STORIA: SCRITTORI DI GUERRA LUCCHESI: Carlo Gabrielli Rosi: “Ricordi di guerra e di pace. Donne e uomini della provincia di Lucca”16 Giugno 2019 di Bartolomeo Di Monaco È un’opera monumentale in due volumi per un totale di oltre 750 pagine di grande formato, composta soprattutto di testimonianze, le quali, per il loro numero, ci consentiranno di avere una visione completa e complessiva sulla Resistenza in Lucchesia. Del resto, lo stesso Gabrielli Rosi (fondatore nel 1989 del Museo Storico della Liberazione) nella nota iniziale scrive: “In queste testimonianze, rese da donne e uomini semplici e da donne e uomini di cultura, a mio modesto giudizio, gli storici potranno trovare notizie che, sommate e confrontate fra loro, avranno quel valore che, nei Tribunali, si usa attribuire agli interrogatori cosiddetti ‘incrociati’.”. All’amico Prof. Renzo Papini scriveva al momento della stampa del primo volume: “Carissimo Renzo, Dal libro così ricco di testimonianze trarremo solo quegli aspetti che illuminano particolari della guerra nuovi o osservati da angolature diverse. Domenico Acconci è il primo testimone che incontriamo. Ci fa sapere che la Brigata Nera andava in cerca dei renitenti alla leva, che non si facevano trovare: “Quindi il ricatto. In assenza di coloro che dovevano essere arruolati, si presero a forza in ostaggio dei familiari, per lo più mamme, anche anziane, nonne, fratelli inabili o cagionevoli di salute che erano stati riformati e non erano dovuti andare sotto le armi. I prigionieri vennero ammassati alla caserma Mazzini: pagliericci per letti, cibo scadente, servizi igienici insufficienti.”. Una descrizione della Brigata Nera ce la offre la testimonianza di Lorenzo Angelini, che si trovava nel suo paese di Pieve Fosciana, in Garfagnana: “E da Lucca arrivò anche la Brigata Nera. La prima cosa che colpiva, era vederli tutti decorati di gradi militari: chi tenente, chi capitano, qualcuno a dire il vero era anche sergente. Passeggiavano in su e giù per il paese ostentando bombe e mitra, in camicia nera. Ricordo un maresciallo tedesco che domandò ridacchiando a uno di loro: Tu SS italiana? Attiravano un odio incredibile.”. Riccardo Ambrosini, nel ricordare il rastrellamento di Valdottavo avvenuto il 20 luglio 1944, ci racconta questo episodio: “Riuscii ad entrare in contatto con Silvano Menghelli col quale avevo stretto amicizia di idee e di interessi pittorici e che, sfollato nella villetta accanto alla mia, quella mattina si era salvato immergendosi nella cisterna dell’acqua potabile, in soffitta. Il tedesco di turno era arrivato fino alla soffitta accompagnato dalla moglie di Silvano la quale gli mostrò la cisterna, ma lui non poté vederlo perché, in apnea totale, il Menghelli se ne stava nascosto nel fondo di questa, per fortuna abbastanza ampio.”. Del rastrellamento di Valdottavo, per reclutare manodopera per i lavori alla Linea Gotica, ci parla anche Claudio Ferri. Alfredo Andreini ci racconta degli americani che incontrarono “Pippo”, il comandante della XI Zona Patrioti, il quale stava ritornando a Barga insieme con alcuni suoi uomini, tra cui lo stesso Andreini. Il maggiore americano Rossetti, “che parlava bene l’italiano”, disse a Pippo che bisognava provvedere per dare un vestiario più decente ai suoi uomini: “Infatti c’era chi era vestito a fascista; chi con i pantaloni, chi col giubbotto di orbace, ricevuti o presi nelle case per sostituire i vestiti estivi. Ricordo che due o tre indossavano i vestiti dei fascisti e che gli altri indossavano degli indumenti tutti strappati e malmessi.”. Sul soprannome ‘Pippo’, Carlo Gabrielli Rosi mi disse che Ducceschi lo aveva adottato ricordandosi di uno pseudonimo usato da Giuseppe Mazzini. Giuliano Angeli, che fu mio compagno di scuola, e litografo raffinato, parla del padre, pure lui litografo, il quale “Su incarico del C.L.N provinciale di Lucca egli compose su pietra i timbri del comando tedesco di Lucca e quello dell’Ufficio Gabinetto della Prefettura di Lucca governata dalla Repubblica Sociale Italiana, riproducendoli perfettamente simili agli originali.”. Rolando Anzilotti così descrive la calma e la serenità di Pippo, il suo comandante: “Si vede che il senso dell’umorismo, quello che non è altro che controllo di se stessi, che impedisce di dare troppa importanza e sopravvalutare fatti e persone, non l’ha abbandonato. Ed è bene. Perché sarebbe facile per un giovane di ventitré anni, con tanti uomini sotto il suo comando, tante responsabilità (son chilometri di fronte quelli tenuti dalla sua formazione), e tanto onore acquistatosi, sarebbe facile perdere l’equilibrio dell’uomo saggio, inorgoglirsi, assumere atteggiamenti e pose importanti da gran capo; molto più quando è capitato di crescere in tempi di dittatori sensibili agli appellativi roboanti, alle lodi sviscerate, e che amavano mettersi le mani sui fianchi con piglio severo e autoritario. E ci sarebbe davvero da montare in superbia per Pippo.”