivamente da un passo delle Scritture, che da Betlem, un villaggio vicino alla capitale, sarebbe uscito il «dominatore d’Israele ». La citazione dell’antica profezia lo lascia alquanto perplesso: allora era vero… però, strano, su quel paesucolo di Betlem nessun rapporto gli era pervenuto dalla sua polizia, che pure teneva gli occhi bene aperti su tutto e su tutti; figurarsi se i suoi agenti non gli avrebbero segnalato il fatto: Erode, guàrdati, perché a Betlem è nato il Messia. Che fare ? Far pedinare i tre magi ? Mettere alle loro calcagna un drappello di soldati ? Ma si sarebbe reso ridicolo agli occhi dei suoi sudditi: vedi un po’ quell’imbecille del nostro re che crede davvero alla storia di quei tre visionari… No, li avrebbe attesi al ritorno; allora si sarebbe fatto indicare, nel caso che lo avessero trovato, il bambino Messia…

I tre magi erano stati lasciati partire. Avevano trovato il « bambino » in una mangiatoia, avevano recato doni, avevano adorato; quindi erano ripartiti… ma senza passare per Gerusalemme.

Erode aspettava; ma come i giorni passavano e non vedeva l’ombra d’un re mago, decise di passare all’azione. Inviò un manipolo di soldati a Betlem e nel territorio dipendente con l’ordine di uccidere tutti i bambini minori di due anni. Sembra che la strage bestiale sia costata la vita a 25 o 30 bambini.

Ma il « bambino » che egli cercava, gli era sfuggito. Prima che arrivassero gli scherani di Erode, un angelo era apparso in sogno a Giuseppe, padre del « bambino », invitandolo a lasciare il villaggio e a recarsi in Egitto. Il vecchio aveva ubbidito. E il bambino era stato salvo. Quel bambino era Gesù.

(omissis)

Chi è Nicodemo? L’immagine che abbiamo è quella di un insigne Fariseo, uomo leale, in buona fede e pieno di timor di Dio. Nicodemo era probabilmente un notabile, comunque, a quanto se ne sa, membro influente del Sinedrio. Questa sua condizione sociale gli impediva però di agire liberamente, costringendolo a muoversi con molta prudenza e cautela. Aveva conosciuto Gesù, aveva visto i suoi segni, e ne era rimasto scosso; forse era uno dei pochi che aveva intuito la missione straordinaria di questo Galileo. Forse era già con questi in segreti rapporti… Lo sappiamo dai Vangeli…

Data la sua posizione, non volendo d’altra parte scoprirsi, Nicodemo si era recato a far visita a Gesù di notte. Così, nella penombra di una lucerna, lo aveva interrogato: questo strano Fariseo voleva capire qualcosa di più da quell’altro non meno strano Galileo: « So che tu sei venuto da Dio come maestro », gli dice, « perché nessuno, a quanto ne sappia io, può compiere prodigi del genere. (« Rabbi, sappiamo che da Dio sei venuto quale maestro, poiché nessuno può fare questi segni che tu fai se non sia Iddio con lui »). Nicodemo esige chiarezza dal suo interlocutore. Ma le risposte del Galileo non sono di quella chiarezza che il Fariseo si aspetta: « In verità, in verità ti dico, se alcuno non sia nato dall’alto, non può vedere il regno di Dio ». Ma che cosa significava ? Che cosa significava soprattutto quel «dall’alto »? Nicodemo capisce così: «dall’alto », cioè nel significato di «nuovo ». Ma anche in questo senso la frase restava oscura: infatti, come poteva nascere un uomo che fosse vecchio? Poteva forse entrare nel ventre di sua madre una seconda volta e rinascere? La precisazione di Gesù è ancora più oscura: « In verità, in verità ti dico, se alcuno non sia nato da acqua e da spirito, non può entrare nel regno di Dio. Ciò che è nato dalla carne è carne, e ciò che è nato dallo spirito è spirito ». E così Nicodemo continua a non capire. E a questo punto la replica di Gesù è ironica: « Ma come, tu che sei maestro d’Israele non sai queste cose? » Visto il suo interlocutore in difficoltà, Gesù dovette fare uno sforzo di chiarezza: dunque, tu vuoi sapere chi sia io realmente, e naturalmente vuoi sapere se ho le carte in regola; cerca di capire, noi parliamo delle cose che sappiamo e testimoniamo di ciò che abbiamo visto; e allora perché non ricevete la mia testimonianza? Dite che sono oscuro: ma se io vi parlo di cose terrene e non le credete, come potete credere se io vi parlo di quelle celestiali ?

In quale stato d’animo il nostro Nicodemo abbia ascoltato queste frasi, è facile immaginare. Probabilmente, come dice il Ricciotti, dovette essere in quello stesso stato in cui si trovava Sant’Agostino nel periodo delle sue titubanze religiose, quando leggendo le lettere di San Paolo gli sembrava di sentire come un profumo di vivande squisite che tuttavia non riusciva ancora a mangiare, « quasi olfacta desiderantem, quae comedere nondum posset ».

Resterebbe da chiarire l’atteggiamento di Nicodemo nel Sinedrio. Intervenuto era intervenuto, a favore di Gesù: ma era stato in una precedente seduta, probabilmente due anni prima: lo sappiamo dal testo evangelico di Giovanni. Anche allora si era discusso di Gesù: che si doveva fare di quel Galileo? Ne era uscita una specie di mandato di cattura; ma le guardie incaricate di eseguirlo se ne erano tornate a mani vuote; di qui la collera dei sacerdoti: perché non avevano arrestato quell’uomo? perché non l’avevano condotto in assemblea? « Nessun uomo ha mai parlato come lui », avrebbero risposto i soldati. E allora i Farisei : siete stati sedotti anche voi ?

Fu in quella circostanza che Nicodemo era intervenuto in favore di Gesù : « La nostra legge condanna forse un uomo prima di averlo sentito e di sapere ciò che faccia ? » Gli avevano risposto i sacerdoti : « Sei forse della Galilea anche tu ? Esamina le scritture e vedrai che dalla Galilea non sorge profeta ». Poi ciascuno se n’era andato a casa, e della cosa non se n’era fatto più nulla.

Ma ora, in questa notte drammatica, quale può essere stato l’atteggiamento del buon Nicodemo? Silenzio, finta di niente, per non compromettersi ?

