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STORIA: Il processo a Socrate (Atene, 470 a.C./469 a.C.[1] – Atene, 399 a.C.)

27 Aprile 2019

(da “I grandi processi della storia”, Edizizoni di Crémille – Ginevra 1970)

«Per farvi capire di che tipo sia la mia sapienza, mi appellerò alla testimonianza di Apollo, il dio di Delfo ». Qualche brusio tra la folla e qualche esclamazione soffocata. Socrate continua senza interrompersi : « Voi conoscevate senza dubbio Cherofonte; è certo stato amico di molti di voi, ed anch’io sono stato suo amico sin dalla giovinezza. Con molti di voi andò in esilio sotto i Trenta Tiranni e poi tornò dopo la loro cacciata. Voi conoscete il suo carattere e quale entusiasmo ponesse in tutto ciò che faceva. Bene. Una volta si recò a Delfo; ed ebbe il coraggio di fare all’oracolo la domanda che ora dirò; ma vi prego Ateniesi, statevene tranquilli e non fate chiasso; chiese dunque se vi fosse qualcuno più sapiente di me. Ora, la sacerdotessa, la Pizia, rispose che nessuno mi vinceva in sapienza. (Grande clamore fra il pubblico; proteste e risate alle quali partecipano anche non pochi giudici). Suo fratello… suo fratello, Cherecrate, è qui presente (lo indica nelle prime file fra il pubblico) e potrà confermarvi la verità di questo fatto, visto che Cherofonte è morto. »

La sala è in grande subbuglio. Socrate sta ormai sfidando apertamente il suo pubblico. Le sue preghiere atte a ottener silenzio non sono ovviamente servite; fin da quando ha cominciato a citare Apollo è sorto un intenso brusìo (ad alcuni, infatti, era già probabil ­mente nota la leggenda cui l’imputato si riferiva), che poi è via via cresciuto sino a diventare alta escla ­mazione di sdegno : gli Ateniesi, che si aspettavano ben altro, chissà quale rivelazione, sono delusi e irritati; Socrate è sempre lui, incomprensibile, impre ­vedibile, non sai mai se scherza o fa sul serio; e poi, insomma, irritante e offensivo, con la sua pretesa di esser creduto quando dice certe cose! A fatica l’Arconte-re riporta l’ordine. Socrate può riprendere a parlare.

« Vi prego, tenete presente la ragione per la quale vi ho raccontato tutto ciò : dovevo farvi capire come erano potute nascere tante calunnie sul conto mio. Statemi a sentire. Quando seppi della risposta del ­l’oracolo, pensai fra me e me : ‘Che mai vuol dire il dio? Qual è il senso nascosto delle sue parole? Perché io so bene di non esser sapiente in alcun modo; e allora che vuol dire che io sarei il più sapiente di tutti? Deve voler dire qualcosa, dal momento che dio non può certo dire una bugia’. E rimasi a lungo in dubbio a riflettere sul significato dell’oracolo. Poi mi feci forza e mi decisi a cercare una spiegazione. Feci così : andai da un tale che aveva fama di esser molto sapiente; in tal modo avrei fatto in fretta a confutare l’oracolo, dimostrando che c’era senz’altro qualcuno più sapiente di me. Andai quindi a parlare con quest’uomo (non è necessario che io faccia qui il suo nome; basterà sapere che è un uomo politico) e, conversando, intanto lo esaminavo. L’impressione che ne trassi, Ateniesi, era che sì, aveva senza dubbio l’aria di esser sapiente, e che così infatti tutti gli altri lo giudicavano; lui poi era convinto di esser sapientissimo; ma in realtà non era sapiente affatto. Mi sforzai allora di dimostrarglielo, di fargli capire che, mentre lui si credeva sapiente, non lo era. Così gli diventai odioso, e anche a molti altri che erano presenti. Andatomene di lì pensavo : ‘Io certo ne so più di quest’uomo; può darsi infatti che né io né lui si sappia alcunché di buono, ma mentre lui crede di sapere tante cose che non sa, io almeno, pur non sapendo niente quanto lui, non credo di sapere ciò che non so’. Allora andai da un altro, che era ritenuto ancor più sapiente; e fu la stessa storia. Col risultato che divenni odioso anche a lui e a molti altri.

Mi accorgevo bene delle ostilità che mi tiravo addosso col mio comportamento, ma non desistetti perché mi sembrava più importante non trascurare la parola del dio. E così continuai a consultare tutti quelli che avevano la reputazione di sapienti. Perdiana, Ateniesi, bisogna bene che vi dica la verità : il risultato fu che proprio quelli che avevano fama di esser più sapienti, ne sapevano meno, e caso mai erano proprio quelli meno considerati a saper qualcosa. Ma bisogna che vi racconti tutti i miei andirivieni e quanta fatica mi sia costata mettere alla prova la verità dell’ora ­colo. » E Socrate narra come, dopo essersi rivolto ai politici, avesse ricercato i poeti e i tragediografi; chiedeva loro di spiegargli il senso dei loro poemi e scopriva con stupore che lo ignoravano, che la loro era un’arte istintiva, frutto di ispirazione e di naturale entusiasmo; ma non si poteva dire che essi sapessero il perché profondo di ciò che facevano. Allora si rivolse agli artigiani : costoro almeno esercitavano un’attività manuale che Socrate ignorava e dunque dovevano possedere molte cognizioni a lui negate. Infatti sapevano sì molte cose, ma come già i politici e i poeti, per il fatto di possedere qualche nozione specialistica, si arrogavano la ridicola pretesa di saper tutto e di tutto e di poter giudicare con compe ­tenza di ogni altra cosa. Così, al di là delle loro cogni ­zioni, essi si mostravano impastati di tale presuntuosi ignoranza che mai e poi mai Socrate avrebbe mai accettato di fare il cambio con uno di loro.