. Lo aveva conosciuto da studente di filosofia: “Ripenso ora a quel Manrico Ducceschi, che incontrai tre anni fa all’Università di Firenze, e non so capacitarmi come in lui fossero tante qualità di uomo di azione.”; “Si discuteva a quei tempi di Montale e Ungaretti, di Cecchi e di Baldini, di quei ‘numi’ delle moderne lettere italiane per i quali il prof. De Robertis si infervorava dalla sua cattedra; si parlava di arte, di cui era assai più competente e appassionato di me”; domanda ad un compagno: “Perché credi che tanti uomini, spesso più anziani di lui abbiano voluto seguire Pippo per mesi e mesi?”, e si risponde: “Perché Pippo era quello che rimaneva eventualmente il più affamato, se i viveri non bastavano; perché colla febbre a 39, si toglieva i pantaloni per farli indossare al compagno che non aveva che un paio di brache e doveva montar di guardia; perché era capace di camminare e affaticarsi per giornate intere prendendosi meno riposo di ogni altro; perché insomma erano in lui grandi quelle doti di abnegazione, di intelligenza, di intrepidezza e di vera bontà che sono necessarie per essere prima amati, poi obbediti.”; “Nessuno si sente a disagio davanti a lui”. Su Pippo troveremo altre testimonianze. Nella testimonianza di Sabatino Bernardi abbiamo un riferimento all’attività dello stesso Gabrielli Rosi e del mio parroco di Pelleria don Silvio Giurlani (già presente in questo libro e a cui anche Gabrielli Rosi dedica un capitolo costituito dalla sua relazione a riguardo dell’attività partigiana): “In quel giorno ho assistito ad un colloquio fra Gabrielli Rosi e Mulas nel quale Gabrielli Rosi lo informava che, a Lucca, era riuscito a mettersi in contatto con un Cappellano militare che faceva parte del Comitato Militare Clandestino di Lucca. Per tramite suo era in grado di procurare alla nostra Formazione delle informazioni utili.”. Giuseppe Mulas lo troviamo ricordato anche da Dante Ghilardi, che in qualche modo ce lo descrive: “era un sardo che aveva circa cinquanta anni.”; “era stato in carcere come condannato politico per antifascismo. Sulle braccia e sul petto aveva dei tatuaggi. Era politicamente di fede comunista. Era stato in Russia e mi disse che aveva parlato personalmente con Stalin e che l’aveva incontrato nei campi agricoli.”. Di Gabrielli Rosi scrive pure, nella sua testimonianza a forma di lettera, Francesco Cipriani (ma ne parleranno anche altri, come le sue sorelle più grandi Ornella e Renata): “Potei apprendere anche che frequentavi poco la scuola perché o con la bicicletta o facendoti dare il passaggio dai camion tedeschi che da Lucca andavano verso la Garfagnana, ti recavi spesso in Val di Lima ed avevi contatti con un sardo comandante di un distaccamento dell’XI Zona. Che da lui avevi appreso che i Partigiani dovevano mangiare sempre di asciutto perché non avevano recipienti e che allora tu, facendoti dare i soldi dalla tua mamma, acquistasti cento gamellini di alluminio che riuscisti a portare nella Formazione.”. L’amico Gabrielli Rosi mi parlava spesso dei suoi studi a Pisa, iscritto alla Facoltà di Farmacia e di come a questi studi preferì alla fine il lavoro di archivista, verso il quale si sentiva portato. Fa un accenno a questi studi Pier Luigi Dell’Ovo: “riuscii a persuadere i miei genitori a farmi affittare una cameretta a Pisa, insieme a Carlo Gabrielli Rosi che faceva farmacia e non fu presente spesso perché ebbe subito degli attacchi reumatici (postumi della malattia contratta da partigiano) che lo costrinsero a casa.”. Approfitto per dire che Gabrielli Rosi volle essere sepolto nella nuda terra nel cimitero monumentale di Sant’Anna, a Lucca. Sulla tomba c’è una semplice croce e una piccola targa dorata che porta solo il suo nome. Nessuna fotografia. Dell’Ovo ci dà anche questa testimonianza interessante. Si trovava a Pisa: “Una volta mi passò accanto una jeep con a bordo una bellissima donna tutta truccata e con un turbante bianco in testa. Indossava una divisa pseudomilitare americana, la gamba destra impantalonata ed appoggiata contro il parafango; sembrava veramente Marlene Dietrich e quando recentemente ho letto la sua biografia scritta dalla figlia, corredata di fotografie, ho avuto la conferma che era proprio lei!”. Lindo Boccamaiello ci dà conto di quanto facevano per la Resistenza i lavoratori italiani forzati dai tedeschi nella costruzione della Linea Gotica nell’area di Borgo a Mozzano: “Essi dovevano quotidianamente redigere delle mappe, su carta lucida, dello stato di avanzamento dei lavori in triplice copia: una per la Wermacht, una per la Todt, e una per la Ditta Ponsi e Cuochi, appaltatrice dei lavori. Invece di tre, ne facevano quattro copie.” La quarta era destinata alle Forze Alleate che si stavano avvicinando. Ritroveremo questo aspetto nella testimonianza di Silvano Minucci, contenuta nel secondo volume: “Verso la fine del 1943 il G.A.P. ebbe richiesta da parte del Comitato Clandestino di Liberazione di Lucca di predisporre un accurato e metodico rilevamento topografico delle opere di difesa realizzate od in fase di realizzazione facenti parte della costruenda linea Gotica nel tratto di circa 20 km. di sviluppo e cioè quella parte che intendeva sbarrare agli alleati la Valle del Serchio. Avemmo per tale incarico contatti con l’ing. Dall’Aglio e col geom. Lazzarini inviati dal Comitato Clandestino salvo se altri che non ricordo. In qualità di Geometra fui così incaricato sempre dal G.A.P. di occuparmi di tale problema unitamente ad altri amici utilizzando anche la collaborazione del titolare della ditta edile ‘Carrara’ obbligata a lavorare per i tedeschi a tale opera.”