Francamente ci piace immaginarlo diversamente. Poiché le parole dell’imputato â— riferite da due testi â— lasciavano un appiglio, vediamo Nicodemo appigliarsi: ecco â— dice â— le frasi attribuite a Gesù di Nazareth, quali sono state riferite dai due testimoni non vanno prese alla lettera; innanzi tutto, che cosa aveva detto Gesù di preciso ? Interessa il verbo : aveva detto « demolirò questo santuario », oppure « demolite questo santuario » ? Seguitemi ; questo Gesù entra nel Tempio, lo vede manomesso, infangato, deturpato dai mercanti; allora a colpi di scudiscio caccia tutti; si avvicinano dei giudei e gli dicono: Tu chi sei? Come ti permetti gesti del genere? Ebbene, che cosa risponde, che cosa poteva rispondere: voi demolite pure questo tempio, ed io lo ricostruirò, eccetera eccetera; insomma aveva sfidato i suoi avversari a demolire e lui avrebbe riedificato; dunque non lo si può accusare di distruttore, perché caso mai è un ricostruttore: il che costituisce un titolo di merito. E poi, aveva forse parlato di Tempio? Gesù ha parlato di « santuario » : e con queste parole intendeva riferirsi al suo corpo, al corpo stesso del figlio dell’uomo, come egli va proclamando… Conclusione: l’accusa portata dai due testimoni â— a parte le discordanze formali â— era ambigua. Si poteva costituire su di essa un capo d’accusa, specialmente di morte? Ci voleva qualcosa d’altro, forse una confessione.

A questo punto il Sommo Sacerdote si rivolge direttamente a Gesù, rimasto finora inspiegabilmente in silenzio:

« E tu non dici nulla? Non hai sentito cosa hanno detto costoro contro di te? »

Ma ancora una volta Gesù non risponde, chiuso in un silenzio assurdo.

Allora Caifa, assumendo un atteggiamento solenne, gli si avvicina:

« Ti scongiuro per il Dio vivente di dirci se tu sei il Cristo, il figlio di Dio » (testualmente, dal testo evangelico).

Si noti la frase del Sommo Sacerdote. I termini dell’interrogazione sono due: l’imputato dovrà confermare o negare di essere il Cristo, ossia il Messia; inoltre dovrà confermare o negare di essere il figlio di Dio. Ma i due termini non esprimono la stessa cosa? Non sono pratica- mente sinonimi? Il Sommo Sacerdote li usava come tali? oppure attribuendo ad ognuno un significato distinto: « Messia », una cosa; « figlio di Dio », un’altra?

La domanda, benché espressa in termini ambigui, esigeva una risposta precisa: sì o no; sì, sono il Messia; no, non sono il Messia; idem per il figlio di Dio: sì, sono… eccetera. Insomma, era venuto il momento: era venuto il momento per Gesù di chiarire una volta per tutte la sua posizione: chi era, da dove veniva, chi lo aveva mandato, perché era venuto, che cosa voleva, quali erano i suoi veri rapporti con colui che era solito chiamare « Padre mio »?…

E invece… E invece ancora una volta Gesù elude. Ne esce con una risposta sfuggente, che manda in bestia gli inquirenti. Dice:

«Se io ve lo dico, non mi credete; se poi vi interrogo non mi rispondete » (testualmente dal Vangelo di Luca). (In altre parole, voleva dire questo: quand’anche io vi dicessi chi sono, da dove vengo, chi mi ha mandato, eccetera, voi non mi credereste; e se poi sulla base della mia risposta, io vi facessi delle domande sulle sacre Scritture a conferma di quanto ho detto, sono sicuro che voi non mi rispondereste).

Oltre che evasiva, la risposta dovette sembrare â— e in effetti lo era â— anche offensiva: il Sommo Sacerdote e il Sinedrio erano proprio degli ignoranti ?

Allora, rossi in volto, alcuni ripetono alla rinfusa la domanda di Caifa:

« Ti abbiamo fatto una domanda precisa… »

Allora Gesù, rivolgendosi a Caifa:

« Tu l’hai detto » (testualmente dai Vangeli). L’interrogatorio ritornava ancora al punto di prima. Che cosa significava quel «Tu l’hai detto »? Voleva dire: io sono quello che tu hai detto? Ma detto che cosa? Il Messia, oppure il figlio di Dio, oppure tutti e due insieme? Dopo una pausa, l’imputato fa seguire una breve dichiarazione:

« Senonché vi dico, da adesso vedrete il figlio dell’uomo seduto a destra della Potenza e veniente sulle nubi del cielo ».

Queste parole, che si collegavano con due celebri passi messianici (quello di Daniele, 7,9-13 e quello del Salmo 110. Ebraico, 1), gettano l’assemblea nello scompiglio. Evidentemente quel Gesù conosceva le Scritture, nella stessa misura in cui le conoscevano i suoi giudici: l’imputato non era un soggetto da prendere sotto gamba.

Ma hanno ben capito, sacerdoti e Anziani, che cosa voleva dire con quelle parole? Si, non c’è dubbio; e glielo gridano in faccia, alzandosi in piedi e facendo un gran rumore:

« Tu, dunque, affermi di essere, oltre che il Messia, anche il figlio di Dio… »

Risposta testuale di Gesù:

« Voi dite che io sono ».

Siamo daccapo. La risposta, a ben guardare, rimandava ancora al largo i termini del problema che interessavano in quel momento i giudei: l’identità dell’imputato. «Voi dite che io sono »: poteva ugualmente significare : lo dite voi che sono il figlio di Dio, oppure : si, sono quello che voi dite.

Tuttavia, per quanto ambigua, la risposta venne presa nel significato che i giudici volevano : sì, io sono esattamente colui che voi dite, cioè il figlio di Dio. Era ciò che il Sommo Sacerdote e il Sinedrio aspettavano di udire. Ora si trattava di collegare le due dichiarazioni. Dieci minuti prima aveva ammesso, o fatto capire di essere il Messia («Tu l’hai detto »); adesso confermava di essere anche il figlio di Dio. Basta. Avendo ottenuto questa ultima ammissione, Caifa si alza e, volgendosi verso i colleghi, grida:

« Ha bestemmiato! Avete sentito tutti! Ed ora che bisogno abbiamo di sentire dei testimoni? Che ve ne pare ? »

E tutti a gran voce :

« Sì, ha bestemmiato, è reo di morte! »

Allora, per rendere più vistoso il suo sdegno, il Sommo Sacerdote si strappa l’orlo superiore della tunica, com’era uso fare per esprimere scandalo e cordoglio.

Era reo di morte. Il Sinedrio aveva condannato. Il processo religioso era chiuso.

Ed ora controprocesso. Dal punto di vista legale e giuridico c’erano effettivamente gli estremi per una condanna? Chiediamocelo. Notiamo innanzi tutto l’irregolarità della procedura: poiché era venuta a mancare la prova testimoniale, si era cercato di rendere l’imputato testimone contro se stesso; e ciò era contro tutte le norme giuridiche, contro tutte le giurisprudenze: nessun imputato può deporre contro se stesso.