Socrate continua : « Questo mio gran ricercali. Ateniesi, mi suscitò contro molti nemici, e da questi molte gravi calunnie e quella fama di sapiente presuntuoso che sapete : infatti chi mi vede discutere, poiché io dimostro che il mio interlocutore è ignorante proprio là dove credeva di sapere, immagina che io invece le sappia quelle cose che l’altro ignora. Io invece penso, Ateniesi, che l’unico sapiente sia il dio, e che lui abbia voluto ammonirci, con quel responso, che la sapienza umana non vai nulla, o molto poco. Così il dio si è servito del mio nome, non perché voleva veramente parlare di me e lodare il mio sapere, ma come se avesse voluto dire : ‘Uomini, state attenti che il più sapiente fra voi è proprio quello che riconosce di non saper nulla, come ad esempio Socrate, il più ignorante’. » E io ancor oggi mi adopero a seguire la volontà del dio; e se incontro qualche concittadino o qualche straniero che mi sembra sapiente, lo interrogo; e se vedo che sapiente non è, mi sforzo di dimostrarglielo e di insegnargli l’ammonizione del dio. Questa fatica si è presa, ormai da molti anni, tutto il mio tempo, così che io non ho potuto dedicarmi ad altra seria occupazione, né pubblica né privata; e per seguire la voce del dio, mi trovo in grande povertà. » Breve pausa. Il pubblico in parte è ora serio e silenzioso; gli amici di Socrate, nelle prime file, sono palesemente commossi, anche se preoccupati. La grande maggioranza è però distratta e annoiata : è chiaro che fatica a capire il discorso e che, accorrendo in tribunale, si aspettava tutt’altro; di sicuro un dibattito più eccitante e divertente.

« Oltre a ciò â— riprende Socrate, sempre con la sua voce pacata â— i giovani delle famiglie ricche, avendone più degli altri la possibilità, hanno preso l’abitudine ili seguirmi : si divertono un mondo a vedermi mettere alla prova tutti gli uomini. Alcuni di loro Im11 limino voluto imitarmi e ci si provano a loro volta: esaminano anch’essi gli altri e non fanno fatica a  trovare tante persone che credono di sapere qualcosa, ma che poi si vede bene che sanno poco o nulla. E il bello è che quelli che subiscono queste prove, anziché arrabbiarsi con loro, se la prendono con me, e dicono che sono io il mascalzone che mette certe idee in testa ai giovani e che li corrompe. Se voi poi gli chiedete quali idee, non lo sanno â— e come potrebbero saperlo! â— e allora, per uscire dall’imbarazzo, ricorrono alle accuse solite che si fanno ai filosofi e dicono che io insegno i segreti del cielo e della terra, e che gli dei non esistono, e come si fa a far prevalere le cattive ragioni sulle buone con i trucchi del discorso. Si capisce che essi preferiscono inventare queste fandonie piuttosto che ammettere la verità, che cioè sono stati scoperti ignoranti mentre si vantavano di sapere. Sono uomini, costoro, ambiziosi e violenti, e anche molto numerosi. Da tempo mi vanno calunniando secondo un piano preordinato e con tale ostinazione che hanno finito per riempire le vostre orecchie con le loro menzogne. Tre di costoro si sono ora fatti avanti con accanimento per colpirmi, Meleto, Anito e Licone: Meleto in nome dei poeti, Anito degli artigiani e degli uomini politici, e Licone degli oratori. E’ ben difficile, come dicevo prima, e sarebbe anche strano, che io riuscissi a cancellare, nel breve tempo che ho a disposizione, delle menzogne così ben radicate, e da tanto tempo, nell’animo vostro. »

Socrate, che ha pronunziato queste ultime frasi con forza, alzando il tono della voce, in un accesso contenuto di sdegno, conclude con l’abituale pacatezza, non priva di un fondo di bonaria ironia:  « Questa è la verità pura e semplice, cittadini : io non vi nascondo nulla. Eppure io ho la sensazione, In quasi certezza, di rendermi odioso anche a voi, mentre ora vi parlo, e questa è la prova che vi ho detto la verità, che le menzogne sul mio conto si sono originali appunto in questo modo, perché io dicevo queste cose. E in ogni momento voi vogliate esaminare la questione, sempre vi accorgerete che sta come io ho detto. »