. Quando gli americani della Divisione Bufalo arrivarono il 2 settembre 1944 a Vorno, accolti festosamente dagli abitanti, ci fu una distribuzione di cioccolate, di sigarette e di scatole contenenti generi alimentari. Pensa a descrivercela lo stesso Lindo Boccamaiello: “Dentro c’era di tutto: scatolette di meat and vegetables (spezzatino di carne e fagioli), un pacchettino di cinque sigarette Chesterfield, una scatoletta rettangolare con il coperchio apribile a formare un rudimentale, ma funzionalissimo fornelletto con dentro tre o quattro pasticche combustibili, c’era anche del pane bianco. Uh! Il pane bianco! E, se non ricordo male, c’erano anche gli stuzzicadenti e la carta igienica.”. Un’altra descrizione dell’arrivo a Lucca degli Alleati la troveremo nello scritto di Mario Pellegrini, nel secondo volume: un soldato gli offre delle barrette di chewing-gum: “Me ne misi subito una in bocca, la masticai e poi la ingollai, da tanto che era buona. Fu questione di un attimo, e il soldato che me l’aveva offerta, cominciò a sganasciarsi dalle risa, mentre con la mano faceva segno di no. Ma non fu questo a meravigliarmi, bensì le due fila di denti bianchissimi che spuntavano da dentro la bocca di una faccia più nera del carbone; così come il palmo biancastro della mano che, appunto, continuava a farmi segno che non avrei dovuto ingollare quella tavoletta.”. Il 1944 fu un anno, non solo per Lucca, di rastrellamenti e di eccidi a partire da Sant’Anna di Stazzema, fino alla Certosa di Farneta e l’assassinio di don Aldo Mei di cui Leila Cicognani Lupetti ci dà questi dettagli: “avevano sentito il rumore dei passi cadenzati dei tedeschi accompagnati dalla voce di un uomo che pregava. Seguendo tali informazioni andarono a Porta Elisa, uscirono all’esterno e, osservati dei tedeschi che vigilavano in un tratto delle mura sovrastante il prato che le circondava, raggiunsero quel luogo e vi notarono la terra smossa da poco tempo. Scavarono un po’ e apparvero i piedi di Don Mei rannicchiati in quella piccola fossa che era riuscito a scavare con le sue forze modeste. Fu avvisato subito il vescovo, il quale, dimostrando un grande coraggio, partecipò con buona parte della popolazione lucchese non ancora sfollata. Il corteo funebre, infatti, era così lungo che, quando raggiunse il cimitero, la sua fine era sempre sotto Porta San Donato.”. Tristano Borelli ci descrive i tedeschi in un rastrellamento a Massarosa, tra il 9 e il 10 agosto: “Pochissimi, e chiusi in una maschera come di indifferenza che solo raramente tradiva comprensione e pietà, quelli che avevano faccia umana. Gli altri parevano uomini, ma in essi non si vedeva luce interiore. Quasi tutti giovanissimi, avevano espressione e atteggiamento bestiali. Non sapevano ridere, ma sghignazzavano; quando muovevano il capo davano l’impressione di un’animalità feroce e sospettosa.”. Condotto, insieme con altri, alla Pia Casa, a Lucca, ci fa sapere che “C’erano molti tubercolosi, molti minorati, molti vecchi che male si reggevano sulle gambe. In un angolo della stanza un epilettico si dibatteva in terra in preda ad un accesso del male.”. Ritroveremo la descrizione della Pia Casa e delle condizioni miserabili in cui furono tenuti i prigionieri nella testimonianza di Antonio Fascetti: “Le animate discussioni tra reclusi venivano presto sedate da colpi di bastoni.”. Ricorda anche la generosità di un soldato tedesco: “io ricordo e ricorderò ancor più, la serena, quasi olimpica figura di una sentinella: un austriaco di mezza età, dal tipico passo barcollante del montanaro, che, appoggiato il pesante Mauser contro una pianta, tratto il suo pane lo tagliava contro il petto, in evangeliche parti che poi porgeva ai più affamati, con un sorriso.”. Ci fa sapere altresì, ricordando la figura di Don Francesco Salani, che il sotterraneo che unisce l’Arcivescovado alla Cattedrale di Lucca servì anche da rifugio contro i bombardamenti: “In occasione degli allarmi aerei ed anche quando passavano le gigantesche formazioni aeree americane dirette in Germania, mi portava nel sotterraneo che collegava la Cattedrale di San Martino col Palazzo Arcivescovile sicuro rifugio.”