Ed ora chiediamoci anche: affermando di essere il Messia, Gesù aveva realmente bestemmiato? Ma aveva realmente dichiarato di essere l’Unto del Signore e il figlio di Dio? I giudici avevano buone ragioni per crederlo, e altrettante buone ragioni per non crederlo. Faceva però loro comodo di crederlo. Quale era la frase incriminata? Che egli sarebbe venuto alla destra della Potenza. Aveva detto Potenza, e non Dio; e noi sappiamo che Potenza era un termine generico di cui facevano spesso uso i rabbini.

Altro punto: la questione dei testimoni. Si cercano dei testimoni a carico, e nessuno a discarico: e si sa che, volendo, avrebbero potuto trovarne almeno uno, Giovanni per esempio; il discepolo era a due passi, nei corridoi, ed era anche conosciuto.

E infine. Gesù è stato condannato fuori dalle norme che regolavano i processi. Rileggiamole: «Nelle cause civili è sufficiente la maggioranza di uno sia per l’attore sia per il convenuto; nelle cause penali la maggioranza di uno assolve ma per condannare è necessaria la maggioranza di due. Nelle cause civili i giudici possono rivedere la sentenza sia in favore dell’attore sia in favore del convenuto; nelle cause penali possono rivedere la sentenza per assolvere, non per condannare. Nelle cause civili i giudici possono tutti concordemente addurre argomenti in favore sia dell’attore sia del convenuto; nelle cause penali possono addurre argomenti per l’assoluzione, non per la condanna » (il che voleva dire che non era ammessa l’unanimità nella condanna, e che si esigeva per contro che un giudice almeno parlasse a favore del condannato). « Nelle cause civili », prosegue il testo, « il giudice che adduce argomenti a carico del convenuto può addurne a carico dell’attore, e viceversa; nelle cause penali il giudice che ha addotto argomenti per la condanna, può in seguito addurne per l’assoluzione, ma chi ne ha addotti per l’assoluzione, non può disdirsi e addurne per la condanna. » E ancora: « I giudici ascoltano l’accusato… dicono se ha qualcosa da dichiarare in sua difesa, purché nelle sue parole vi sia qualche fondamento… Se i giudici Io riconoscono innocente lo liberano; altrimenti rimandano la sentenza al giorno appresso. Si uniscono a due a due, prendono parco cibo senza bere per l’intera giornata, e discutono per l’intera notte, il mattino appresso vanno di buonora al tribunale. Chi è per l’assoluzione dice: Ero per l’assoluzione e rimango nella stessa opinione. II giudice che già sostenne la colpevolezza dell’accusato può adesso sostenere l’innocenza, ma non viceversa. » (Da notare il dettaglio). « Se i giudici commettono un errore nell’opinione che esprimono, cioè affermano il contrario di quanto hanno affermato prima, i due scrivani dei giudici li correggono. Se riconoscono l’innocenza lo liberano, altrimenti passano alla votazione. Se dodici assolvono e undici condannano, l’accusato è dichiarato innocente. Se dodici condannano e undici assolvono, come pure se undici assolvono, undici condannano e uno si astiene, ovvero se ventidue assolvono o condannano e uno si astiene: si aumenti il numero dei giudici ». Fino a che numero? « Fino a settantuno in tutto » (che era poi il numero regolamentare del Gran Sinedrio in piena seduta). « Se trentasei assolvono e trentacinque condannano, si dichiara innocente; se trentasei condannano e trentacinque assolvono, discutono fino a che uno dei propensi a condannare muti sentenza ».

Come si vede le norme largheggiano abbondantemente a favore dell’imputato. Ma â— chiediamocelo â— furono seguite queste norme nel processo di Gesù? Fino a che punto nella lettera? Fino a che punto nello spirito?

(omissis)

Il cavaliere Ponzio Pilato era succeduto al procuratore Romano Valerio Grato. Era il sesto procuratore della Giu ­dea, dove non risiedeva il preside: e perciò ne faceva le veci.

Breve flash sulla Palestina « romana ». Quando il tetrarca Archelao, figlio di Erode il Grande, fu deposto ed inviato in esilio, l’imperatore Ottaviano Augusto aveva annesso all’impero i territori della sua tetrarchia, cioè la Giudea, la Samaria e la Idumea. Era così appagato, dopo dieci anni, un desiderio ripetutamente espresso da una delegazione di giudei, di giudei che non ne volevano più sapere di libertà, poiché agli occhi loro la libertà era soltanto anarchia, disordine, miseria. Si trattava probabilmente di una rappresentanza di quel ceto mercantile ed agiato che esigeva la fine delle guerre civili e la pace sociale â— che era poi la pace dei commerci e degli affari. Quando una regione passava sotto la diretta amministrazione di Roma, ipso facto essa veniva eretta in provincia, oppure, unita ad una delle province già esistenti. C’erano province e province: quelle di frontiera e meno sicure, presidiate da forti guarnigioni, Ottaviano le teneva per sé, per meglio controllarle; mentre quelle interne, tranquille e poco presidiate, erano lasciate al senato. Di qui, come è noto, province, senatorie e imperiali. Le senatorie erano governate, come in antico, da proconsoli, eletti di solito annualmente; quelle imperiali erano governate invece personalmente da Augusto tramite i suoi legati. Ma c’erano alcune province le quali, per la particolare situazione politica in cui si trovavano, esigevano una conduzione di governo tutta particolare: qui Augusto allora spediva non un legatus, ma un praefectus o un procurator, procuratore.

Tornando alla nostra Palestina: i territori lasciati da Archelao erano stati annessi alla vicina provincia della Siria, la quale era imperiale, e certamente fra le più importanti, a causa della sua posizione geografica. Tuttavia non si era trattato di un’annessione vera e propria, ma piuttosto di una subordinazione di poteri: infatti nei nuovi territori era stato inviato un procuratore, il quale nell’espletamento delle sue funzioni era controllato a distanza dal legatus della provincia di Siria.

Il procuratore romano della Giudea risiedeva abitualmente a Cesarea, che costituiva l’unico porto della Palestina. Lo scrittore Tacito l’aveva infatti chiamata « capitale della Giudea », anche se capitale politicamente non era. Tanto a Cesarea quanto a Gerusalemme, il procuratore risiedeva nei due rispettivi palazzi di Erode, trasformati in praetorium: tale veniva chiamata la residenza del procuratore.