Con l’allusione alla missione che Socrate avrebbe ricevuto dal dio, allusione accolta molto male dal pubblico e dagli stessi giudici, quello che doveva essere il discorso di difesa si sta trasformando in un discorso di autoapologia. Da un punto di vista di tecnica giudiziaria, Socrate sta prendendo una strada sbagliata, e l’errore diventerà in seguito ancor più palese arrivando alla sfida dichiarata e suscitando nei giudici e nel pubblico reazioni ancor più violente. E’ chiaro che Socrate non ha preparato alcuna specifica difesa alle accuse che gli vengono rivolte, che si lascia guidare dall’ispirazione del momento, e che tale ispirazione gli prenderà la mano : più che un discorso da imputato, il suo, è l’ultimo discorso pubblico rivolto ai suoi concittadini, l’ultimo grandioso atto della sua missione terrena. Che sperava di ottenere, in tal modo, Socrate ? Probabilmente non si faceva illusioni. E’ certo peraltro che egli riuscì a trasformare un dibattito giudiziario in qualcosa di completamente diverso, sovvertendo ogni tecnica ed ogni costume. E tutto ciò è in accordo con il senso profondo del suo insegnamento. A tutti Socrate andava infatti ripentendo che non basta una sapienza « tecnica », non basta saper fare queste e queste altre cose; bisogna anche conoscere le vere ragioni per le quali quelle cose si fanno. Queste vere ragioni non le conosce nessuno e anzi, per di più, nessuno si rende conto di non saperle, soddisfatto com’è della sua abilità e del prestigio sociale che gliene deriva. Così al politico, allo scrittore, all’artigiano, manca il senso d’insieme della vita : il politico, lo scrittore, l’artigiano, ignorano 1′ « uomo », quell’uomo che è in tutti. Il politico sa « far politica », sa « come si fa »; ma, per quanto straordinario possa sembrare, non sa che cosa è veramente la politica, non se lo è mai chiesto ; ritiene anzi « ovviamente » di saperlo, visto che lui è un politico, e magari anche un politico famoso. Così egli, impegnato a far prevalere « questa » politica su « quella », dimentica la cosa più importante, e cioè che la politica non è lotta di fazioni e di interessi, non è una galleria di astuti espedienti per accattivarsi il favore popolare e toglierlo agli avversari, ricorrendo persino alla menzogna, alla deformazione, all’abuso, ma è l’arte alta e nobile della politeia (come dice la parola, il cui senso da tutti è stato ormai obliato), cioè l’arte di promuovere il bene di tutti, il « vero bene » di tutti che non si riduce a questa o a quella iniziativa felicemente condotta, al successo di questi o altri interessi particolari e di categoria, ma che pretende il realizzarsi della vita dei molti (polloi) secondo un’unità di forme « umane », giuste e sagge.

Così è da dire dei giudici, dei tribunali, di tutte le altre forme della vita associata. I giudici amministrano la giustizia, o per meglio dire le sue astratte apparenze; e poiché si accontentano delle apparenze, dei discorsi abili e astuti, delle testimonianze preparate, delle prove abilmente colorite, della « tecnica » giudiziaria insomma, mostrano chiaro di aver obliato che cosa sia giustizia e di aver stravolto il senso della loro stessa attività : non uomini che giudicano secondo giustizia, ma « professionisti », maschere professionali ridicole come le maschere della commedia e, come quelle, vuote all’interno, perché l’uomo che doveva riempirle è svanito o assente. Al limite, come estremo paradosso, ecco che potremmo avere un buon giudice, nel senso tecnico-professionale della parola, il quale poi non è, in se stesso, nella sua vita, un « uomo giusto ». Ma che importa? Il giudice non ha bisogno di essere un uomo giusto; basta che sappia amministrare bene la giustizia, conoscendone a puntino tutte le regole, il che è tutta un’altra cosa. Ma che significa questo se non che il giusto e la giustizia hanno fatto divorzio, e che esercitando quest’ultima il giudice non sa più quel che si fa, crede di sapere e ignora ? Così Socrate in tribunale, più che partecipare al processo secondo i modi richiesti, altro non fa che continuare la sua disperata ricerca e ribadire la sua caratteristica tesi : ha interrogato i politici, i poeti, gli artigiani; ora sta interrogando i giudici, e anzi la città tutta che si sta ergendo a giudice della sua vita e dei suoi atti. Alla fine, ancora una volta, avrà ragione lui : nessuno sa che cosa sia giustizia â— lo può ben dire per esperienza diretta â— sebbene tutti si immaginino di saperlo. Questa volta aver ragione gli costerà caro come mai prima; ma il prima, come egli profondamente intuisce, non è che la causa remota del poi, una catena che non poteva che finire come sta finendo. Il processo non riguarda gli dei, i giovani e altre fandonie del genere : questa è la « finta » giudiziaria alla quale Socrate non vuole assolutamente sottostare. Il processo riguarda ben altro e cioè tutto il suo stile di uomo, di uomo che irrita, che dà fastidio, che si rende odioso, come lui stesso dice. E la città, attraverso i suoi giudici, dovrà decidere tra questa sua umanità scomoda e l’umanità falsa e astuta dei suoi accusatori.

 

 


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Bart