. Sul cannoneggiamento di Lucca, che colpì la Cattedrale abbiamo i dettagli di Carlo Tognetti: “Ricordo che, dopo la liberazione di Lucca avvenuta il 5 settembre del 1944, la città subì un cannoneggiamento da parte dei tedeschi che erano rimasti fuori delle mura cittadine dal lato di Porta Giannotti. Un proiettile colpì il tetto della Cattedrale in corrispondenza alla sottostante Cappella del Volto Santo. Una conseguenza immediata fu la caduta del globo di marmo posto alla sommità della cupola della Cappella. Tale globo cadde sull’inginocchiatoio dove era prevista la presenza, non verificatasi, dell’Arcivescovo Mons. Antonio Torrini, all’inizio del Triduo preparatorio della Santa Croce. Era l’11 settembre del 1944 e la bomba, a quanto appresi, era al fosforo. Se si fosse incendiata avrebbe potuto creare delle conseguenze molto più gravi. A testimonianza di questa bomba e dei suoi effetti è rimasto, per parecchio tempo, il colore giallo sulle colonne ed i marmi che rivestono i lati interni della chiesa. Andarono distrutte le vetrate ad eccezione di quella del Coro, dietro l’Altare maggiore, che erano state protette.”. Troveremo un ricordo di Giuseppe Francesconi, abitante a Massaciuccoli, sul dramma che vivevano silenziosamente alcuni soldati tedeschi: “Un momento di vero terrore lo provò tutto il paese quando si sparse la voce che al ‘Capuri’ era stato trovato un soldato tedesco morto. La buona sorte aveva voluto che questo povero giovane, stanco della guerra, prima di suicidarsi con la sua machine-pistole, avesse scritto un biglietto giustificativo che un contadino portò di corsa a mio padre per tradurlo. Questo biglietto fu il salvacondotto per evitare qualsiasi rappresaglia.”. Il 6 gennaio Lucca fu bombardata dagli Alleati. Verso le 13 “Cominciò allora l’urlo delle sirene che annunciavano il prossimo passaggio di aerei nemici.”. Ci troviamo a San Concordio e Massimo Bolognesi, che abitava proprio a San Concordio, si preparava ad andare a tavola coi suoi genitori: “sono stato travolto dalle rovine della casa, distrutta dalle esplosioni fino a ritrovarmi al di sotto del livello stradale, sepolto da un cumulo di macerie dalle quali non sarei stato assolutamente in grado di liberarmi.”. Quel bombardamento costò la vita ai suoi genitori: “Solo in seguito seppi che mia madre e mio padre non erano più in vita e che il momento del bombardamento era stato fatale per entrambi.”. Marisa Ciafrei porta la nostra attenzione sulle leggi razziali varate nel 1938: “Uno dei miei compagni di studi che frequentava il corso di flauto, dovette abbandonare la scuola perché era ebreo. Io avevo studiato un brano di Mendhelson da eseguire nei saggi pubblici annuali. La sua musica mi piaceva moltissimo ma, purtroppo, mi fu proibito di eseguirlo perché Mendhelson era ebreo. Grande impressione mi procurò vedere il negozio della famiglia Croccolo, in via Nazionale, devastato dai giovinastri in camicia nera perché era ebreo. A questo proposito devo ricordare la signora Giulia Croccolo, figlia del titolare del negozio, professoressa di italiano nelle scuole medie, allontanata dall’insegnamento per le leggi razziali. La professoressa era molto nota a Lucca per la sua eccezionale generosità.”; “La stampa clandestina la tenevo dentro il pianoforte.”. Più avanti troveremo anche la testimonianza del nipote di Giulia, Enrico Croccolo. Anna Francesconi scrive: “Ricordo che nel paese di Santa Maria a Colle vennero fucilati tre fratelli e che i tedeschi obbligarono il loro padre a scavare la fossa. Quel pover’uomo non si dette mai pace per quella tragedia e dopo poco morì, come impazzito per il dolore.”. Ornella Gabrielli Sesti, nata nel 1919, è la sorella di Carlo Gabrielli Rosi (del quale ci racconta molto della sua attività di partigiano) e la madre del noto vignettista de La Nazione Alessandro Sesti: “Mio fratello Carlo, che nel 1943-1944, frequentava l’ultimo anno del Liceo Classico, risiedeva nella casa di Lucca insieme alla zia Filomena, sorella della mia mamma. Mio marito, invece, Direttore della Sezione Zootecnica dell’Ispettorato dell’Agricoltura, abitava a San Marco (Lucca) insieme al fratello Rag. Alfredo e con la sorella Maria.”; “Dopo che il prof. Muston venne arrestato e rinchiuso in San Giorgio, Carlo riuscì a mettersi in contatto con Don Silvio Giurlani, Cappellano Militare che svolgeva un compito importante nella Resistenza Lucchese.”; “Il prof. Muston era membro del Comitato di Liberazione di Lucca e vi rappresentava il Partito d’Azione. I rapporti tra Carlo e il prof. Muston avevano avuto inizio diversi anni prima, anche perché Muston era stato mio professore all’Istituto Magistrale di Lucca, abitava vicino alla nostra casa, ed il rapporto di amicizia era aumentato ancora di più quando apprendemmo che, quando risiedeva a Roma, Aldo Muston era stato allievo del mio zio Michele.”