Detto per inciso: per i romani il praetorium era il luogo dove il praetor, pretore, stabiliva il suo ufficio: esso poteva essere una tenda militare, un castello fortificato, il palazzo di un re deposto. L’ufficio del pretorio conserverà sempre un’austera semplicità, rimanendo costituito essenzialmente da due principali arredi: il cosiddetto « tribunale » e il seggio curule. Il « tribunale » era una specie di predella a forma semicircolare, di sufficiente altezza ed ampiezza, ma tale da potersi facilmente trasportare ed impiantare in ogni luogo; il seggio curule era l’antico seggio dei magistrati romani, collocato al centro della predella semicircolare. D’alto del « tribunale » il pretore amministrava ufficialmente la giustizia. A Cesarea, sede ufficiale del procuratore della Palestina, il pretorio era impiantato nella reggia di Erode il Grande; anche a Gerusalemme, quando il pretore vi si recava, la sua abituale dimora era, come abbiamo detto, la reggia di Erode: ma ciò non esclude che essa potesse essere impiantata anche altrove, come ad esempio nella fortezza Antonia, la quale forse si prestava meglio, se non altro per sorvegliare le folle che accorrevano nel vicino Tempio in occasione della Pasqua e delle altre grandi feste ebraiche. Resta tuttora da risolvere il quesito dell’ubicazione del pretorio di Pilato, in occasione del processo di cui ci stiamo occupando: nella ex reggia di Erode, oppure nella fortezza Antonia ? Tutto lascia credere che in quel giorno fosse nella fortezza Antonia.

Dalla minuta descrizione che Giuseppe Flavio fa dell’ Antonia, risulta che essa era costituita da un quadrilatero rafforzato agli angoli da quattro grosse torri; esso racchiudeva nel mezzo un vasto cortile a cielo scoperto contornato da portici, da casematte e dai muri del quadrilatero. Il cortile ovviamente era frequentatissimo. Vi passavano tutti coloro che andavano e venivano e che avevano pratiche da sbrigare in quel luogo; vi stazionavano inoltre i soldati di guarnigione, che, durante i giorni feriali, vi facevano esercizi militari. E’ intuibile perciò che quel cortile fosse provvisto di un buon lastricato che ne proteggesse il suolo. E’ dal ritrovamento archeologico di questo lastricato che è stato possibile ricostruire il luogo dove probabilmente Gesù fu condannato per sedizione dal procuratore.

Dei primi procuratori sappiamo ben poco. Il primo dovette essere un certo Coponio, entrato in carica nell’anno 6 dopo Cristo, cioè appena deposto Archelao. Giunto sul luogo insieme al legato di Siria, Alpicio Quirino, aveva eseguito il primo censimento della regione nuovamente annessa; Coponio era rimasto in carica tre anni, cioè dal 6 al 9, dopo Cristo s’intende; e altrettanto i suoi successori: Marco Ambivio e Annio Rufo, gli ultimi nominati da Augusto.

Il primo nominato da Tiberio era stato Valerio Grato, ed aveva governato dal 15 al 26. Valerio Grato aveva avuto qualche difficoltà nel trovare un Sommo Sacerdote con cui andare d’accordo: infatti, appena arrivato, aveva subito deposto quello trovato in carica, cioè Anano, meglio conosciuto nei Vangeli col nome di Anna, il grande silenzioso inquisitore di Gesù. In quattro anni Valerio Grato s’era visto sfilare sotto gli occhi quattro successori al sommo pontificato: Ismaele, Eleazaro, Simone, e infine Giuseppe detto Qajapha, cioè Caifa. Sembra che con quest’ultimo l’accordo fosse perfetto.

A Valerio Grato era successo, nell’anno 26, Ponzio Pilato. Sulle origini e la carriera di quest’uomo â— che legherà il suo nome per i secoli e i millenni al processo di Gesù Cristo â— qualcosa sappiamo. E’ stato accertato, o quasi, che Pilato era di Siviglia, una delle quattro città della Spagna Betica che godevano del diritto della cittadinanza romana. Suo padre, Marco Ponzio, si era segnalato in occasione di un ambiguo episodio: per aver comandato un pugno di rinnegati che avevano rivolto le armi contro i loro compagni di schiavitù. La Spagna essendo stata sottomessa, Marco Ponzio aveva ottenuto il segno di distinzione, il pilum (giavellotto), da cui la famiglia prenderà appunto il nome di Pilato. Il figlio, Lucio Ponzio, si era messo al seguito di Germanico, che poi sarebbe perito in Siria per ordine di Tiberio, e con lui aveva combattuto le guerre della Germania. Dopo la pace era venuto a Roma in cerca di piacere e soprattutto di conoscenze: il giovanotto aveva grandi ambizioni. In questa ricerca pare fosse deciso a servirsi di tutto, non escluso il talamo â— vogliamo dire un buon matrimonio. Un’occasione magnifica gli sarebbe capitata â— è chiaro che usiamo il condizionale deliberatamente â— nella figliola di quella Giulia, nata da Augusto, che dal padre era stata esiliata a causa delle sue dissolutezze dopo essere stata maritata in terze nozze a Tiberio. Ma di lei parleremo più avanti. Comunque fu grazie a questo matrimonio regale che il cavaliere Ponzio Pilato ebbe la procura in Siria. Il primo passo.

Queste le notizie biografiche dell’uomo. Sul carattere, i giudizi sono contrastanti: chi lo dipinge scontroso, ostinato, burocrate, opportunista; chi invece, come Agrippa I, che pare lo conoscesse molto da vicino, ne parla come di un uomo venale, violento, rapinatore, tirannico. Una cosa sembra certa: il cavaliere Ponzio Pilato nutriva un sovrano disprezzo per i suoi amministrati. Spieghiamoci meglio: per gli ebrei, niente simpatia; anzi non perdeva occasione per stuzzicarli e irritarli: se fosse dipeso da lui â— era solito dire â— una bella retata di quei mascalzoni, e via nelle cave d’Egitto ad estrarre rame.

Il suo esordio era stato infelice. Non appena arrivato a Gerusalemme, aveva dato ordine al presidio di introdurre di notte in città i vessilli con l’effigie dell’imperatore, per mettere il mattino seguente la popolazione di fronte al fatto compiuto. La reazione dell’ala più estremista dell’ebraismo, degli Zeloti, era stata immediata: per cinque giorni e cinque notti essi avevano supplicato il procuratore a Cesarea di rimuovere i vessilli dalla « città santa ». Pilato li aveva ricevuti con alterigia, e alle rimostranze aveva risposto con durezza insolita. Anzi, al sesto giorno, piuttosto seccato, aveva fatto circondare dalle truppe i postulanti in pubblica udienza, ingiungendo loro di togliersi dai piedi. Costoro, anziché alzarsi, si erano gettati a terra, si erano denudati e, offrendo il collo, avevano dichiarato di essere pronti a farsi scannare piuttosto che cedere sui principi. Pilato, che non si aspettava tanta resistenza, era stato costretto a ripiegare in buon ordine: sarebbe stato un fatto estremamente impopolare inaugurare il suo mandato con una strage. Che cosa avrebbe detto Cesare? Ma soprattutto che cosa avrebbero detto i suoi nemici a Roma ? In una parola, aveva fatto ritirare i vessilli.

Né l’incidente dei vessilli era stato il solo. A distanza di poco tempo ecco scoppiare un’altra grana; la questione dell’acquedotto. Per portare a Gerusalemme l’acqua di cui la città lamentava la mancanza, Pilato aveva avuto un’idea ardita e senza dubbio lodevole: costruire un acquedotto che convogliasse le acque dalla grande riserva a sud-ovest di Betlem alle cosiddette « vasche di Salomone »; a tal uopo il procuratore aveva attinto la necessaria copertura finanziaria dal tesoro del Tempio. Non l’avesse mai fatto! Sollevazione generale in città. Questa volta però Pilato mostra il pugno di ferro: fa sparpagliare soldati travestiti fra i dimostranti, e, al momento stabilito, estraggono randelli dalle tuniche e si mettono a manganellare indiscriminatamente la folla.

Ed infine, terzo incidente; la questione degli scudi dorati. Pilato ne aveva fatti appendere alcuni recanti il nome dell’imperatore sulla facciata del palazzo di Erode in Gerusalemme. Una delegazione di Zeloti si era rivolta direttamente a Tiberio ed aveva avuto ragione: gli scudi dovevano essere rimossi. E Pilato dovette rimuoverli. Il quarto incidente è quello che gli sta capitando in questo momento: destinato a scolpire il suo nome nel bronzo dei secoli, per l’esecrazione delle generazioni. Come è noto, il « fattaccio » avviene in Gerusalemme, in occasione della celebrazione della Pasqua. Era consuetudine dei procuratori recarsi nell’ex capitale del regno di Giuda in queste ricorrenze. Pilato vi era probabilmente arrivato la sera prima.

Quale responsabile dell’ordine pubblico il procuratore poteva disporre di truppe mercenarie, reclutate fra samaritani, siri e greci: ma non di ebrei, i quali godevano dell’antica esenzione dal servizio militare. Inoltre, quale capo amministrativo, egli rispondeva direttamente davanti all’im ­peratore della riscossione delle imposte. E infine quale amministratore della giustizia disponeva di un suo tribunale in cui esercitava il cosiddetto ius gladii cioè il diritto di spada, con potestà di sentenze capitali: chi godeva della cittadinanza romana poteva appellarsi a Cesare; per gli altri, niente da fare.

Per l’ordinaria amministrazione funzionavano anche collateralmente tribunali locali con piena libertà: tra questi il Sinedrio. Se teoricamente il capo del popolo restava il Sommo Sacerdote, in realtà ad esercitare l’effettivo potere era questo funzionario romano, il quale aveva tra l’altro la facoltà di nominare o destituire la massima autorità religiosa. Facoltà â— diciamolo subito â— soltanto potenziale: poiché un gesto del genere avrebbe suscitato un vespaio di risentimenti e una catena di controrisentimenti difficilmente controllabili.

L’atteggiamento dell’autorità romana nei confronti della religione ebraica era sempre stato improntato al rispetto e alla tolleranza. Era una norma costante di Roma la non ingerenza assoluta negli affari del culto locale. Anzi, in più di una circostanza l’autorità centrale aveva ostentato una certa simpatia per il culto ebraico: per esempio, più di una volta dalla famiglia imperiale erano partite offerte per il Tempio di Gerusalemme. E’ noto che Augusto stesso volle che vi fossero sacrificati ogni giorno a sue spese un bove e due agnelli « per Cesare e per il popolo romano ». Rispetto rigoroso per la religione e le tradizioni locali, dunque: al punto che, data la nota allergia ebraica alle raffigurazioni di esseri viventi, ai soldati romani di presidio a Gerusalemme era stato proibito di portare vessilli recanti l’effigie dell’imperatore: di qui, come abbiamo visto il noto incidente con Pilato.

Ma, a dispetto di tanta tolleranza, l’odio strisciava sempre in questa città santa e maledetta. I romani cercavano di fare del loro meglio: esercitavano, sia pure in modo liberale, un dominio, che era sempre però un dominio: e tale infatti non poteva non apparire ai dominati: cioè una vergogna per Israele. Ciò che predicavano i fanatici dell’ala estrema del fariseismo era l’insurrezione: non bisognava subire il dominio dall’esterno standosene ad aspettare dal cielo il Messia: questo era soltanto opportunismo, ipocrisia. Occorreva invece liberarsi del dominio straniero aggredendolo. Niente più compromessi â— dicevano costoro â— niente più sottomissione: le preghiere nel Tempio non bastavano; occorreva il pugnale, quello che i romani chiamavano appunto « sica ». (Perciò d’ora in avanti questi estremisti si chiameranno « sicari ».) Era la guerriglia ? Qualcosa di più: era il terrorismo, il pugnale dentro la tunica, il colpo isolato contro l’ufficiale romano o il collaboratore ebreo. Ma per il momento non siamo ancora a questo. Al tempo di Pilato â— poiché a questo tempo ci riferiamo â— il terrorismo è soltanto ideologico.

(omissis)

… in che modo avrebbe potuto morire Gesù se fosse stata applicata la legge ebraica ?

Il Talmud prevedeva varie pene. Un modo, diremmo tradizionale, di dare la morte in uso presso gli ebrei, era la lapidazione. Essa si eseguiva in due modi: o seppellendo sotto le pietre il condannato, con l’obbligo per i testimoni che lo avevano accusato, di scagliare per i primi le pietre; o conducendo il morituro su una rupe elevata, da dove uno dei due testimoni accusatori lo precipitava giù, mentre l’altro gli faceva rotolare una grossa pietra sul corpo, dopo di che, se non moriva, con l’aiuto dei presenti lo finiva a colpi di sassi. E’ probabile che l’una e l’altra esecuzione fossero accompagnate dal rituale cui si riferiscono i rabbini dal Talmud; questo precisamente: il condannato era condotto

fuori della città, preceduto da un messo del Sinedrio che teneva nelle mani una picca in cima alla quale sventolava un panno, volendosi così richiamare l’attenzione di chiunque avesse a proporre qualche giustificazione a favore del condannato: giacché se qualcuno si presentava, il corteo si arrestava, e il condannato era ricondotto in prigione.