. Si tratta di Michele Rosi, studioso insigne del Risorgimento italiano, al quale ha dedicato la monumentale opera in quattro volumi “Dizionario del Risorgimento nazionale”. Di lui ci offre un breve ritratto Renata Gabrielli, sorella più piccola di Ornella (nata nel 1921; il più piccolo della famiglia di tre figli, era Carlo, nato il 1924): “Nel 1931 lo zio Michele, che non volle mai prendere la tessera del partito fascista, dette le dimissioni dall’insegnamento e trascorse gli ultimi anni della sua vita nella nostra famiglia. La sua presenza incise moltissimo nella nostra educazione morale e politica. Aveva un grande affetto per noi nipoti che ricambiammo sempre con il nostro affetto per lui. Lo zio Michele, che era un uomo bello, alto e robusto, era stato colpito dalla paralisi infantile e tutta la parte destra del suo corpo era rimasta paralizzata. Per scrivere, ad esempio, doveva usare la mano sinistra e per camminare si doveva appoggiare al bastone. L’orto gli ricordava gli anni della sua infanzia alla Pieve di Camaiore dove era nato e, negli intervalli al suo lungo lavoro che iniziava alle cinque del mattino e concludeva a mezzanotte, camminava volentieri nell’orto. Per poter salire i gradini posti nell’ultima parte dell’orto, che aveva un piano più elevato, aveva fatto costruire dal fabbro Minghetti un bracciale di ferro al quale si sosteneva col braccio sinistro. Ancora per ricordare il periodo della sua infanzia alla Pieve di Camaiore, nella cucina al piano terra della casa aveva fatto costruire un forno con la volta di mattoni, nel quale si cucinava il pane e, per le feste, anche le torte. Ho insistito sulla figura dello zio Michele perché era un po’ come il nostro nonno. Infatti aveva diciannove anni più della mia mamma ed i nonni paterni e materni erano morti prima che i miei genitori si sposassero.”. Anche nella testimonianza di Renata si fa spesso cenno all’attività partigiana del fratello Carlo: “Carlo era rimasto a Lucca con la zia Filomena e frequentava l’ultimo anno del Liceo Classico Niccolò Machiavelli. In quell’anno le Scuole finirono con grande anticipo, ma, ciononostante, fece più di cinquanta giorni di assenza perché era impegnato in riunioni clandestine”. Girolamo Pieri ci dirà: “Carlo Gabrielli Rosi ci dava, per la distribuzione via bicicletta, anche dei veri e propri manifestini a stampa. Non ci diceva chi glieli procurava e, solo a fine guerra, ho saputo che li riceveva dal prof. Aldo Muston il quale, a sua volta, li riceveva clandestinamente dal Movimento Giustizia e Libertà di Firenze.”. Siamo a Pieve dei Monti di Villa: “In precedenza avevano gettato giù dal campanile della Pieve la bandiera tricolore che Carlo Gabrielli Rosi aveva portato da Lucca. Ricordo che era un tricolore senza lo stemma dei Savoia.”; “Carlo Gabrielli Rosi, con notevole spirito, si presentò al Comandante tedesco di Bagni di Lucca; fece presente che il suo nominativo non era in possesso del Comando tedesco ma che riteneva giusto presentarsi. Per sostenere la sua tesi egli aggiunse alcune parole che convinsero il Comandante tedesco di trovarsi di fronte ad un sostenitore della causa nazi-fascista. Questo suo comportamento lo mise in condizione di poter godere subito di una fiducia, da parte dei tedeschi, che gli altri non avevano.”. Mario Nannipieri ci fa sapere che sin da studente Gabrielli Rosi portava il pizzetto che l’accompagnerà per tutta la vita: “ci spostammo in una selva di castagni di Pieve dei Monti di Villa dove fummo raggiunti da un giovane col pizzo che appresi essere Carlo Gabrielli Rosi il quale era assieme a certo Girolamo Pieri di Pieve dei Monti di Villa.”. Odino Pieroni, superstite del “Gruppo Valanga”, scrive, a proposito della cappellina che ricorda la strage, che essa fu da lui “progettata su idea di Carlo Gabrielli Rosi e dei superstiti di Brucciano, realizzata con il contributo del Comune di Molazzana” e che la scritta sulla targa che ricorda il fatto di sangue è stata dettata dal prof. Augusto Mancini. Sul prof. Aldo Muston troveremo una biografia interessante tracciata dalla cognata Maria Sacchi in una lettera indirizzata a Carlo Gabrielli Rosi: “Egli era figlio di un pastore Valdese che aveva esercitato la sua missione a Livorno e anche a Lucca. Prima di partecipare alla prima Guerra Mondiale, dove fu ferito e decorato di Medaglia d’Argento al Valore, aveva studiato a Roma dove era stato allievo del tuo zio Prof. Michele Rosi. A questo proposito ricordo che, pochi anni dopo la sua morte, forse nel 1937, egli lo commemorò all’Istituto Artigianelli di cui il tuo Zio era stato un benefattore.”; “Il prof. Muston conosceva molto bene diverse lingue e in maniera particolare il francese e il tedesco. Queste due lingue, infatti, le parlavano quotidianamente nella sua famiglia. I suoi genitori provenivano dalla Svizzera; il padre dalla Svizzera francese e la mamma dalla Svizzera tedesca. Egli ascoltava alla radio anche i discorsi di Hitler e li traduceva direttamente in italiano.”. La testimonianza di Olivo Ghilarducci, scrittore e politico lucchese, eletto sindaco di Capannori nel 1990, ricorda questa coincidenza che lo riguarda: “Io sono Olivo Ghilarducci, nato a Capannori il 29 agosto 1944, nella tarda mattinata, nello stesso giorno e nella stessa ora in cui, sulle Apuane, si concludeva il sacrificio del Gruppo Valanga. Questa coincidenza mi ha sempre impressionato per il fatto che, seppure io potevo essere un uomo libero, nello stesso momento in cui nascevo, tanti giovani davano la loro vita.”