Altra maniera di dare la morte era quella per « abbruciamento ». Essa veniva data soltanto in certi casi: per esempio per punire il reato d’adulterio con la suocera o con la figliastra, o per punire la prostituzione della figliola di un sacerdote. La pena si eseguiva generalmente dando fuoco al condannato sul rogo; c’erano delle varianti, come risulta da alcune notizie del Talmud: accadeva cioè che il condannato dovesse trangugiare piombo liquefatto affinché il corpo si potesse conservare.

Una morte certamente più semplice e fredda era riservata a tutta una città che peccasse di apostasia seguendo culti politeistici e idolatri. Tutti gli abitanti dovevano essere passati a fil di spada e decapitati, e la città, con tutto ciò che conteneva, data alle fiamme, affinché si trasfor ­masse in un colossale sepolcro in onore del Dio â— Jahvé.

Straordinariamente mite appare invece la pena riservata agli incestuosi: si parla di fustigazione. Doveva avvenire alla presenza del popolo radunato. Soltanto in casi gravissimi, era prevista l’impiccagione.

Le pene estreme erano dunque tre: l’impiccagione, la lapidazione, l’abbruciamento. Tra le pene minori â— parliamone per dovere di cronaca: la flagellazione. Infatti nel Deuteronomio è detto ai giudici che, se vedranno che colui che ha peccato sia degno di essere battuto, lo faranno distendere per terra e lo faranno battere in loro presenza: la quantità delle battiture sarà secondo la misura del peccato, comunque non superiore, come abbiamo detto altrove, ni numero di 39. Particolare curioso: la flagellazione era applicata anche a peccati, diciamo, insignificanti: il legislatore deuteronomista l’aveva prevista anche per coloro che avevano messo la musoliera al bue che trebbiava le hindi’ nell’aia, poiché gli animali che aiutavano l’uomo nelle sue fatiche dovevano avere qualche parte dei frutti dell’opera comune.

Scendendo nei dettagli del codice talmudiano: quando due uomini venivano a rissa, e uno percuoteva l’altro con un sasso o             con un pugno, e questi non moriva, ma veniva costretto a letto… che succedeva? Il percussore era esente dii pena, a condizione che risarcisse i danni, le ore di lavoro perdute, le spese mediche, come diremmo oggi, eccetera. In altri casi erano previsti l’arresto e la detenzione fino al momento in cui non era stata accertata la gravità delle percosse. Se l« persona fosse deceduta, al feritore era riservata In perni capitale.

In questo bestiario delle pene e supplizi non possiamo dimenticare la famigerata legge del taglione e in partii olmi del taglio della mano â— pene e supplizi comunissimi del imi » ad altri popoli antichi dell’Oriente. Occhio per occhio, denti per dente, mano per mano, piede per piede, scottatura per scottatura, ferita per ferita, contusione per contusione: così è scritto. In quell’antico codice penale giudaico che è il Talmud tutti i casi sono previsti: se uno per odio dà una spinta ad un uomo e getta sopra di lui qualche cosa con mala intenzione – dice – o se essendo suo nemico lo batte con le mani e quegli viene a morire, il percussore è reo d’omicidio: in questo caso il parente dell’ucciso, subito dopo che lo troverà, potrà ucciderlo a sua volta; ma « se per accidente o senza odio e senza inimicizie egli ha fatto queste cose e ne avrà recate le prove innanzi al popolo, quando sarà stata ritirata la causa fra il percussore e il parente del morto, sarà egli liberato come innocente dalle mani del vendicatore ». E’ evidente che siamo di fronte ad una specie di taglione « traversale ». La pena del taglio della mano era inflitta alla donna per un certo suo atto â— non si capisce bene se più comico o legittimo â— compiuto in difesa del marito. Legifera il Deuteronomio: « Se due uomini verranno a contesa tra loro ed uno comincerà a rissare con l’altro e, volendo la moglie di questo salvare il marito dalle mani di quello che è più forte, stenderà la mano… »: le taglierai la mano e non avrai misericordia di lei. E perché poi ? Non si capisce tanto rigore se non si considera l’atto della donna nell’alzare la mano come un attentato alla verecondia. E’ logico che in caso di rissa ogni rissante si possa considerare al tempo stesso provocatore e provocato, aggressore e aggredito; ma non si comprende tanta crudeltà di pena alla donna, non animata da alcun eccesso di impudicizia, ma risoluta soltanto a salvare il marito da un avversario più forte di lui.

Tutte le esecuzioni delle pene incontravano un ostacolo, e questo era costituito dal diritto d’asilo consacrato in sei città; tre ad oriente e tre ad occidente del Giordano. L’istituto della grazia era ignorato. La grazia è infatti inconciliabile col concetto di una legge divina che nessun uomo poteva né ignorare né ritoccare: anzi, se dobbiamo dare ascolto agli autori del Talmud, i re, mentre erano sforniti della prerogativa della grazia, avevano la potestà di supplire con i loro decreti alle deficienze della legge, mandando a morte un colpevole che non fosse sopraffatto dalla somma dei requisiti legali per essere giuridicamente condannato. Insomma, la potestà legale non era per difendere l’accusato, ma per colpirlo.

Veniamo ora all’atto che ci interessa: il reato di bestemmia. Tra i delitti puniti con la massima pena c’erano gli attentati all’ordine religioso costituito. Il falso profeta che si levasse in mezzo al popolo a sostenere di avere avuto visioni e sogni, o a predire qualche segno di prodigio era punito con la morte. Parimenti punito con la morte per lapidazione era il bestemmiatore, non altrimenti indicato e definito dalla legge. In questo caso tutti coloro che avevano udito la bestemmia avevano il dovere di mettere le mani sul colpevole e di lapidarlo. Con la stessa pena era punito chi, senza spacciarsi profeta, tentava di indurre altri a seguire culti politeisti e idolatri: in questo caso il sedotto doveva essere il primo ad alzare la mano; poi l’alzava tutto il popolo, e il seduttore moriva sotto le pietre. Uguale sanzione era riservata a chi, senza distrarre altri dal monoteismo, professasse per sua credenza il culto di dèi stranieri, sconosciuti ai padri. In questo caso il miserabile asceta veniva condotto fuori delle porte della città e â— così dice il Deuteronomio â— doveva assistere all’erezione del macigno che gli avrebbe dato la morte. Cadevano sotto il rigore di questa pena coloro che professavano il culto dell’idolo Moloch, rei di professare culti barbari come quelli di sacrificare a questo dio crudele i propri figli. E finalmente erano puniti con la lapidazione, come colpevoli (li oltraggio al monoteismo, coloro che si dicevano posseduti dallo spirito di Pitone; erano colpiti con la morte i cultori di arti divinatorie,