. Ci racconta della morte di due sacerdoti riferitagli dalla zia Angelina: “Una mattina, mentre percorreva in bicicletta la Via Pesciatina, si trovò ad assistere ad uno spettacolo che non avrebbe mai voluto vedere. I due preti di Lunata, il priore Don Angelo Unti ed il Cappellano Don Bigongiari, uno dei quali era il suo confessore, venivano caricati sopra un camion ancora con la veste talare. Li spingevano battendo loro addosso il calcio del fucile. Tornò a casa piangendo e, dopo diversi giorni, seppero purtroppo della fine di questi due Eroici sacerdoti, torturati e uccisi nella scuola di Nozzano. Poi, perché non si vedessero le macchie di sangue schizzate sulle pareti, i tedeschi fecero saltare in aria l’edificio.”. Matteo Giannini, ci racconta di un amico che aveva militato nella Divisione fascista “Monterosa”, al quale, incontratolo nel 1952 in Argentina, decise di stringergli la mano “ricordando quanto, a suo tempo, Manrico Ducceschi ‘Pippo’ aveva detto, rimettendo in libertà un gruppo di soldati della Repubblica di Salò, che lui definì ‘I fratelli che hanno sbagliato’”. Giuseppe Labroni scrive del rastrellamento di Montefegatesi: “Mentre le sentinelle controllavano il paese dall’esterno, contingenti di soldati penetravano nel paese dalla strada del Cimitero e da quella di Ponticello, cioè dall’ingresso principale. Le porte delle case, delle capanne e delle stalle furono colpite e spinte con calci, spallate e a colpi di calcio di fucile; alcune cedettero, altre furono aperte dagli abitanti svegliati nel sonno.”. Una curiosità: i tedeschi si impadronivano anche dei fascioni di bicicletta, e allora Eny Lovi Simonetti “Stella” scrive: “Dopo l’8 settembre quando i tedeschi cominciarono a rubare le vacche, i cavalli ed anche le biciclette, continuai a usare questo mezzo ma, su consiglio del mio babbo, avevo tolto il ‘copertone’. Questo modo di camminare in bicicletta era oltremodo faticoso, specie con le strade del tempo che non erano asfaltate ed erano, invece, piene di buche, solitamente riempite con i sassi del fiume, spezzati in grossi pezzi dagli stradini spaccapietre.”. Troviamo menzionato anche Sergio Lunatici, nome e famiglia di imprenditori molto conosciuti a Barga e a Lucca, nella testimonianza di Cesare Lucignani: “Dopo aver sistemato la famiglia ritornai a Barga in motocicletta guidata dall’amico Sergio Lunatici che era reduce dalla Russia. Trovai la casa distrutta da una bomba di aereo e andai ad abitare da Amici.”. In una nota in calce alla testimonianza di Aquilio Lugnani troviamo ricordata la strage di Pioppetti, nei pressi di Camaiore, il 4 settembre 1944: “Trentadue rastrellati fucilati e poi attaccati ai rami di alti castagni con filo spinato per vari giorni, a severa ammonizione per i partigiani, che il Comando Germanico indicava come ‘Banditi’.”. La località Pioppetti fa ricordare un’altra località dal nome simile situata alla periferia di Lucca, nella zona di Sant’Alessio, Pioppeti, in cui il 27 luglio 1944, furono uccisi per rappresaglia sette civili. Nel secondo volume troviamo la testimonianza di Sergio Mariani a cui abbiamo dedicato un capitolo in questa raccolta. Viene raccontato, tra gli altri, l’episodio già riportato del campo minato e dell’incidente al piccolo Natalino. È una testimonianza molto ampia e dettagliata della sua vicenda partigiana, in cui racconta minutamente la sua prigionia e il suo ritorno a Lucca, dopo che è stata liberata. Giuseppe Marcheschi, che fu insegnante di mio figlio alle scuole elementari di Montuolo, nel 1944 era un ragazzino, essendo nato nel 1933. I tedeschi lo avevano preso a ben volere: “dai Padri Cavanis insieme ad altri ragazzi suppergiù della mia età, stanziava un gruppo di tedeschi con le loro carrette anfibie e le Side-car che tanto attiravano la mia attenzione. Mi piacevano quegli elmetti nordici e quelle divise con i mezzi stivaletti che risuonavano per le stanze della villa. Per quegli uomini duri io, forse il più piccolo del gruppo, ero una specie di mascotte; mi trattavano con riguardo come se sapessero che ero senza padre, spesso offrendomi qualcosa del loro misero pasto. Una coppia di motociclisti, soprattutto, mi faceva impazzire di gioia: io stavo tranquillo nel carrozzino mentre uno guidava e l’altro se ne stava ritto sul sellino di dietro con le braccia spalancate.”. Anche la moglie Antonietta Toccafondo ha lasciato il ricordo di una donna, Ida, che si era fatta credere vedova quando alla porta della sua casa bussarono i tedeschi per un rastrellamento: “Si era tutta vestita di nero ed aveva appeso alle pareti le foto dei familiari e le stava mostrando ai tedeschi per far intendere che lei era vedova e che tutti i suoi erano morti.” Riuscì a convincerli. Lorenzo Martini, che fu geometra alla Cassa di Risparmio di Lucca, e fratello dell’esponente dell’allora Democrazia Cristiana, Maria Eletta Martina (è presente anche una sua testimonianza), ci offre questo quadro relativo all’arrivo dei partigiani a Lucca: “Andato a vedere cosa era rimasto del ponte di Monte S. Quirico che i tedeschi prima di ritirarsi avevano fatto saltare in aria con le mine delle quali avevo notato i conduttori in occasione del passaggio vestito da prete, assistetti all’arrivo da oltre il fiume, dei Partigiani. Una lunga fila di uomini in borghese ed armati. Attraversarono il fiume sopra una passerella di tavole appoggiate ad alcuni galleggianti ed ai massi affioranti sopra l’acqua.”. Martini accenna al suo abito da prete in quanto nel vicino Seminario diocesano in questo modo si erano travestiti molti che si nascondevano ai tedeschi, i quali peraltro proprio nell’ala di levante del Seminario avevano collocato l’ospedale militare. Ricorda un malcostume che è stato oggetto del mio romanzo “La scampanata”: “era evidente il comportamento di alcune donne che si raggruppavano all’uscita della Porta S. Jacopo in attesa di un automezzo dell’esercito americano, insieme alle loro madri. La camionetta americana le portava a Tombolo, la pineta vicino a Pisa. Alla sera, o alla notte, le riportava a Porta S. Jacopo.”. La testimonianza di Don Sirio Niccolai mette a fuoco l’opera resistenziale compiuta dalla “Casa degli Oblati”, che ospitò e protesse un gran numero di rifugiati: “Negli anni cruciali della 2a guerra mondiale ci fu a Lucca una ‘casa’ che, per l’attività promossa e svolta dai Sacerdoti che l’abitavano, divenne centro di grande carità e di fattiva partecipazione alla Resistenza. Quella ‘casa’, chiamata allora e in seguito ‘Casa degli Oblati’ è situata in quella parte del vecchio Seminario diocesano che ha l’ingresso da Via del Giardino Botanico n. 2. Gli Oblati erano sacerdoti della diocesi di Lucca postisi volontariamente a disposizione dell’Arcivescovo per ogni occorrenza del servizio pastorale della Diocesi.”. Dettero rifugio a molti ebrei provenienti non solo da Lucca ma altresì da altre province, assistettero i tanti prigionieri rinchiusi alla “Pia Casa”: “senza interruzioni, gli Oblati poterono assistere i Deportati con una minestra calda, del vestiario e della frutta.”. Arturo Pacini, che fu senatore della Repubblica, non dimenticò mai il bombardamento di Lucca, cominciato alle ore 13 del 6 gennaio 1944: “Da dove abitavo si vedeva il cielo illuminarsi nell’avvallamento delle colline nella zona di Santa Maria del Giudice e si sentiva il rombo degli aerei e lo scoppio delle bombe: spettacolo incredibile che riempiva di stupore ma anche di angoscia e che veniva preannunciato dal suono penetrante delle sirene d’allarme. Suono che attraversava il cervello e trafiggeva l’animo.”; “Erano appena passate le 13 ed eravamo tutti in casa, mio padre era a letto ammalato. Scappammo subito. Mio padre si vestì alla meglio.”. Nella testimonianza di Don Arturo Paoli, volta ad illustrate la missione del sacerdote, troviamo una nota biografica sul prof. Carlo Del Bianco che, insegnante al Liceo Classico “Machiavelli” di Lucca, costituì con i suoi studenti “il primo gruppo partigiano della lucchesia.”. Laura Poggiani dedica la sua testimonianza al ricordo dello zio, il leggendario Manrico Ducceschi, “Pippo”: così le raccontava la mamma, sorella del Comandante: “Da piccolo aveva dei bei riccioli. È da non credere che poi, invece, sarebbe rimasto quasi calvo in età precoce. Era nato a Capua, dove nonna si trovava casualmente quando, andando a trovare i suoceri a Marcianise, le presero le doglie. Successivamente, molti confonderanno invece Capua con S. Maria Capua Vetere.”. Conferma, raccontando alcuni fatti, la generosità dello zio: (i ‘ragazzi’ sono i partigiani del gruppo): “Gli americani mandano un cassone di stoffa da distribuire ai ragazzi. Dopo qualche tempo va a trovarlo la moglie di un ragazzo rimasto sulle mine e, piangendo, gli dice che i suoi bambini, cinque o sei, sono mezzi nudi. Lui prende stoffa e cassone e glieli consegna. Viene il momento di spartire la stoffa, che ovviamente non c’è più. Qualcuno protesta ‘Ma gliel’hai data tutta?’ ‘E gliene volevi dare metà con tutti quei ragazzi?”. Troviamo anche la testimonianza del noto pittore lucchese Antonio Possenti, morto a 83 anni nel 2016, in cui fa accenno al nonno materno, il celebre prof. Augusto Mancini che tenne all’Università di Pisa la cattedra di Letteratura greca e latina dal 1907 al 1948, lasciata libera da Giovanni Pascoli, e che fu un esponente della Resistenza lucchese: “Un fatto abbastanza particolare fu quando, insieme con i miei familiari, andammo sulle mura, vicino al carcere di San Giorgio, dove era stato imprigionato il mio nonno materno Augusto Mancini. Poiché, per sfuggire alla cattura, il mio nonno si era tagliato la caratteristica barba che popolarmente lo distingueva, ricordo che, quando si affacciò alla piccola finestra che dall’Infermeria guardava le mura, per salutarci, io non lo riconobbi e domandavo ai miei se quella persona fosse davvero il nonno.”