i negromanti, i maghi, gli indovini, gli stregoni. Per Gesù dunque non c’era che da applicare un paragrafo del Deuteronomio: « Quando si levi in mezzo al tuo popolo un profeta o un tale che dica di aver avuto visioni in sogno e predica qualche segno e prodigio… quel profeta o inventore di sogni sarà messo a morte perché ha parlato per alienarvi dal signore Dio Vostro, il quale vi trasse dalla terra d’Egitto e vi riscattò dalla casa di schiavitù ». Dunque Gesù, che secondo la prima accusa â— la quale tra l’altro era falsa â— avrebbe predetto la distruzione del Tempio e il prodigio della sua riedificazione in tre giorni, si presentava come un visionario: cadeva pertanto sotto i rigori di questa disposizione: avrebbe dovuto essere condotto nel luogo del supplizio per esservi impiccato. C’era poi un’altra disposizione, quella del Levitico, che diceva: « Conduci il bestemmiatore fuori degli alloggiamenti; e tutti quelli che lo hanno udito pongano le mani sul suo capo e tutto il popolo lo lapidi. E dirai ai figlioli d’Israele: chiunque maledirà il suo Dio porterà la pena del suo peccato e chi bestemmierà il nome de! Signore sarà messo a morte ».

Ma Gesù, l’abbiamo già detto in altra parte, cadeva sotto il rigore della legge romana. L’accusa era di sedizione, non di bestemmia. Dunque, pena romana. Dunque crocifissione.

(omissis)

Sotto il peso della trave Gesù vacilla, incespica ad ogni passo, sembra debba stramazzare da un momento all’altro. Il centurione che comanda la scorta è preoccupato: l’ufficiale ha ricevuto l’ordine di portare a termine l’operazione entro l’ora fissata. Non vuole storie. Così, per evitare ritardi o complicazioni, decide di ricorrere alla « requisizione » del primo passante.

Il primo passante che incrocia pare sia un certo Simone di Cirene, che l’evangelista Marco ama segnalare ai suoi lettori di Roma come padre di Alessandro e di Rufo (probabilmente due personalità della prima generazione cristiana). Simone veniva dalla campagna, dove era stato a lavorare, ed era diretto a casa. Il centurione lo scorge e con fare brusco lo requisisce: in poche parole gli ordina di portare il palo che il condannato Gesù non era più evidente ­mente in grado di sorreggere. La leggenda si è sbizzarrita su questo Simone di Cirene. Nulla prova che questo Simone conoscesse Gesù o che gli fosse amico o discepolo: quindi nulla prova che l’ordine ricevuto dal centurione fosse veramente gradito al « requisito ». Se questi si sobbarcò alla bisogna, certo dovette farlo di malavoglia, comunque protestando c mugugnando.

La tradizione non lascia solo Simone ad aiutare Gesù. Un altro soccorso, questo spontaneo, sarebbe venuto dalle donne. Gesù le aveva viste, nel momento in cui fu scaricato del palo, raddrizzandosi un poco, egli avrebbe scorto tra la moltitudine ostile quel gruppo di donne che lo seguivano piangendo e lamentandosi. Tutto fa supporre che si trattasse delle « figlie di Gerusalemme », cui senza dubbio dovettero aggiungersi anche alcune donne galilee, le sue grandi o delicate amiche di un tempo migliore. Sembrerebbe, almeno da una notizia rabbinica, che in Gerusalemme esistesse una pietosa associazione di nobili dame, solite ad assistere i condannati a morte, per consolarli ed eventualmente somministrare loro del vino con mesco ­lato dentro un po’ d’incenso, che, così combinato, faceva da stupefacente, da anestetico alle sofferenze.

Non appena il corteo giunge al luogo del supplizio, il centurione ordina di crocifiggere immediatamente i condannati. L’ufficiale ha fretta. Subito a tutti e tre ò offerto, come vuole la regola, un po’ di vino mescolalo con mirra, altro stupefacente che aveva il potere di intorbidire i sensi e rendere meno atroce l’agonia. A quanto pare, Gesù vi avrebbe accostato le labbra e subito se ne sarebbe ritratto: voleva bere fino all’ultima goccia il calice assegnatogli dal Padre. Ciò fatto, i tre vengono issati sul palo.

La crocifissione era una pena che Roma aveva guardato sempre con disprezzo, per non dire spavento.

Cicerone, quando accenna ad essa nei suoi discorsi contro Verre, la chiama ora « il supplizio più crudele e il più tetro », ora « estremo e sommo supplizio della schiavitù ». Si sa infatti che la pena era di solito riservata agli schiavi, e anche per questi in casi di delitti gravissimi: infatti lo schiavo era spesso chiamato con sarcasmo « portatore di croci » (in latino « furcifer »). Ricorrenti erano infatti alcune espressioni, come « so che la croce sarà il mio sepolcro ». Nessun cittadino romano, degno di questo nome, avrebbe dovuto soffrire tale infamia. Cicerone esclamava inorridito: «che un cittadino romano sia legato, è un misfatto; che sia percosso, è un delitto; che sia ucciso, è quasi un parricidio; che dirò, dunque, se è appeso in croce? A cosa tanto nefanda non si può dare in nessun modo un appellativo sufficientemente degno! ».

C’erano tre diversi tipi di croce ai tempi di Gesù. La prima…

… (asse verticale e asse orizzontale), chiamata « croce immissa » o « capitata », riferentesi al capo più corto, quello superiore, che faceva appunto da capo; la seconda, detta croce « commissa », era l’unica che avesse tre soli bracci essendo priva di « capo »; la terza, assai poco in uso, era la così detta croce « decussata » o di « sghembo », detta oggi comunemente « croce di Sant’Andrea ».

Per quanto riguarda Gesù e i suoi due compagni di sventura, è molto probabile che sia stata adoperata la prima delle tre, e cioè la « croce immissa ». In essa si distinguevano due parti: il palo verticale chiamato « stipes » o « staticum », che doveva essere piantato in terra, e il palo orizzontale chiamato « patibulum » o «antenna »; il palo verticale non era del tutto liscio come si crede o si è comunemente creduto: verso la sua metà sporgeva infatti un robusto zoccolo, chiamato alla latina « sedile », su cui si appoggiava a cavalcioni la vittima. Sostegno del resto necessario; come poteva il corpo del condannato reggersi sulla croce con i quattro chiodi soltanto? Le mani si sarebbero lacerate a causa del peso sproporzionato.

Vicino al palo verticale, lo « stipes », subito piantato per terra, il condannato è spogliato delle vesti. La nudità era di rigore, almeno presso i romani. E’ probabile però che presso alcuni popoli, specialmente orientali, e nel nostro caso i giudei, al condannato fossero ricoperti alla meglio, col primo straccio che capitava sotto mano, gli organi genitali. Le vesti dei morituri sono contese tra i soldati di guardia, come una specie di bottino. Si trattava del resto di ben poca cosa: come si sa, gli indumenti di un giudeo erano formati da due principali capi di vestiario: l’indu ­mento esterno o mantello e quello interno o tunica. Il mantello era formato da più pezze di stoffa cucite insieme; la tunica invece doveva essere priva di cuciture, il tessuto dall’alto in basso essendo tutto d’un pezzo. Scrive Giovanni: «I soldati pertanto, quand’ebbero crocifisso Gesù, presero le vesti di lui e ne fecero quattro parti, ogni parte per ciascun soldato, e presero la tunica. Ma la tunica era priva di cuciture, intessuta dall’alto. Dissero pertanto tra di loro: « Non la dividiamo ma tiriamola a sorte di chi sarà ». Se il mantello infatti poteva essere diviso lungo le sue cuciture, e quindi spartito, la tunica no. Dividerla significava tagliarla, praticamente renderla inservibile. E’ ovvio perciò che i soldati s’accordassero nel giocarsela a dadi.

Così denudato, il condannato viene disteso a terra supino, sul palo orizzontale della croce, il « patibu ­lum », lo stesso che ha portato sulle spalle sul luogo del supplizio. Qui, in questa posizione, le mani gli sono inchiodate al palo.

Dopo aver compiuto questo primo inchiodamento, il morituro viene alzato sul palo verticale: quasi certamente per mezzo di una fune che lo legava al petto e che scorreva poi sull’estremità del palo piantato verticalmente in terra, in modo da essere collocato a cavalcioni sul « sedile ». A questo punto il palo orizzontale viene congiunto con quello verticale per mezzo di chiodi o di corde. Infine vengono inchiodati i piedi.

Contrariamente all’immagine del crocifisso della tradizione, pare che nell’inchiodatura dei piedi fossero impiegati due chiodi, uno per piede: la posizione del condannato era quella di chi sta seduto, i piedi inchio ­dati e separati, e non sovrapposti l’uno all’altro…

Così ridotto, l’infelice attendeva la morte. L’agonia che la precedeva era terribile. Egli vedeva sfilare ai suoi piedi gente d’ogni specie: nobili che lo umiliavano senza degnarlo di uno sguardo, mercanti che commentavano il suo supplizio con ostilità, bambini incuriositi che cercavano di toccare il suo corpo tumefatto. Ad alleviare l’atroce agonia, quasi mai nessuno, tutt’al più qualche parente, qualche donna. I soldati che stavano di guardia ai piedi del patibolo avevano l’ordine di impedire a chiunque di avvicinarsi, sia per molestarlo, sia per recargli sollievo. Non di rado, a tormentare ancora di più l’agonia del morituro c’erano le sassate lanciate da qualche monello o per vendetta da qualche passante.

La morte poteva avvenire per dissanguamento, anzi quasi sempre per dissanguamento. Qualche volta sopravveniva il delirio, a causa della cosiddetta febbre vulneraria, o per la fame, la sete… Ma, come dice il Renan, la rottura di qualche arteria provocava un’emorragia interna e quindi la morte. La quale, di solito, non si faceva attendere molto: le costituzioni più deboli erano in fondo le più fortunate; ma gli organismi più robusti resistevano, resistevano giornate intere sulla croce, si spegnevano a poco a poco in un’agonia agghiacciante. E’ noto che spesso i carnefici, irritati da questa lunga attesa, affrettavano la morte producendo col fuoco un denso fumo sotto la croce, o addirittura trapassando con un colpo di lancia il     corpo del crocifisso, oppure praticando il cosiddetto « crurifragio »: rottura del femore dell’agonizzante a colpi di clava.

Finalmente, a morte sopraggiunta, almeno nei tempi più antichi, il cadavere restava ancora sulla croce. Vi restava fino alla decomposizione, vi restava fino al totale scempio che ne facevano i cani saltando dal basso e gli uccelli calando dall’alto. Solo più tardi, ai tempi di Augusto, si concederà il cadavere agli amici e parenti che lo richiedessero per seppellirlo.

Gesù patì uno per uno tutti questi tormenti. Nulla gli fu risparmiato!

(omissis)

Un ritratto apocrifo di Gesù

Sembra che al tempo del processo di Gesù, Tiberio vivesse a Capri, acciaccato, invecchiato, stanco. L’imperatore e il senato â— cosa che vedremo sistematicamente applicata per esempio a Venezia â— avevano nelle diverse province dell’impero degli osservatori: o meglio delle spie. Gli agenti dovevano prendere nota di ciò che avveniva, ragguagliare il senato e l’imperatore sui principali avvenimenti, passando se necessario alle spalle delle autorità ufficiali. Sembra che uno di questi fosse Publio Lentulo, patrizio, discendente da quel Lentulo Sura che, complice di Catilina, era stato decapitato nel carcere Mamertino per ordine di Cicerone: acqua passata… Dunque sembra che questo Lentulo, ufficial ­mente prefetto di Tiberio per le cose di Galilea prima, di Giudea poi, avesse inviato al senato di Roma una circostanziata relazione sul passaggio in Palestina di un uomo straordinario chiamato Cristo: il testo di questa presunta relazione, sulla cui autenticità non si potrebbe giurare, si trova alla Biblioteca Nazionale di Parigi. Che cosa dice questa relazione? Leggiamola (naturalmente tradotta) : « Vidi ora in Giudea un uomo di singolare virtù che chiamano Cristo. I giudei lo considerano un profeta, ma gli amici suoi lo adorano come se fosse disceso dagli dèi immortali. Si dice che egli resusciti i morti, che guarisca da ogni sorta di infermità soltanto con le parole e con il tatto. L’uomo è descritto bello e interessante di persona, dall’aspetto dolce e venerabile, con i capelli di un colore che non saprei a che cosa paragonare che gli cadono ad anelli fin sotto le orecchie, da qui scendono sulle spalle con molta grazia, divisi nel mezzo, secondo il costume dei nazareni. La sua fronte è larga e levigata, le guance tinte di un pallido roseo. Il naso e la bocca sono disegnati con meravigliosa simmetria. La barba è folta e dello stesso colore della chioma: cade di un pollice sotto il mento, dividendosi graziosamente in due. I suoi occhi sono lucenti, chiari, sereni. Quest’uomo corregge con maestà, esorta con dolcezza e, sia che parli o che si muova, lo fa sempre con eleganza e con gravità. Nessuno l’ha mai visto ridere; piangere, sì, invece, e spesso. E’ molto sobrio, molto modesto, molto saggio: è un uomo infine che, per l’eccellenza della sua bellezza e le divine sue predizioni, sorpassa veramente i figlioli degli uomini ».

 


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Bart