. Spiega perché suo nonno avesse per lui una “predilezione particolare”: “Il fatto era che, sin da allora, avevo una particolare predisposizione per il disegno, cosa che affascinava il mio nonno. Da lui mi veniva la richiesta di fare caricature di Mussolini, del Re e delle vicende che li riguardavano. Ne ricordo una raffigurante Mussolini che, travestito da giardiniere, si recava in incognito da Claretta Petacci. Questi disegni circolavano, con grande soddisfazione di mio nonno, tra i componenti del C.N.L. quando si riunivano clandestinamente. La figura del mio nonno è rimasta sempre presente nella mia vita. Il suo esempio e le sue doti di umanità sono ancora oggi un riferimento costante.”. Dalla testimonianza del prof. Antonio Romiti, presidente dell’Istituto Storico Lucchese e attivissimo promotore culturale, traiamo questo triste ricordo del suo cagnolino ‘Bubino’ quando era sfollato con la famiglia a Camigliano: “Un giorno, verso sera, mentre stavo seduto fuori della porta di casa, udii il rombo di un motore che si avvicinava dalla parte di Piaggiori e poco dopo apparve una grossa motocicletta con due soldati tedeschi. Bubino era sul ciglio della strada dalla parte opposta alla mia: il guidatore, appena lo vide sterzò improvvisamente, gli si indirizzò contro e lo investì con violenza, facendolo rotolare in una fossetta priva di acqua. La moto si fermò: i due scesero e uno di loro estrasse la pistola, finendo quel povero cagnolino che ormai, così ridotto, aveva appena la forza di lamentarsi; poi lo presero per le zampe, lo caricarono sulla moto e, dopo aver gridato ‘sapone, sapone’, pensando al materiale che ne avrebbero ricavato, se ne andarono.”. Volete sapere qualcosa sul matrimonio di “Pippo”, il leggendario Comandante della XI Zona Partigiani, che si celebrò a Casabasciana? Ce ne parla lo stesso celebrante don Dino Santini: “Nel mese di maggio il Comandante partigiano ‘Pippo’ (Manrico Ducceschi) mi espresse il desiderio di sposarsi con una donna originaria del pesciatino. Date le difficoltà del momento per avere i richiesti documenti, mi avvalsi delle speciali facoltà concesse per quel periodo eccezionale d’accordo anche col Vicario Foraneo. Mentre ancora stavo perfezionando la necessaria documentazione, improvvisamente, ai primi di giugno, mi si presentò il detto Pippo con alcuni partigiani e mi disse che bisognava procedere immediatamente al matrimonio. Disse che era imminente uno scontro con le forze tedesche e che, prima di una possibile sua morte, voleva sistemare la posizione della donna che amava. Feci presente che era difficile trascrivere allo stato civile il matrimonio (era anzi praticamente impossibile, in quanto il Comune di Bagni di Lucca era amministrato da personale repubblichino). Mi fu risposto dallo stesso Pippo che lui come comandante della zona rappresentava la legittima autorità (se non di fatto, di diritto) e che, pertanto si assumeva lui ogni responsabilità di natura civile. Tenendo conto della difficoltà del momento e cautelandomi col far firmare dagli interessati e dai testimoni le motivazioni della celebrazione anomala di tale matrimonio, acconsentii a procedere senza le Pubblicazioni, e con il patto di sospendere la trascrizione per gli effetti civili a data da stabilirsi, quando fosse cessato lo stato di emergenza in cui ci si trovava. Di fatto tale matrimonio fu poi trascritto allo Stato Civile di Bagni di Lucca a Liberazione avvenuta.”. (Non sono riuscito a trovare, malgrado ricerche, il nome della sposa). Di Pippo troviamo questo ricordo nella testimonianza di Edmondo Toschi, che aveva avuto l’ordine di prendere in carico: “tre giovani sardi che erano sbandati e senza collegamenti. Li portammo alla Rafanella da Pippo il quale, proprio pochi minuti prima, aveva giustiziato personalmente un giovane Partigiano che, insieme ad un altro, era andato in una famiglia di Limano per farsi dare dei soldi, dicendo che si presentava per ordine del comandante Pippo. Per tutelare l’onorabilità di tutta la Formazione e per dare un esempio a tutti gli altri, Pippo decise di fucilarlo e ci provvide personalmente per non caricare sulle spalle di altri questo compito così duro e doloroso. Ricordo che Pippo piangeva per quello che si era sentito in dovere di fare e ricordo anche che quei tre giovani sardi che avevo accompagnato poco prima, tremavano come foglie. Infatti non erano a conoscenza del motivo di questa fucilazione e credettero di essere caduti in mezzo ad un gruppo di persone violente. I tre giovani li consegnai al Vice Comandante John Wall e diventarono degli ottimi Partigiani, degni di rispetto.”. Sappiamo dalla testimonianza di Giovan Aldo Vannucchi che John Wall era un “Tenente sudafricano”. Questa che abbiamo fatto insieme, è stata una lettura minuziosa, alla ricerca di aspetti particolari che non abbiamo incontrato altrove, tali da completare il quadro della situazione lucchese nel tempo della Seconda guerra mondiale, e particolarmente nel tempo tragico che seguì l’armistizio dell’8 settembre 1944. Un ringraziamento speciale è dovuto a Carlo Gabrielli Rosi per la fatica immane che deve aver comportato la stesura di quest’opera indispensabile.
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